LETTERA AL LETTORE
· di Rebecca Lena
Forse non ho nulla da dire.
O almeno, ricevo continuamente informazioni, così tante che non le digerisco e le caco tutte intere. Circondata da opinioni triviali che mi mettono continuamente angoscia e nausea, idee-stampino, musica altrettanto prevedibile. Sai, mi spaventa tanto la necessità di doversi esprimere a tutti i costi, soprattutto quando le idee si propinano di bocca in bocca, di post in post, come regali riciclati, sgualciti, surrogati di valori plastici, franati da una discarica.
Nella vita di ogni giorno infatti mi appello al diritto di non aver niente da dire, sono piuttosto muta nella convivialità, nella scrittura invece, all’estremo opposto, mi appello al diritto di dover dire tutto e tutto insieme, attraverso il racconto di non-storie, deliri psicologici con finali interrotti che lasciano quella vaga sensazione che manchi qualcosa. Non soddisfacenti li definirei. Tu stesso l’hai detto, che leggermi ogni volta è come trovare un messaggio in una bottiglia in mezzo al mare: inizialmente l’euforia di stappare, sfilare il pezzettino di carta malmesso, intravedere alcune parole e poi, di colpo, la delusione di non riuscire ad afferrare nulla ad una prima lettura. Godo un po’ del tuo fastidio. Giuro, godo come quando piangono i bambini viziati.
Odio il consumismo di storie; la letteratura, l’immagine, la musica per distrarre. Tutto ciò che cattura il lettore dentro un vortice accattivante di intrighi e colpi di scena. E lo soddisfa, almeno per pochi secondi.
Il senso profondo delle cose non è afferrabile in modo immediato, lo sai, bisogna guadagnarselo attraverso lo sforzo di una concentrazione che oggigiorno sembra un talento per pochi.
Quante cose soddisfacenti ci capita di leggere ogni momento, ci compiacciono per cinque secondi, e poi subito dimentichiamo? Vastità di emozioni conficcate dentro l’aforismo spicciolo del post, e che sopravvivono per pochissimo, giusto il tempo di uno swipe.
Lo dico a te, ma mi rivolgo soprattutto al cattivo consumatore che è in me (ci piace condannare gli altri proprio quando ci si sente in colpa in primis).
Ti dico: la distrazione verso la leggerezza è sempre più attraente, ma è una sconfitta. Ci impedisce di gustare davvero la complessità, di unirsi ad essa. Ci allontana dall’amarezza di non capire, che fa bene, anche se non sembra, perché ridimensiona l’anima.
Le cose complesse purtroppo non sono commerciabili, non attirano l’attenzione, non circolano, si oltrepassano senza nemmeno accorgersene.
Forse basterebbe respirare, intendo soffermarsi ogni tanto sopra un lungo respiro diaframmatico che ossigena e ristabilisce il tempo naturale. Ma di questo ti parlerò più tardi.
Qualche anno fa ho intrapreso un percorso di corrispondenza con i materiali, con i sogni, con i fenomeni tutti, in un processo di interazione reciproca, per non dire dialogo farraginoso, sfuggente persino a me stessa. Ma lento, concentrato, ed è solo là dentro che oggi mi vedo, anzi mi intra-vedo. Non in mezzo a due cose (realtà e sogno), bensì lungo il processo liquido che le unisce, che sfrangia i loro argini con un movimento imprevedibile e disomogeneo.
Bada bene, non parlo di un ponte fra la realtà e il sogno, ma di un nuotare in mezzo, lungo di essi. Ecco da dove provengono questi testi brevi e sbiaditi.
Ingold dice che esistono due tipologie di pensiero: il pensiero che unisce le cose e il pensiero che si unisce alle cose, il primo semplicemente connette due cose finite, il secondo si unisce al movimento impulsivo delle cose in continua e spontanea evoluzione.
Forse tento di giustificarmi quando dico che è molto probabile che mi perda, quando mi unisco alle cose, e nel raccontarle non trovi un finale ad effetto, o un messaggio chiaro; non so guidarti in un luogo sicuro, piuttosto ti abbandono in una grotta buia. Ma in fondo cosa importa? Non ho aforismi chiari, definitivi, che risolvano le tue ansie, piuttosto ho tutta un’altra serie di altri dubbi e incertezze da proporti.
Qui dentro, in questo catalogo di emozioni e torpori, conchiglie e rametti, è come se mi divertissi a scolpire piccole statuette antropomorfe non completamente definite. Nel loro cuore innesto una manciata di emozioni drammatiche, alghe, deliri psicosomatici (meglio abbondare), per vedere quanto presto prendono vita e fuggono via alla ricerca di un loro simile. Le guardo correre lontano, verso la battigia, poi inghiottite da un’onda. Le ritengo piccole figlie votive che osservo nascere e morire con diletto – e, anche se non sembra, con distacco – come uno spiritello a metà fra il divino e il demoniaco.
Ti dico anche: cercare e interpretare strutture.
Forse è un sintomo di apofenia, forse no.
I fenomeni naturali per me sono frasi psicologiche da interpretare, i sogni di qualcuno che ci ingloba nella sua creazione. Oppure sono i nostri sogni, il mio specialmente – e il tuo se ti proietti nella prima persona – che fuoriescono dal groviglio della coscienza per connettersi alle cose. Bisogna soffermarsi su di essi per capire gli schemi che ci sorreggono, le emozioni celate.
Anche se a volte non mi è chiaro chi genera chi. Se sono le cose del mondo a rappresentare – attraverso testure, forme, luci – le sensazioni già presenti nell’animo, oppure sono quelle stesse cose fisiche a suscitarle completamente. Prendo l’esempio di un quadro, la sua contemplazione provoca emozioni nuove oppure tira fuori emozioni già presenti ma involontariamente nascoste (dato che l’osservatore e il quadro sono intrinsecamente connessi già alla nascita)?
Forse l’uomo e la natura si palleggiano emozioni a vicenda, da sempre, divenendo l’uno l’immagine dell’altro.
Quando guardo il mare e mi concentro sul rimescolio di parole che produce, non ne afferro di certo il linguaggio e il senso, che forse non è importante, piuttosto la cadenza ritmica, lo sciabordio di suono, immagine, olfatto, in cui poter abbandonare il processo incessante di produzione di pensieri; mi sembra d’un tratto di respirare.
Quando scandaglio il letto di un fiume e mi poso su ogni pietra, ogni pezzetto di ramo o foglia, ogni schifezza di ruggine o residuo plastico, in cerca di qualcosa che non so ma che spero abbia un valore e poi faccio un vuoto nella testa per diventare pura ricerca e d’un tratto la trovo – forse perché eravamo già connesse prima di trovarci – ma non so bene cosa sia, talmente è levigata dall’acqua quella cosa, ecco, quando mi fermo ad osservarla in ogni sua insenatura e la stringo nella mano come un amuleto: mi accorgo finalmente di aver respirato.
Senti quanto sia benefico concentrarsi, perché amplifica lo spazio, quanto sia energizzante scavare significati in balia di una tempesta di parole, anche sconosciute, farsi guidare nel nulla, creare un senso oppure un non-senso, fino a trovare un oggetto, o un’immagine, o un suono, ovvero un’interruzione del processo, improvvisa e non definitiva come la morte.
Spero che tu, in questa raccolta, riesca a trovare qualcosa di importante, anche solo un piccolo reperto, magari un po’ sbiadito, malmesso, ma che col giusto tempo e la giusta attenzione possa trasformarsi, un giorno, nel tuo talismano del respiro.
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