Il cibo e i poeti, il banchetto per Pascoli

La poesia nacque per allietare i banchetti,infatti, gli aedi, gli antichi cantautori, durante i banchetti regali cantavano le imprese degli eroi mitici, mentre durante i pasti nuziali intonavano la melica e la satira giambica e nel corso dei banchetti funebri l’elegia. Perciò la cornice conviviale dei piaceri della tavola, scanditi quasi come se fossero su uno spartito musicale dai brindisi dei convitati, è strettamente legata con l’arte della parola. Nonostante questo legame viscerale tra cibo e arte poetica, la letteratura l’ha scelto poche volte come centro di interesse, soprattutto per quanto concerne la preparazione delle pietanze. I riferimenti gastronomici erano considerati impoetici. Il grande poeta simbolista italiano, Giovanni Pascoli, nel suo “romanzo georgico”, i Poemetti, fu tra i primi a sublimare nella poesia i riti della preparazione di pietanze, facendoli assurgere ad opere d’arte in quanto eseguiti con amore e maestria.

NAPOLI

Il cibo nelle opere di Pascoli assume a seconda dei casi ruoli e funzioni assai diversi: la sua scelta quindi, come quella di oggetti e di luoghi, non è casuale ma fatta perché apportatrice di precisi significati che possono essere slegati da una descrizione di un prodotto o di una ricetta e più collegati a quella di un atto di preparare o trasformare una materia alimentare. Il banchetto in particolare, all’interno della poetica pascoliana, è una metafora della vita e della morte. Il momento conviviale, generalmente simbolo di unione e coesione tra persone che condividono tra loro qualcosa o che sono parenti, è per il nostro protagonista fonte di inquietudine, esempio della sua relazione col senso del vivere; la vita è intesa infatti sostanzialmente come un banchetto dal quale si può essere scacciati all’improvviso. Interessanti a tal proposito sono anche le metafore che utilizza per delineare il comportamento del giusto invitato e quindi, per associazione, dell’uomo che deve avere nei confronti della vita. La morte, tema dominante nella poetica pascoliana, emerge inevitabilmente anche nelle metafore conviviali o a tema cibo ma anche nelle credenze dei propri territori alle quali il poeta fa costantemente riferimento. C’è una tradizione di matrice popolare presente in Romagna che vuole che i morti della famiglia assieme ad altre entità possano, in determinate occasioni, avere accesso libero alla casa; Quindi, di sera era opportuno di non lasciare la tovaglia sulla tavola e lasciare del cibo per non attirarli. A questa usanza fa riferimento la poesia “La Tovaglia” facente parte della raccolta “I canti di Castelvecchio” del 1903. In questo componimento il poeta prega la sorella di non seguire la tradizione e far si che i morti amati, quelli dei parenti, possano giungere a casa. Le tradizioni contadine inoltre, unite alla descrizione delle ricette non sono solo descrizioni atte a documentare gli usi di una porzione di territorio italiano ma, attraverso esse, vengono costruiti significati simbolici, metaforici e rituali, che assumono grande valore per il poeta.

LA TOVAGLIA

Le dicevano: ― Bambina!
che tu non lasci mai stesa,
dalla sera alla mattina,
ma porta dove l’hai presa,
la tovaglia bianca, appena
ch’è terminata la cena!
Bada, che vengono i morti!
i tristi, i pallidi morti!

Entrano, ansimano muti.
Ognuno è tanto mai stanco!
E si fermano seduti
la notte attorno a quel bianco.
Stanno lì sino al domani,
col capo tra le due mani,
senza che nulla si senta,
sotto la lampada spenta.

È già grande la bambina;
la casa regge, e lavora:
fa il bucato e la cucina,
fa tutto al modo d’allora.

Pensa a tutto, ma non pensa
a sparecchiare la mensa.
Lascia che vengano i morti,
i buoni, i poveri morti.

Oh! la notte nera nera,
di vento, d’acqua, di neve,
lascia ch’entrino da sera,
col loro anelito lieve;
che alla mensa torno torno
riposino fino a giorno,
cercando fatti lontani
col capo tra le due mani.

Dalla sera alla mattina,
cercando cose lontane,
stanno fissi, a fronte china,
su qualche bricia di pane,
e volendo ricordare,
bevono lagrime amare.
Oh! non ricordano i morti,
i cari, i cari suoi morti!

― Pane, sì… pane si chiama,
che noi spezzammo concordi:
ricordate?… È tela, a dama:
ce n’era tanta: ricordi?…
Queste?… Queste sono due,
come le vostre e le tue,
due nostre lagrime amare
cadute nel ricordare! ―

*Ancora una poesia profonda e struggente, del grande Pascoli. Come sempre il tema centrale il desco familiare, il nido, il cibo come atto di unione e la morte fine e separazione. È talmente grande la nostalgia dei cari persi così tragicamente che trova spunto da un’antica tradizione che vuole che nel giorno dei morti, hanno il permesso di sedersi alla tavola dei vivi e lì sostare un attimo per mangiare qualcosa se chi è rimasto lì ricorda e li attende. E lui immagina la figura della sorella che contro ogni raccomandazione e paura mette la tovaglia e lascia del pane innaffiato di lacrime, le stesse che i cari estinti verseranno su quel cibo fatto di ricordi di passati pranzi, di passate gioie.

“Chanson d’automne ” i lunghi singhiozzi dei violini d’autunno…

“Chanson d’automne ” (“Canzone d’autunno”) è una poesia di Paul Verlaine (1844–1896), uno dei più conosciuti in lingua francese . È incluso nella prima raccolta di Verlaine, Poèmes saturniens , pubblicata nel 1866 (vedi 1866 in poesia ). La poesia fa parte della sezione “Paysages tristes” (“Paesaggi tristi”) della raccolta. Nella seconda guerra mondiale i versi del poema furono usati per inviare messaggi dallo Special Operations Executive (SOE) alla Resistenza francese sui tempi dell’imminente invasione della Normandia . Il poema molto musicale dà l’effetto monotono di un violino. All’età di 22 anni, Verlaine usa il simbolismo dell’autunno nella poesia per descrivere una triste visione dell’invecchiamento. In preparazione per l’operazione Overlord , Radio Londres della BBC aveva segnalato alla Resistenza francese con i versi di apertura del poema di Verlaine del 1866 “Chanson d’Automne” che dovevano indicare l’inizio delle operazioni del D-Day sotto il comando delle Operazioni speciali Esecutivo.

NAPOLI

Canzone d’autunno

I lunghi singhiozzi
Dei violini
Dell’autunno
Feriscono il mio cuore
Di un languore
Monotono.

Tutto soffocante
E livido, quando
Suona l’ora,
Mi ricordo
Dei giorni vecchi
E piango

Ed io me ne vado
Per il vento malvagio
Che mi porta
Di qua, di là,
Simile alla
Foglia morta.

Chanson d’automne
Les sanglots longs
Des violons
De l’automne
Blessent mon coeur
D’une langueur
Monotone.

Tout suffocant
Et blême, quand
Sonne l’heure,
Je me souviens
Des jours anciens
Et je pleure

Et je m’en vais
Au vent mauvais
Qui m’emporte
Deçà, delà,
Pareil à la
Feuille morte.

Paul Verlaine

  • Ed io me ne vado di qua e di là,simile ad una foglia morta. Versi e metafore struggenti. Una poesia particolare,con una storia singolare, di tempi tristi dove l’autunno è sinonimo di morte, di perdita. Temi ricorrenti per i poeti decadenti, con la loro visione noir della vita.

VIVERE 5 ORE? VIVERE 5 ETÀ? Guido Gozzano, la Salvezza sta nel sopore.

Guido Gustavo Gozzano (Torino, 19 dicembre 1883 – Torino, 9 agosto 1916) è stato un poeta e scrittore italiano. Nato da una famiglia benestante di Agliè, inizialmente si dedicò alla poesia nell’emulazione di Gabriele D’Annunzio e del suo mito del dandy. Successivamente, la scoperta delle liriche di Giovanni Pascoli lo avvicinò alla cerchia di poeti intimisti che, poi, sarebbero stati denominati “crepuscolari”. Guido Gozzano nasce il 19 dicembre 1883 ad Agliè, in provincia di Torino, in una famiglia dell’alta borghesia piemontese. Gli studi del poeta sono piuttosto travagliati: bambino svogliato, ha bisogno di un’insegnante privata per terminare le elementari; al liceo viene prima bocciato, poi trasferito in un collegio e infine torna a Torino, dove consegue la maturità nel 1903, la sua prima poesia nota, è dedicata alla madre: Primavere romantiche. Iscritto a Legge, Gozzano iniziò a frequentare i corsi di letteratura di Arturo Graf e la Società della Cultura, un circolo fondato nel 1898 da alcuni tra i più importanti intellettuali piemontesi, il poeta non apprezza particolarmente il circolo, che si rivela però fondamentale per la sua formazione e la sua carriera. Nel 1906, nella Società di Cultura, conosce Amalia Guglielminetti, con la quale inizia l’anno dopo una tormentata relazione: è un anno avaro di componimenti, dedito com’è al progetto di raccogliere in volume i suoi lavori, Il risultato è il volume La via del rifugio, raccolta di 30 poesie, tra le quali spiccano La via del rifugio, che dà il titolo alla raccolta. Il libro è accolto favorevolmente dalla critica, con l’eccezione di Italo Mario Angeloni. Il 29 agosto Rina Maria Pierazzi, sulla rivista « Il Caffaro », rimproverando il « critico poco sagace » di averlo giudicato « un empio », considera invece la poesia di Gozzano « una pura vena di acqua sorgiva ». Il successo ricevuto è presto turbato dalla diagnosi di una lesione polmonare (che si rivelerà dovuta alla tubercolosi). Nella speranza di guarirla, Gozzano inizierà a spostarsi alla ricerca di climi caldi e marini, in particolare in Liguria. Nel 1911 esce il suo libro più importante: I colloqui (a questa raccolta appartiene la famosa poesia La signorina Felicita ovvero La felicità). Nel 1912, sempre più gravemente ammalato, Gozzano decise di imbarcarsi per l’India alla ricerca di un clima migliore. Da questo viaggio scrive: Verso la cuna del mondo. Lettera dall’India.
Muore nel 1916. La triste e precoce consapevolezza della propria morte trapela molto presto nelle poesie di Gozzano, ma è sempre filtrata con distacco ironico. Con questa certezza dolorosa, unita al senso della malattia e alle delusioni amorose è costretto a scontrarsi un altro elemento tipico della produzione del poeta: il suo romantico desiderio di amore e felicità, raggiungibili nelle “cose piccole”, quotidiane e serene.

NAPOLI

È l’ora del crepuscolo per Guido Gozzano. Ha ventisette anni quando scrive questa poesia, ma sa che la morte sta per raggiungerlo. La sua vita finirà cinque anni più tardi, stroncato dalla tisi che lo affliggeva da tempo. Di fronte a questa situazione, per Gozzano c’è solo un modo per sopportare il dolore: quel sopore che lui chiama Salvezza, la giovinezza non c’è più, “non ha ritorno il riso mattutino” e allora non ha importanza vivere cinque età – ovvero infanzia, adolescenza, gioventù, età adulta e vecchiaia – se si è perduta la fase più bella della vita. Non rimane che dormire per risvegliarsi al mattino, il momento migliore non solo della giornata, ma anche della vita, in un giorno qui inteso come metafora dell’esistenza intera.

Salvezza

Vivere cinque ore?
Vivere cinque età?…
Benedetto il sopore
che m’addormenterà….

Ho goduto il risveglio
dell’anima leggiera:
meglio dormire, meglio
prima della mia sera.

Poi che non ha ritorno
il riso mattutino.
La bellezza del giorno
è tutta nel mattino.

*Versi molto diversi dalla giocosità delle “Golose”, la sofferenza e la malattia sono compagne che distruggono il corpo e l’anima di chiunque. Alla fine il poeta “dal sorriso buono” ha un’amara chiusa sarebbe stato meglio addormentarsi subito che vivere le fasi della vita senza poterne godere appieno la gioia.

I poeti e il cibo, a tavola con Ungaretti

Il poeta dice di amare il vino ed il cibo semplice. Il suo pasto preferito prevedeva gli spaghetti burro e formaggio e una bistecca alla fiorentina accompagnata dalla salsina “Allegria”.
Ungaretti, nato nel pittoresco brulicare di Alessandria d’Egitto, profumata d’aglio e di particolarissimi aromi vegetali, passato poi alle raffinatezze della cucina francese, alla popolaresca sapidità di quelle regionali italiane, ed ai piccanti sapori di quella brasiliana, sa evocare colori e gusti, con una magica evidenza, sa liricizzare il ricordo di ogni vivanda, anche la più semplice. Ungaretti è di gusti semplici: predilige gli spaghetti al burro e formaggio, lo stoccafisso alla livornese e la bistecca alla fiorentina. Poco vino, ma buono. Non ha preferenze. Il vino è come la poesia, riassume paesaggi morali ed è anche il frutto delle sostanze che compongono il terreno di cui si nutrono i vitigni, qualcosa del cielo e della terra, del lavoro umano e del sole. Mosto che si fa vino, la poesia della natura in una alchimia ineffabile.
Nel 1963, Marin San Sile incontrò il grande poeta regalando ai lettori un magnifico articolo.
contenente anche le ricette preferite dell’Ermetico Sommo Poeta.

Spaghetti alla Ungaretti
Dose per 4 persone

Spaghetti piuttosto fini – 400 gr
Parmigiano grattugiato – 40 gr
Burro – 80 gr
Un pizzico di cumino
Un pizzico di noce moscata
Un cucchiaio di pan grattato finissimo
Sale

Lessare gli spaghetti in acqua bollente e salata. Far dorare il burro. Mescolare il pan grattato con il cumino, la noce moscata e il formaggio. Scolare gli spaghetti, versarli in una terrina ed unire il formaggio con altri ingredienti. Rimescolare, aggiungere il burro e mescolare ancora. Servire subito gli spaghetti ben caldi.

Salsina Allegria
Per bistecca alla fiorentina

Olio di Lucca – 10 ml
Gherigli di noce tritatissimi – 20 gr
Rapatura di un limone
Succo di mezzo limone
Mollica di pane raffermo
Aceto
Foglioline di erbe aromatiche (raccolte personalmente durante una passeggiata) cioè:
Mentuccia
Nepitella
Bacche di Ginepro o Barbe di finocchietto selvatico
Un pizzico di pepe

Ammorbidire la mollica di pane nell’aceto cotto, ed aggiungervi le foglioline delle erbe aromatiche battute finemente. Mescolare a questo composto tutti gli altri ingredienti e conservare al fresco in una terrina di coccio.

*Anche l’ermetico Ungaretti amava stare ai fornelli…che dire provate le sue ricette e buon appetito

La poesia “Comica o giullaresca”

Con l’aggettivo “comico” nella letteratura del XIII-XIV sec. ci si riferisce a quelle opere di stile e argomento non elevato che si distinguevano da quelle considerate più alte, in base alla retorica medievale che individuava tre stili diversi (uno alto e “tragico”, proprio soprattutto dell’epica e della lirica amorosa, uno medio e “comico” e uno basso ed “elegiaco”, che corrispondeva a componimenti quali il lamento d’amore o il compianto funebre). La poesia comica o comico-realistica includeva perciò tutti quei testi che in quanto a linguaggio e temi non rientravano negli altri due filoni e il termine non si riferiva al concetto classico di “commedia”, né era sempre associato a contenuti tali da suscitare il riso nel pubblico, dal momento che le poesie “comiche” potevano anche affrontare argomenti politici ed essere usati per attaccare avversari con l’arma dell’invettiva. Il pubblico della poesia comica era per lo più popolare e molti testi di questo filone erano destinati alla tradizione orale, come nel caso della produzione giullaresca, ma i componimenti dei poeti più colti si rivolgevano a lettori di estrazione sociale elevata e presupponevano la conoscenza da parte del pubblico dei testi di stile alto, che non di rado venivano parodiati (questo accadeva specialmente con la lirica d’amore, le cui situazioni tipiche venivano rovesciate per creare il ridicolo e suscitare il divertimento nei lettori). Agli inizi del XIII sec. si diffonde in Italia una poesia destinata a un pubblico popolare, di cui sopravvivono poche testimonianze scritte in quanto non era pensata tanto per la lettura quanto per la recitazione di fronte a una folla di illetterati, da parte di attori girovaghi: noti come giullari, questi personaggi erano saltimbanchi e giocolieri (il nome deriva proprio dal lat. iocularis, “giocoliere”) che si esibivano di fronte a un pubblico improvvisato nelle strade, vivendo grazie alle offerte che raccoglievano con le loro esibizioni che, spesso, erano accompagnate dalla musica. Alcuni di loro eseguivano testi scritti da altri, mentre diversi giullari erano autori essi stessi delle proprie poesie e non mancavano tra loro personaggi colti, che a un livello più alto potevano esibirsi anche alla corte di signori feudali o addirittura sovrani, inoltre, i giullari durante i loro spostamenti raccoglievano e diffondevano le notizie, svolgendo quindi un importante ruolo sociale. D’altra parte, l’accoglienza che veniva loro riservata non sempre era benevola: in alcuni casi erano soggetti a bandi e invettive (la Chiesa durante tutto il Medioevo condannò più volte l’attività dei giullari), ma in altri luoghi erano incaricati ufficialmente di diffondere notizie.

NAPOLI

Leonardo Giustinian (1388 – 1446), poeta, politico e umanista italiano.
Poeta Veneto del XIV secolo, conosciuto anche come Leonardo Giustinian.
nacque a Venezia nel 1388 (morì nel 1446).
Fu membro e capo del consiglio dei dieci, poi procuratore a San Marco. Scrisse Epistole (Epistulae) in latino, orazioni e traduzioni dal greco. E’ celebre per le Canzonette e gli Strambotti, la cui diffusione a stampa è documentata dal 1474 in poi.
Furono componimenti, musicati dallo stesso Giustinian, che piacquero moltissimo e furono tanto imitati che le canzonette esemplate sul loro modello furono dette “giustiniane”.

Se li arbori sapesser favellare

Se li arbori sapesser favellare,
E le lor foglie fusseno le lengue,
L’inchiostro fusse l’acqua dello mare,
La terra fusse carta e l’erbe penne
Le tue bellezze non potria contare.
Quando nascesti gli angioli ci venne,
Quando nascesti, colorito giglio,
Tutti li santi furno a quel consiglio.

*Delizioso esempio di poesia popolare, cantata dai poeti giullari, erano testi semplici, fatti per divertire…tipo i cantanti pop di oggi ma col risparmio di Sanremo.

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Tremme

L’amore quello vero, passionale, intenso riesce a toglierti anche le parole per tradursi in un’emozione che ti fa tremare.

Tremme.
Si tu me guarde tremme,
si me staie accussì vicino
io tremme.
Me dice pecchè nun parle,
tu nun ossaje ca’ nun tengo parole…
A voce more se sbatte assaje ‘o core…
Tremme.
Si tu me vase tremme,
me scioglie comme cera,
sotto ‘e carezze toje
e ind’a stu silenzio,
tremme e more ‘pe te.

Tremo.
Se tu mi guardi tremo,
se mi sei così vicino
io tremo.
Mi chiedi perché non parli,
tu non lo sai che non ho parole…
La voce manca se il cuore batte forte…
Tremo.
Se tu mi baci tremo,
mi sciolgo come cera sotto
le tue carezze e in questo silenzio,
tremo e muoio di te.

Imma Paradiso.
Immagine:L’abbraccio di Klimt
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Poesia e cibo, a tavola nel Medioevo

Nel Medioevo, durante un banchetto, i convitati erano sistemati normalmente disposti a U, su lungo tavolo centrale e le due ali laterali con una rigida gerarchia di posti e contiguità.Ogni portata era servita in contemporanea a tutti gli invitati, secondo un rigoroso ordine di servizi che si succedevano.

NAPOLI

Generalmente le tavole più signorili dovevano offrire uno o due servizi di apertura, con frutta e verdure; a seguire i brodetti e le zuppe, anche a base di ravioli e lasagne in brodo. La frutta era servita all’inizio del banchetto
Dopo i primi venivano serviti i bolliti, per preparare gli stomaci al piatto forte ovvero all’arrosto di selvaggina di penna con corredi di salse, sostituito dal pesce se imposto dal calendario liturgico.

Dopo i secondi, si procedeva con altri due o tre servizi di chiusura a base di formaggi, torte e pasticci, dolci e vini liquorosi ed in ultimo spezie candite per aiutare la digestione per chi fosse riuscito a non perdere i sensi nel frattempo. A coordinare il tutto c’era la figura dello Scalco, ruolo chiave di responsabile del corretto taglio e porzionamento delle vivande, accompagnato da una “brigata di sala” composta da coppieri, vivandieri, servitori.

Immancabili i portatori di bacili per le mani, dal momento che era obbligatorio per il gentiluomo e la dama lavarsi le mani prima e durante il pasto. Il comportamento dei partecipanti al banchetto medievale doveva essere gentile, educato, signorile.

Si mangiava, e spesso si beveva, a coppie, condividendo lo stesso calice e utilizzando lo stesso piatto: molto frequentemente, nei tempi più antichi in particolare, il piatto era in realtà una grossa e spessa fetta di pane. Bianco e raffinato ovviamente! Poco dopo il mille, la musica profana, incominciò ad arricchirsi, soprattutto in Francia, per merito di poeti musicisti. Questi artisti erano nobili, feudatari, cavalieri e anche dame, comunque sempre personaggi della corte che non facevano i musicista di mestiere, ma si dilettavano a comporre canzoni da cantare durante qualche festa. Gli argomenti trattati dai trovatori e dai giullari erano naturalmente vari, ma soprattutto essi cantavano l’amore; un amore che aveva sempre i connotati della passione ideale, sublime, esclusiva, nei confronti di una donna che possedeva tutte le virtù e arrivava perciò a rendere più buono, più valoroso, più serio l’uomo che l’amava.La grandiosità di certi banchetti medievali e poi rinascimentali, arrivava probabilmente fino ai complessi musicali composti da numerosi elementi con strumenti a corda, a fiato, a tastiera e percussivi.

DANTE ALLA CORTE DEL RE ROBERTO
(Novella LXXI Sercambi)

Dante giunse alla corte di Napoli vestito con neglicenza, come “soleano li poeti fare”. Era ora di pranzo e, a causa del suo abbigliamento, fu messo in coda di tavola. Dato che aveva fame mangiò lo stesso, ma appena terminato il pasto lasciò la città. Il re, confuso per aver trattato male il grande poeta, gli inviò un messaggio e l’invitò nuovamente a corte. Stavolta Dante si presentò a pranzo riccamente vestito, per cui il re lo fece mettere in capo della prima mensa. Il servizio era appena iniziato quando il poeta cominciò a roversciare cibi e vini sui suoi abiti. Al re che, stupefatto, gli chiedeva i motivi del suo atteggiamento, rispose: “Santa corona, io cognosco che quel grande onore ch’è ora fatto, avete fatto a’ panni e pertanto io ho voluto che i panni godano le vivande aparecchiate. E che sia vero, vi dico io non ho ora men di senno che allora quando prima ci fui, che in coda di taula fui asettato, e questo fue perch’io ero malvestito. Et ora con quel senno avea son ritornato ben vestito e m’avete fatto stare in capo di taula.”

*Che bel caratterino il nostro Sommo Poeta, certo negligente il comportamento del re a non informarsi dell’importanza dei suoi ospiti affidandosi all’apparenza di un’ipocrita etichetta. Sottile e coraggioso l’ultimo atto di questo divertente raffronto dove alla fine il re si scusò sottomettendosi al valore del letterato e sorvolando sull’impertinenza del gesto.

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Noi siamo Amore

Tutto l’universo è un canto d’amore, un sottile, fragile equilibrio d’amore. È un bisogno insito e irrinunciabile. Infatti l’opposto è l’odio e quando esso prevale e l’equilibrio si rompe crolla tutto. Nessuno può vivere senza amare ed essere amato, nessuna creatura, neanche un filo d’erba cresce senza l’Amore del Sole e della Terra. L’opposto è l’odio, la guerra, la fine.

Noi siamo Amore.
Fiamme ardenti
che respirano
camminano
si nutrono.
Noi siamo Amore
con un cuore pulsante
caldo, vibrante,
come il sangue che
ci scorre nelle vene.
Noi siamo Amore
bisognosi di baci
che ci danno
linfa di energia,
mani, pelle,
toccarsi, sentirsi,
per volare
per esistere.
Noi siamo Amore
e nell’amore
cresciamo,
per essere felici…
Null’altro che Amore.

Imma Paradiso

NAPOLI

Sarà eterna notte

Spesso l’anima è prigioniera delle sue stesse angosce…come un cieco che non trova luce…si avverte il mondo come una landa fredda e desolata dove non si troverà mai chi riuscirà davvero a capirti o a tenderti una mano. Purtroppo è uno dei mali maggiori di questi tempi, la solitudine.

NAPOLI

Vedi sono cieco
non ho occhi.
Vago in un mondo freddo,
prigioniero delle mie angosce.
Allungo le mani a trovare
di che sfamarmi
ma l’anima non trova cibo;
ho mani lunghe
ma non ho occhi.
Non troverò la luce
sarà eterna notte,
una notte blù.

Imma Paradiso
Colazione di un cieco di Pablo Picasso

Tagore, il poeta dell’anima

“Se tu non parli” è una dolce poesia scritta da Rabindranath Tagore, un inno all’amore e alla donna. Mistico, saggio, veggente,  per  Tagore l’amore coinvolge tutto l’essere umano ponendolo in relazione a Dio. Amore non solo  come   sentimento, quindi, ma realtà completa di tutto l’uomo che, permeandolo e avvolgendolo, lo supera e lo trasporta oltre ogni barriera tra l’umano e  il divino. Sebbene il poeta se ne stia in disparte e in calma attesa, il sentimento cresce dentro di lui e lo porta a “sentire” la voce della persona amata, anche quando non parla.

Se tu non parli di Rabindranath Tagore

Se tu non parli
Riempirò il mio cuore del tuo silenzio
E lo sopporterò.
Resterò qui fermo ad aspettare
Come la notte
Nella sua veglia stellata
Con il capo chino a terra
Paziente.

Ma arriverà il mattino
Le ombre della notte svaniranno
E la tua voce
In rivoli dorati inonderà il cielo.
Allora le tue parole
Nel canto
Prenderanno ali
Da tutti i miei nidi di uccelli
E le tue melodie
Spunteranno come fiori
Su tutti gli alberi della mia foresta.

*Che meraviglia, quanto amore e rispetto in questi versi verso la donna amata. Rispetto per il suo silenzio, paziente attesa e la gioia infine di sentire quella voce che inonderà tutto di nuova luce come il sole del mattino.

NAPOLI

“Dove sta il più disprezzabile di tutti, / il più povero dei poveri / Tu regni” Tagore, poeta dell’anima

Rabindranath Tagore, chiamato talvolta anche con il titolo di Gurudev, nome anglicizzato di Rabíndranáth Thákhur (Calcutta, 7 maggio 1861 – Kolkata, 7 agosto 1941), è stato un poeta, drammaturgo, scrittore e filosofo bengalese.Poeta, prosatore, drammaturgo e filosofo bengalese, nacque il 6 maggio del 1861 nell’antica residenza famigliare di Jorasanko, a Calcutta, da una famiglia appartenente ad un’elevata aristocrazia che svolse un ruolo importante nella vita culturale, artistica, religiosa e politica del Bengala.Rabindranath era il più giovane di quattordici fratelli, molti dei quali divennero personalità importanti nel campo artistico e culturale.Nel 1874 muore la madre e lui vive col fratello maggiore Dwijendranath (1840–1926), poeta, musicista e filosofo, e la moglie di lui Kadambari (1858 – 1884). Pubblica le sue prime composizioni poetiche o drammatiche su riviste letterarie. Una delle prime è il poema Il lamento della natura.Nel 1902 muore la moglie, nel 1904 la figlia, nel 1907 il figlio più giovane. Il poeta è affranto dal dolore e scrive composizioni che riflettono il suo stato d’animo: Luna crescente, Soron, Nashta Nir Il nido distrutto, Chokher Bali Pugno nell’occhio. Dal 1907 al 1910 compone le 157 poesie che saranno pubblicate nella raccolta intitolata Gitanjali.Il mondo occidentale lo premia col Premio Nobel per la letteratura nel 1913.Tornato in India nel 1914 pubblica le 47 liriche di Balaka. il poeta è molto scosso dall’infuriare della guerra. In questi anni avrà i suoi primi incontri con Gandhi da poco rientrato in India dal Sud Africa. Nel 1921 realizza il progetto di trasformare la scuola di Santiniketan in un’università internazionale, La Vishva Bharati University. Ad essa devolve i proventi del premio Nobel e i diritti d’autore dei suoi libri. Partendo dalla contemplazione della Natura, Tagore giunge ad una concezione monistica, al credo nell’Assoluto, l’Uno onnivadente che si trova nell’immensità dei cieli, nella varietà della natura, nella profondità della coscienza.Per il poeta ogni creatura vale in quanto è tale, senza le inique distinzioni di casta o di classe.  Il poeta fu molto attento anche agli umili e ai derelitti, nei quali vedeva la presenza di Dio: “dove sta il più disprezzabile di tutti, / il più povero dei poveri / Tu regni”

Napoli

Rabindranath Tagore racconta il sentimento dell’amicizia nella poesia “Non nascondere il segreto del tuo cuore”.
La forza dell’amicizia è la disponibilità all’ascolto e alla comprensione senza limiti di tempo e in questo caso, proprio durante la notte, quando il resto del mondo dorme e nemmeno gli uccelli cantano, si consuma il senso dell’amicizia.

“Non nascondere il segreto del tuo cuore”

Non nascondere

il segreto del tuo cuore,

amico mio!

Dillo a me, solo a me,

in confidenza.

Tu che sorridi così gentilmente,

dimmelo piano,

il mio cuore lo ascolterà,

non le mie orecchie.

La notte è profonda,

la casa silenziosa,

i nidi degli uccelli

tacciono nel sonno.

Rivelami tra le lacrime esitanti,

tra sorrisi tremanti,

tra dolore e dolce vergogna,

il segreto del tuo cuore.

*Bellissimi versi che ben esprimono il dono prezioso dell’amicizia… l’ascolto…la disponibilità, la condivisione fatta con il cuore senza avere la presunzione di giudicare ma magari asciugare le lacrime. Quanta sensibilità, quanta dolcezza, quanto da imparare da questo Maestro di vita, quando la sofferenza diventa amore per gli altri.

Qui uccidono davvero!

Mai si fermerà il grido di pace, mai l’eco dei poeti dovrà spegnersi finché ogni zolla della terra gronderà sangue innocente… finché un giovane  sussurrerà “Qui si uccide…”

NAPOLI

“La guerra non è addestramento… qui uccidono davvero,
Questi sono i tuoi fratelli e figli.
Verrà insegnato loro a sparare alle persone con un cannone,
Insidioso dare l’ordine.”

Qui uccidono davvero…
Com’è il cielo in Ucraina?
Un tempo azzurro
un tempo era solo
un giorno come un altro.

Qui uccidono davvero…
Com’era il cielo ad Auschwitz
coperto di cenere
macchiava la neve.

Erano figli, erano fratelli,
erano uomini,
impararono a sparare
e quell’eco di cannone
si sente ancora
e ci ferma il cuore.

Imma Paradiso
Versi ispirati alla poesia “Viburnum” della poetessa ucraina Lyudmila Legostaeva, citati nell’incipit.

“Odio e amo” l’amore disperato di Catullo

Gaio Valerio Catullo intendeva l’amore come una forza devastante slegata da ogni forma di ragionamento logico e capace di istigare sentimenti come la gelosia e azioni come il tradimento.Il carattere irrazionale dell’amore si concretizza in Catullo come una rinuncia al controllo razionale.
“Odio e amo. Forse mi chiedi come ciò sia possibile.
Non lo so, ma sento che mi accade, ed è una tortura” Questi i versi con cui Catullo esprime l’ambivalenza della passione di cui si sente preda, e vittima di una dilacerazione irreparabile. L’evento cruciale della sua esistenza fu l’incontro, infatti, con una donna di cui si innamorò perdutamente e che cantò con lo pseudonimo di Lesbia. La storia d’amore che ne nacque, con una donna d’una decina d’anni in più, si sviluppa tra entusiasmi e depressioni, litigi e rappacificazioni; una storia esaltante e tormentosa che non è narrata direttamente dal poeta ma emerge dall’espressione dei suoi più intimi sentimenti. In alcuni carmi, l’amore appagato esplode gioiosamente ma, immediatamente dopo, la gioia è offuscata dalla gelosia e dall’amara consapevolezza che la donna amata non contraccambia la sua stessa totale dedizione. Un amore che, fin da subito, si profila proibito: Lesbia, infatti, non è una cortigiana ma una donna d’alto lignaggio sposata con un importante uomo politico. Altro disincanto è nel tentativo di recuperare la “fides”: sebbene il rapporto non sia fondato su un vincolo matrimoniale, Catullo mostra di aver sperato quanto meno su un impegno di affetto e lealtà reciproci ma l’amore del poeta è troppo ardente e Lesbia troppo infedele perché la sofferenza non sfoci in rancore. Le infedeltà ripetute fanno sì che l’affetto e la stima diminuiscano ma, allo stesso tempo, rendano ancor più ardente il desiderio; In Lesbia, insofferente di ogni giogo, che conosceva ogni arte d’amore, che forse non si era fermata nemmeno davanti al delitto se dobbiamo credere al ritratto che ne dà Cicerone , che coltivava le lettere e le arti, che alla bellezza univa la grazia dello spirito, Catullo vide incarnato l’ideale della bellezza femminile,
nelle sue poesie si rispecchiano i momenti inebrianti, le febbrili attese, i rapidi incontri, il desiderio inesausto, le rinunce alla propria dignità, la gelosia che avvelena l’animo, le parole ambigue, i sospetti, le invettive furenti contro i rivali, i vani giuramenti dell’infedele, l’amore caduto come un fiore reciso dall’aratro che passa, il tutto espresso con una sincerità e una immediatezza, che fanno del libro di Catullo un’opera unica e straordinaria nella storia della letteratura latina.

NAPOLI

Carme 85

Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris. Nescio, sed fieri sentio et excrucior.

Ti odio e ti amo. Ti interrogherai come sia possibile! Non lo so, ma lo sento e mi addoloro.

*Meravigliosi, intensi, profondi versi d’amore. Sembra una contraddizione, se si ama, non si odia, eppure quando l’amore è vero, bruciante può avere questa ambivalenza. In fondo odio e amore sono sentimenti che hanno la stessa forza e l’odio non fa che mascherare, in questo caso una dolorosa gelosia che diventa amara impotenza.

“Amo e odio” l’amore disperato di Catullo

Gaio Valerio Catullo ( Verona, 84 a.C. – Roma, 54 a.C.) è stato un poeta romano. Il poeta è noto per l’intensità delle passioni amorose espresse, per la prima volta nella letteratura latina, nel suo Catulli Veronensis Liber, in cui l’amore ha una parte preponderante, sia nei componimenti più leggeri che negli epilli ispirati alla poesia di Callimaco e degli Alessandrini in generale.Gaio Valerio Catullo proveniva da un’agiata famiglia latina che aveva contribuito a fondare la città di Verona, nella Gallia Cisalpina; A Catullo fu data un’educazione severa e rigorosa, come in uso all’epoca nelle buona famiglie. Morì alla giovane età di trent’anni. Durante il suo soggiorno prolungato a Roma ebbe una relazione travagliata con la sorella del tribuno Clodio, tale Clodia.Clodia viene cantata nei carmi con lo pseudonimo letterario “Lesbia”. Lesbia, che aveva una decina d’anni più di Catullo, viene descritta dal suo amante non solo graziosa, ma anche colta, intelligente e spregiudicata. La loro relazione, comunque, alternava periodi di litigi e di riappacificazioni.Da alcuni suoi carmi emerge, inoltre, che il poeta ebbe anche un’altra relazione, omosessuale, con un giovinetto romano di nome Giovenzio. 
Catullo è per noi uno dei più noti rappresentanti della scuola dei neòteroi, poetae novi, (cioè “poeti nuovi”), Catullo, infatti, non descrive le gesta degli antichi eroi o degli dei, ma si concentra su episodi semplici e quotidiani. La sua lirica dà, per la prima volta, voce all’individualità di una persona è al suo sentimento. Le passioni sono espresse in maniera vigorosa e immediata, con sincerità ingenua o duro realismo. La spontaneità delle poesie d’amore e passione di Catullo non trova eguali nella letteratura latina, così come non ci sono altri casi di amore sentito con una valenza etica così personale. Ha composto centosedici carmi per un totale di duemilatrecento versi pubblicati in un’opera unica, il “Liber”, che fu dedicata a Cornelio Nepote. Quindi il tema principale di tutti i componimenti di Catullo è l’amore per Lesbia/Clodia. Solo i carmina docta sono un’eccezione a questa regola, occupandosi di temi più impegnati. L’amore,  è un tema talmente caro a Catullo che egli, pur di sviscerarlo, rinuncia anche a tematiche più impegnative, quelle di carattere politico e sociale.
Le sue liriche ebbero da subito un grande successo, nonostante l’opinione di Cicerone, e influenzarono non solo i poeti elegiaci dell’età augustea (Tibullo, Ovidio, Properzio) ma anche Orazio e Virgilio. Le opere di Catullo trovano diversi richiami nella cultura italiana a partire da Petrarca e gli umanisti fino a Foscolo,

NAPOLI

Nel carme 5 è espresso il trionfo dell’amore tra Catullo e Lesbia; anzi, nell’ordinamento dell’opera, è questo il primo componimento che celebra la forza delle passioni in maniera spensierata e gioiosa. Il numero dei baci che Catullo desidera dare e ricevere da Lesbia (1000 e poi 100 e poi ancora 1000 e ancora 100) alla fine è talmente alto da perdere il conto agli amanti che non possono fare a meno di ricevere la benevolenza da chi vuol loro male.Catullo sa benissimo quanto è breve la vita e non ha intenzione di sprecarne un solo momento a dar conto alle dicerie dei malpensanti.

– Viviamo, mia Lesbia, ed amiamo

Viviamo, mia Lesbia, ed amiamo,
e ogni mormorio perfido dei vecchi
valga per noi la più vile moneta.
Il giorno può morire e poi risorgere,
ma quando muore il nostro breve giorno,
una notte infinita dormiremo.
Tu dammi mille baci, e quindi cento,
poi dammene altri mille, e quindi cento,
quindi mille continui, e quindi cento.
E quando poi saranno mille e mille,
nasconderemo il loro vero numero,
che non getti il malocchio l’invidioso
per un numero di baci così alto.

*Versi famosi, sussurrati da labbra innamorate, al culmine della passione… Cento, mille baci, mai troppi per chi arde d’amore da fare invidia al mondo intero, ben lo sapeva l’antico poeta che molto ha amato e molto ha cantato in uno stile meravigliosamente moderno. I baci non sono mai abbastanza…

Poeti e cibo, a tavola nell’antica Roma

Così inizia il carme 13 di Catullo, famoso poeta latino vissuto nel I secolo a.C. Ecco il testo originale:

NAPOLI

Cenabis bene, mi Fabulle, apud me
paucis, si tibi di favent, diebus,
si tecum attuleris bonam atque magnam
cenam, non sine candida puella
et vino et sale et omnibus cachinnis.
Haec si, inquam, attuleris, venuste noster,
cenabis bene; nam tui Catulli
plenus sacculus est aranearum.
Sed contra accipies meros amores,
seu quid suavius elegantiusve est:
nam unguentum dabo, quod meae puellae
donarunt Veneres Cupidinesque;
quod tu cum olfacies, deos rogabis
totum ut te faciant, Fabulle, nasum.

Cenerai bene da me, o mio Fabullo,
entro pochi giorni, se gli dei ti saranno propizi,
se prenderai con te una buona cena
abbondante, non senza una fanciulla
splendida, e vino, e sale, e tante risate.
Se, dico, prenderai queste cose, o vecchio mio,
cenerai bene: infatti il Catullo tuo
ha un portamonete pieno di ragnatele.
Ma in cambio avrai affetto autentico
e quanto vi è di più tenero e raffinato;
infatti ti darò un unguento che Venere e Cupido
hanno donato alla mia fanciulla.
Quando tu lo odorerai, chiederai agli dei
di farti diventare tutto un naso, o Fabullo.

L’attività poetica, a quanto pare, non doveva essere molto redditizia; benché già famoso, infatti, al verso 8 del carme Catullo confessa all’amico Fabullo, che si era autoinvitato a cena, di essere senza il becco di un quattrino, come diremmo noi adesso. All’ospite, quindi, non restava altro da fare che portarsi dietro il cibo, e non solo: avrebbe dovuto provvedere anche all’escort di turno, una “candida fanciulla”, magari procurarsi anche del vino e un po’ di allegria. Pare, infatti, che gli antichi Romani apprezzassero molto l’allegria e il divertimento, oltre che il buon cibo. In cambio di tutto questo ben di dio, però, Catullo era in grado di offrire all’amico un unguento meraviglioso che gli stessi dei dell’amore avevano procurato alla sua fanciulla, un unguento talmente odoroso che alla fine Fabullo avrebbe pregato gli dei di trasformarlo in un … naso. Era usanza, infatti, che ai convitati si offrissero dei profumi preziosi, in forma d’unguento, che di solito erano contenuti in pregiate boccette e, a seconda delle essenze profumate utilizzate, potevano essere davvero molto costosi. I Romani al mattino consumavano una frugale colazione, spesso con gli avanzi della sera, a base di pane e formaggio, olive e miele, preceduta da un bicchiere d’acqua. A mezzogiorno consumavano un leggero pranzo con pane, carne fredda, pesce, legumi, uova, frutta e vino, spesso in piedi, accompagnati dal mulsum, bevanda di vino miscelato a miele. Spesso si mangiava qualcosa dai venditori ambulanti e, con l’uso delle terme, dopo il bagno. Il pasto principale, il vero pasto dei Romani, era la cena, che iniziava fra le 15 e le 16 e, in particolari festeggiamenti, poteva protrarsi fino all’alba del giorno dopo. Nei tempi antichissimi si mangiava una zuppa di legumi, latte, formaggi, frutta fresca e secca, lardo. In tempi più evoluti, comparve il pane e la carne apparve anche sulle tavole dei poveri.

Quando a cena c’erano ospiti, il pasto era un “convivium”, con antipasti (“gustum”), piatti forti (“caput cenae”) e dessert (“mensa secunda”). Si mangiava sdraiati sul fianco, poggiando sul braccio sinistro e attingendo col destro i cibi e il vino. Essendo facile sporcarsi i convitati portavano una veste leggera (synthesis), che spesso veniva cambiata tra una portata e l’altra. Il vino e i piatti erano portati da giovani schiavi di bell’aspetto, con corte tuniche vivacemente colorate.
Nei versi di Catullo ciò che più conta non sono cibo e vasellame, ma il clima di rilassata amicizia, che rende possibile violare l’etichetta, come il poeta ha appena fatto con il suo non convenzionale invito in versi, espressione della raffinata urbanità e della familiarità cordiale che contraddistingue la cerchia di amici. All’opposto, la cena di Trimalchione, il liberto arricchito protagonista del più lungo episodio del Satyricon giunto fino a noi, celebra il trionfo assoluto del cibo: sette portate invece delle tre canoniche; un carosello di piatti che alla straordinaria varietà e abbondanza unisce la maniacale presentazione dei cibi, disposti in veri e propri allestimenti scenici capaci di coinvolgere anche la servitù in performance teatrali; Il cibo come simbolo di ricchezza e potere Il cibo imbandito per affermare una superiorità fondata sulla ricchezza. Uno dei casi più eclatanti è quello del nobile Lucullo, che al ritorno dalla guerra mitridatica (68 a.C.) impiegò le ricchezze accumulate in Oriente per vivere nel fasto più sfrenato, non a caso ancora oggi un pranzo raffinato e sfarzoso è detto «luculliano». Lucullo aveva perfino dotato le sue ville di allevamenti ittici (ospitati in apposite piscinae) e di riserve di volatili, per assicurare un facile e continuo approvvigionamento delle sue cucine.

*Lo sfarzo, la sontuosità dei banchetti, la voglia di godersi l’attimo, amore per il cibo, per la poesia, la musica, le donne…un popolo che si era imposto nel mondo con la sua forza e le sue leggi…Roma caput mundi.

Napoli per la pace ☮️

(ANSA) – NAPOLI, 08 OTT – “Abbiamo avuto una partecipazione straordinaria del mondo religioso, sindacale, delle università, delle scuole e del volontariato”. Lo ha detto il presidente della Giunta regionale della Campania, Vincenzo De Luca, al termine della riunione tenuta oggi a palazzo Santa Lucia per fissare definitivamente la data dell’iniziativa per la pace promossa dalla Regione. La manifestazione si terrà il prossimo 28 ottobre in piazza Matteotti a Napoli anche se, nel caso di una massiccia adesione, si potrà scegliere una piazza maggiormente capiente.
De Luca ed il sindaco di Napoli, Gaetano Manfredi, oggi hanno incontrato i rappresentanti di numerose associazioni e movimenti, oltre che dei sindacati “e mi pare che vi sia una grande voglia di partecipare ed una grande convinzione rispetto all’obiettivo che siamo dati ovvero la proposta di un cessate il fuoco in Ucraina. Non entreremo nel merito di valutazioni più politiche: vogliamo che la manifestazione sia aperta a tutte le forze di buona volontà. Senza rendercene conto noi ci stiamo avviando verso una guerra nucleare. Non è possibile e dobbiamo reagire per costruire la pace“.

NAPOLI

NON C’È PACE

Non cercarmi dove non sono
non guardare troppo in alto.
Il cielo è abitato dalle nuvole
che spinte dal vento
vanno lontano, in luoghi
sconosciuti, tra lingue diverse,
diversi i colori e identiche paure.
Io resto qui piccola cosa
ferma, inerme.
Resto qui, attaccata
a questa terra, dura,
dove si sparge ancora
il sangue degli innocenti.
Mi bagno delle lacrime
silenziose di un dolore
che vibra come onda.
Non ci sarà pace
nei cuori feriti
se ancora si eleva
il grido di morte.
Non ci sarà pace
se ancora si arma
la mano di Caino.

Imma Paradiso

*Non c’è futuro in una guerra nucleare, non c’è sopravvivenza, nessuna bandiera sventolerebbe vittoriosa…☮️

La maestra col talento da poetessa

Ada Negri (Lodi, 3 febbraio 1870 – Milano, 11 gennaio 1945) è stata una poetessa, scrittrice e insegnante italiana. È ricordata anche per essere stata la prima e unica donna a essere ammessa all’Accademia d’Italia. Ada Negri nacque a Lodi il 3 febbraio 1870. Le sue origini erano umili: suo padre Giuseppe era vetturino e sua madre, Vittoria Cornalba, tessitrice; L’insegnante di italiano, alla scuola di Lodi, nota il talento di Ada e la aiuta; dopo il diploma viene chiamata a insegnare a Motta Visconti, a una classe di ragazzi “sporchi e selvaggi” che tuttavia le piacciono tanto sono vitali rumorosi e spontanei. La ragazza segue il consiglio delle amiche e invia le poesie che scrive di notte al lume di candela al “Fanfulla”, il quotidiano di Lodi e all’ “Illustrazione popolare”. Sonia Albini, giornalista del “Corriere della Sera”, è colpita dalla scrittura irruente e dolorosa della giovane maestra di Motta Visconti e le dedica un articolo. Ada ha poco più di venti anni e diventa un caso letterario.
La raccolta di poesie Fatalità pubblicata dall’editore Treves nel 1892 viene accolta con entusiasmo e le spiana la strada della fama e della sicurezza economica: con decreto ministeriale Ada Negri viene nominata docente alla scuola Gaetana Agnesi di Milano, dove si trasferisce con la mamma Vittoria. Ottiene nel 1931 il Premio Mussolini per la carriera e nel 1940 (prima e unica donna) il titolo di Accademica d’Italia, dopo che già negli anni venti aveva sfiorato il Nobel (assegnato invece nel 1926 a Grazia Deledda). Muore nel 1945.

NAPOLI – ada negri – ADA NEGRI

È un canto di vita quello di Ada Negri, grande poetessa italiana del Novecento purtroppo spesso dimenticata.
Nata da una famiglia modesta, Ada è stata la poetessa della classe operaia. Lavorava come insegnante, la definirono la “maestra proletaria” perché fu una delle prime a denunciare attraverso la scrittura la miseria contadina. Al principio la sua fu quindi una poesia di denuncia, che le valse il soprannome de “La Vergine rossa” in riferimento al comunismo. Il tratto distintivo della sua poetica è dato tuttavia dalla semplicità della parola che diventa strumento di riflessione. I testi di Ada Negri non hanno bisogno di essere spiegati, sono evocativi e perfettamente compiuti in se stessi. Pasqua, lirica contenuta nella raccolta Poesie e prose è una poesia che si presta perfettamente alla celebrazione del periodo pasquale.
Parla di primavera e di rinascita, la resurrezione di Cristo allieta il cuore dell’uomo, così come la primavera fa fiorire i prati e sbocciare i fiori dopo un lungo inverno. La poesia di Ada Negri racchiude un’esortazione all’amore fraterno e un invito alla pace. Tutti devono amarsi, indipendentemente dalle differenze di classe e ceto sociale: i letterati devono amare i soldati, così come i contadini e gli operai.

Pasqua di Ada Negri

Io canto la canzon di primavera,
andando come libera gitana,
in patria terra ed in terra lontana,
con ciuffi d’erba ne la treccia nera.

E con un ramo di mandorlo in fiore
a le finestre batto e dico: Aprite,
Cristo è risorto e germinan le vite
nove e ritorna con l’April l’amore!

Amatevi fra voi, pei dolci e belli
sogni ch’oggi fioriscon su la terra,
uomini della penna e de la guerra
uomini de le vanghe e dei martelli.

Schiudete i cuori: in essi erompa intera
di questo dì l’eterna giovinezza;
io passo e canto che vita è bellezza,
passa e canta con me la primavera.

*Una maestra col talento di poetessa e i suoi componimenti spesso si leggono ancora nei libri di lettura delle classi elementari. Uno stile semplice ma che trasmette messaggi chiari e forti. Versi colmi di gioia, amore e pace universale fra gli uomini questo dovrebbe essere il significato della Pasqua.

L’Alba della vita

La vita e la morte sono due facce complementari di una stessa medaglia. Si muore appena si nasce e allo stesso modo si muore per rinascere ancora. È un ciclo perenne e perfetto…che dovrebbe svelare la meraviglia di ogni attimo che ci è concesso.

L’alba invade il cielo
in un trionfo aranciato,
così simile al tramonto.
Come se il giorno che nasce
portasse in sé il germe della fine.
Eppure è così vita e morte
camminano mano nella mano
ed hanno in sé mistero e bellezza.
Niente và perduto.

Imma Paradiso

NAPOLI

La bellezza dell’autunno della vita

La bellezza dell’autunno della vitaSono candide le mie tempie, il capo è calvo. La dolce giovinezza ormai è svanita e devastati sono i denti. Della vita gioiosa ormai mi resta solo il ricordo del suo tempo breve. Spesso mi lamento per la paura degli inferi. Tremendo è l’abisso dell’Ade e inesorabile la sua discesa. (Anacreonte). Spesso l’autunno è comparato ad una stagione della vita che ai nostri tempi è molto meno amata e rispettata che in passato, quella della vecchiaia, un crepuscolo destinato a condurci all’inverno che è morte. Eppure, come per l’autunno, ci sono segni di fascino e di bellezza anche in questa fase dell’esistenza e soprattutto c’è una lezione di vita da offrire. L’autunno della vita, in Oriente, è l’età del ritiro, di quel periodo in cui, assolti i compiti della famiglia e del lavoro, si comincia ad affrontare i temi più profondi della vita. Si parla di ritiro in quanto l’essere umano ritorna a se stesso, non più concentrato verso l’esterno, il mondo materiale, ma verso la conoscenza del senso della vita. In poche parole l’autunno dovrebbe essere periodo di consapevolezza, di ricerca interiore, d’assolvimento alle domande della vita vera. Ritirarsi non significa rifiutare la vita quotidiana, anzi, in questo periodo l’essere umano diviene più maturo, più ricco d’esperienza e quindi più idoneo e preparato ad assolvere compiti sociali, per la comunità, la nazione.Tratta dalla raccolta “Il dono“, pubblicata nel 1936, “Sole d’ottobre” della poetessa Ada Negri, costituisce infatti un autentico elogio del presente, dell’istante in cui siamo immersi, nell’autunno della vita. I componimenti de “Il dono” sono dedicati alla cara amica Delia Pavoni, reduce dalla traumatica perdita del figlio Massimo, appena ventenne. Le poesie racchiuse nel libriccino sono intrise di delicatezza, di affetto, di sincerità e di amorevole cura.Sole d’ottobre di Ada NegriGodi. Non hai nella memoria un giornopiù bello, un giorno senza nube, comequesto. E forse più mai ne sorgeràun altro così bello, pe’ tuoi occhi.Se pur l’ultimo fosse di tua vita– l’ultimo, donna -, sii contenta: rendinegrazie al destino.È così pura questagioia fatta di luce e d’aria: questaserenità ch’è d’ogni cosa intornoa te, d’ogni pensiero entro di te:quest’armonia dell’anima col puntodel tempo e con l’amor che il tempo guida.Non più grano né frutti ha ormai la terrada offrire. Sta limpido l’autunnosul riposo dell’anno e sul riposotu non temi la morte. Ora che il grembonon dà più figli, e quelli che ti nacqueroa’ tuoi begli anni già son fatti espertidel mondo e van per loro audaci vie,che t’importa morir? Quand’è falciatala spiga, spoglia la pannocchia, rossoil vin nei tini, e le dorate nocichiaman l’abbacchio, e fuor del riccio scoppiala castagna, che importa la minacciadell’inverno, alla terra?..O veramentetuo questo tempo, donna: o tua compiutaricchezza! O, fra due vite, la caducae l’eterna, per te libera sostadi grazia! Godi, fin che t’è concessa.Non sei più corpo: non sei più travaglio:solo sei luce: trasparente luced’ottobre, al cui tepor nulla maturaperché già tutto maturò: chiarezzache della terra fa cosa di cielo.*Versi belli e forti, apparentemente lievi come quel pallido sole d’autunno. È chiaro l’invito della poetessa, come la terra in autunno si prepara al meritato riposo dopo aver offerto ricchezza di frutti durante tutta l’estate così la donna, dopo il fulgore, la maternità e i doni offerti nella giovinezza ha il diritto di godersi con soddisfazione la nuova stagione cogliendo ciò che di bello le offre con la consapevolezza della completa maturità.

Sono candide le mie tempie, il capo è calvo. La dolce giovinezza ormai è svanita e devastati sono i denti. Della vita gioiosa ormai mi resta solo il ricordo del suo tempo breve. Spesso mi lamento per la paura degli inferi. Tremendo è l’abisso dell’Ade e inesorabile la sua discesa.
(Anacreonte). Spesso l’autunno è comparato ad una stagione della vita che ai nostri tempi è molto meno amata e rispettata che in passato, quella della vecchiaia, un crepuscolo destinato a condurci all’inverno che è morte. Eppure, come per l’autunno, ci sono segni di fascino e di bellezza anche in questa fase dell’esistenza e soprattutto c’è una lezione di vita da offrire. L’autunno della vita, in Oriente, è l’età del ritiro, di quel periodo in cui, assolti i compiti della famiglia e del lavoro, si comincia ad affrontare i temi più profondi della vita. Si parla di ritiro in quanto l’essere umano ritorna a se stesso, non più concentrato verso l’esterno, il mondo materiale, ma verso la conoscenza del senso della vita. In poche parole l’autunno dovrebbe essere periodo di consapevolezza, di ricerca interiore, d’assolvimento alle domande della vita vera. Ritirarsi non significa rifiutare la vita quotidiana, anzi, in questo periodo l’essere umano diviene più maturo, più ricco d’esperienza e quindi più idoneo e preparato ad assolvere compiti sociali, per la comunità, la nazione.

NAPOLI

Tratta dalla raccolta “Il dono“, pubblicata nel 1936, “Sole d’ottobre” della poetessa Ada Negri, costituisce infatti un autentico elogio del presente, dell’istante in cui siamo immersi, nell’autunno della vita. I componimenti de “Il dono” sono dedicati alla cara amica Delia Pavoni, reduce dalla traumatica perdita del figlio Massimo, appena ventenne. Le poesie racchiuse nel libriccino sono intrise di delicatezza, di affetto, di sincerità e di amorevole cura.

Sole d’ottobre di Ada Negri

Godi. Non hai nella memoria un giorno
più bello, un giorno senza nube, come
questo. E forse più mai ne sorgerà
un altro così bello, pe’ tuoi occhi.
Se pur l’ultimo fosse di tua vita
– l’ultimo, donna -, sii contenta: rendine
grazie al destino.

È così pura questa
gioia fatta di luce e d’aria: questa
serenità ch’è d’ogni cosa intorno
a te, d’ogni pensiero entro di te:
quest’armonia dell’anima col punto
del tempo e con l’amor che il tempo guida.
Non più grano né frutti ha ormai la terra
da offrire. Sta limpido l’autunno
sul riposo dell’anno e sul riposo
tu non temi la morte. Ora che il grembo
non dà più figli, e quelli che ti nacquero
a’ tuoi begli anni già son fatti esperti
del mondo e van per loro audaci vie,
che t’importa morir? Quand’è falciata
la spiga, spoglia la pannocchia, rosso
il vin nei tini, e le dorate noci
chiaman l’abbacchio, e fuor del riccio scoppia
la castagna, che importa la minaccia
dell’inverno, alla terra?..

O veramente
tuo questo tempo, donna: o tua compiuta
ricchezza! O, fra due vite, la caduca
e l’eterna, per te libera sosta
di grazia! Godi, fin che t’è concessa.
Non sei più corpo: non sei più travaglio:
solo sei luce: trasparente luce
d’ottobre, al cui tepor nulla matura
perché già tutto maturò: chiarezza
che della terra fa cosa di cielo.

*Versi belli e forti, apparentemente lievi come quel pallido sole d’autunno. È chiaro l’invito della poetessa, come la terra in autunno si prepara al meritato riposo dopo aver offerto ricchezza di frutti durante tutta l’estate così la donna, dopo il fulgore, la maternità e i doni offerti nella giovinezza ha il diritto di godersi con soddisfazione la nuova stagione cogliendo ciò che di bello le offre con la consapevolezza della completa maturità.

Kavafis, anticonformista tormentato

Konstantinos Petrou Kavafis, noto in Italia anche come Costantino Kavafis (Alessandria d’Egitto, 29 aprile 1863 – Alessandria d’Egitto, 29 aprile 1933), è stato un poeta e giornalista greco. Kavafis era uno scettico che fu accusato di attaccare i tradizionali valori della cristianità, del patriottismo e dell’eterosessualità, anche se non sempre si trovò a suo agio nel ruolo di anticonformista. La sua omosessualità anche se serenamente accettata, lo indussero a nutrire per tutta la vita un senso di chiusura, di segregazione vergognosa e necessaria. Potenze oscure e indefinibili lo hanno murato “inavvertitamente” in una stanza buia, insieme figura della passione e della paradossale ascesi interiore e artistica cui essa lo spingerà, dove il poeta sa di non poter trovare una finestra aperta sul reale e sulla libertà, ed è al tempo stesso lambito dal pensiero angoscioso che l’impossibile finestra gli recherebbe la luce troppo cruda di scoperte ancora peggiori della presente oscurità.

NAPOLI

“La città” di Konstantinos Kavafis è un componimento che parla di ciascuno di noi. Tutti, ad un certo punto della vita, sperimentano il bisogno di andare via, lasciare il porto conosciuto e abbandonarsi all’ignoto, al nuovo. Spesso, questo desiderio è associato alla necessità di superare una fase dolorosa del nostro vissuto. La poesia ci mostra come risulti difficile, però, ripartire da zero anche trovandosi in un posto nuovo se dentro e dietro di noi ci siamo lasciati solo macerie. Nato in esilio da una grecità decadente, cresciuto nel cuore dell’Europa, Costantino Kavafis, come l’argentino Borges e il portoghese Pessoa, è un poeta di periferia. Meglio: un poeta di periferie.

La città di Konstantinos Kavafis

Hai detto: “Per altre terre andrò, per altro mare.
Altra città, più amabile di questa, dove
ogni mio sforzo è votato al fallimento,
dove il mio cuore come un morto sta sepolto,
ci sarà pure. Fino a quando patirò questa mia inerzia?
Dei lunghi anni, se mi guardo attorno,
della mia vita consumata qui, non vedo
che nere macerie e solitudine e rovina”.
Non troverai altro luogo non troverai altro mare.
La città ti verrà dietro. Andrai vagando
per le stesse strade. Invecchierai nello stesso quartiere.
Imbiancherai in queste stesse case. Sempre
farai capo a questa città. Altrove, non sperare,
non c’è nave non c’è strada per te.
Perché sciupando la tua vita in questo angolo discreto
tu l’hai sciupata su tutta la terra.

*Non c’è un posto nel mondo dove trovare serenità se l’inquietudine ce la portiamo nel cuore. Non troveremo pace se lo sfacelo è dentro noi. Una poesia profonda e terribilmente vera, il fardello pesante di delusioni e rimpianti che accumuliamo nel tempo ci accompagnerà per sempre e ovunque.

È l’Altrove

Certi attimi…coinvolgenti, travolgenti, rapiscono in una dimensione senza tempo…

NAPOLI

Ricordo ieri.
Attimi di intenso oblìo,
vissuti nell’incoscienza
del nostro appartenerci.
Travolti dalla tempesta
perdemmo ogni senso.
È l’Altrove,
che ci rapisce
nella sua estatica
perfezione di piacere e
ci imprigiona con catene
di sensuale perfezione.

Imma Paradiso

Kavafis, anticonformista tormentato

Konstantinos Petrou Kavafis, noto in Italia anche come Costantino Kavafis (Alessandria d’Egitto, 29 aprile 1863 – Alessandria d’Egitto, 29 aprile 1933), è stato un poeta e giornalista greco. Kavafis era uno scettico che fu accusato di attaccare i tradizionali valori della cristianità, del patriottismo e dell’eterosessualità, anche se non sempre si trovò a suo agio nel ruolo di anticonformista.

NAPOLI

Pubblicò 154 poesie, spesso ispirate all’antichità ellenistica, romana e bizantina, ma molte altre sono rimaste incomplete o allo stato di bozza. Scrisse le sue poesie più importanti dopo i quarant’anni.ittoscorse ad Alessandria la maggior parte della sua vita, visitando la Grecia solo tre volte (nel 1901, 1903 e 1932).Di cospicua famiglia costantinopolitana poi decaduta, trascorse parte della giovinezza in Inghilterra; Il greco, la sua lingua poetica, lo dovette reimparare durante l’adolescenza. Impiegato per tutta la vita in un ufficio del ministero dei lavori pubblici d’Egitto coltivò quasi segretamente il suo amore per la poesia.
Un uomo riservato e decoroso, a tratti schivo, che conduce una vita ordinaria e quasi monotona: il lavoro presso l’ufficio irrigazioni del ministero dei Lavori pubblici d’Egitto, passeggiate – ma prevalentemente casa-ufficio-ufficio-casa –, qualche incontro con gli amici, i primi trentasei anni della sua vita vissuti con la madre e i dieci successivi con i fratelli. In realtà il lavoro, che pure svolge con meticolosa precisione, non gli piace affatto: è solo un mezzo che gli può garantire di vivere bene, lo odia e lo subisce come un furto al suo tempo, che dedicherebbe più volentieri all’arte. Nella vita di quest’uomo di  dis-ordinario c’è l’omosessualità, che percorre l’intera produzione poetica nella forma di amore vano, immorale, che non porta a nulla, e per questo meraviglioso, forte, importante. La società borghese cristiana in cui vive e di cui condivide idee e valori non gli impedisce di vivere la sua omosessualità – scoperta intorno al 1882 – con serenità, “come una cosa naturale, e quindi insormontabile, per la quale non è possibile sentirsi veramente in colpa”. C’è un solo ostacolo,  un ostacolo che blocca, che non permette di dire ciò che si pensa e si prova. Quest’ostacolo non è certo l’omosessualità, bensì la paura della non comprensione, oppure meglio, la certezza di non essere compreso dalla società in cui vive, che è imperfetta. Il godimento del piacere – è solo uno dei temi che rendono eterne, atemporali e così attuali le poesie di Kavafis. Kavafis nutrì per tutta la vita un senso di chiusura, di segregazione vergognosa e necessaria. Potenze oscure e indefinibili lo hanno murato “inavvertitamente” in una stanza buia, insieme figura della passione e della paradossale ascesi interiore e artistica cui essa lo spingerà, dove il poeta sa di non poter trovare una finestra aperta sul reale e sulla libertà, ed è al tempo stesso lambito dal pensiero angoscioso che l’impossibile finestra gli recherebbe la luce troppo cruda di scoperte ancora peggiori della presente oscurità.

“Candele”, è il frutto di una visione malinconica e nostalgica della vita, descritta come un percorso lineare che si consuma via via che si va avanti. . La metafora utilizzata da Konstantinos Kavafis è quella delle candele: quelle spente rappresentano la vita svanita, il passato, mentre quelle ancora accese rappresentano l’avvenire, quel pezzo di tempo che rimane da vivere. Ci si proietta verso il futuro, per quanto incerto e sconosciuto, per non annegare nella paura del tempo che passa inesorabile, mentre noi, distratti, ci avviciniamo sempre di più alla morte. Una poesia malinconica ed evocativa che parla di una sensazione che, probabilmente, molti fra noi hanno sperimentato e sperimentano ogni giorno.

CANDELE

Stanno i giorni futuri innanzi a noi
come una fila di candele accese,
dorate, calde e vivide.
Restano indietro i giorni del passato,
penosa riga di candele spente:
le più vicine danno fumo ancora,
fredde, disfatte, e storte.
Non le voglio vedere: m’accora il loro aspetto,
la memoria m’accora il loro antico lume.
E guardo avanti le candele accese.
Non mi voglio voltare, ch’io non scorga, in un brivido,
come s’allunga presto la tenebrosa riga,
come crescono presto le mie candele spente.

*Bella e profonda questa metafora della vita, le candele accese e vivide dei giorni futuri sono sempre meno, mentre si allunga la fila di quelle spente, il cui sguardo ci fa rabbrividire. Allora preferiamo guardare a quelle ancora accese Illudendoci che non finiranno mai.

Il verso e una preghiera

Cosa possono fare i poeti, nell’ora buia della storia…quando quella sottile, intima, meravigliosa e terribile capacità chiamata empatia fa da eco al lamento del mondo…affidare al cielo il verso e una preghiera.

NAPOLI

Le strade del mondo
mi raccontano di giorni di sgomento.
Se chiudo gli occhi
il vento è un lamento.

Muti fantasmi
non hanno più
nemmeno voglia di
pensare…

Ed io inerme
affido al cielo
il verso e una preghiera,
il verso e una preghiera.

Imma Paradiso

San Francesco:”Il Cantico delle Creature”un inno d’amore

San Francesco è poeta dell’Uomo. Poche parole che hanno dietro concetti e visioni (e queste sì che si avvicinano al Misticismo) che riescono a perforare il cuore degli Uomini, Il Cantico delle Creature”. Già nel titolo, San Francesco, dichiara “la forma” della sua poetica: Cantico. Cantare, dunque. E si canta in versi, si sa. Il Cantico delle Creature si presenta come una prosa ritmica, che richiama i ritmi delle litanie, con la presenza di versi di varia lunghezza, stilizzati in base alle consonanze e alle assonanze oltre che alle rime, conosciuto anche come Il cantico di Frate sole e Sorella Luna, è senza dubbio fra i primi importanti componimenti poetici della lingua volgare e rappresenta la più famosa poesia religiosa di sempre della letteratura italiana. Hermann Hesse, scrittore del ‘900 e attento studioso del pensiero e della parola poetica di San Francesco d’Assisi, lo definisce “Il saluto di Dio sulla terra”. Il fatto che uno scrittore protestante, che sarebbe diventato uno dei maestri delle generazioni a venire, abbia dedicato un libro ad un faro della cattolicità, fa pensare. Il Cantico è stato composto a San Damiano, in tre diversi periodi della vita di Francesco, contrassegnati dalla sofferenza fisica, dalla gioia per la pace raggiunta tra podestà e vescovo di Assisi e dall’appressarsi della fine. Rimane un’opera di poesia assoluta che ha influenzato molti artisti e scrittori nel corso dei secoli, realizzata da un uomo che, pur in possesso di una cultura media per il suo tempo, aveva rinunciato a tutto ciò che apparteneva a quella società e a quel modo di intendere la cultura. Francesco non era contro la cultura, ma contro la verbosità, la leziosaggine, il vuoto delle parole fini a se stesse. Francesco dimostrava che la poesia vera è quella che nasce fuori dai condizionamenti e dalle mode.

NAPOLI

Francesco d’Assisi, nato Giovanni di Pietro di Bernardone (Assisi, 1181/1182 – Assisi, 3 ottobre 1226), è stato un religioso e poeta italiano. Diacono e fondatore dell’ordine che da lui poi prese il nome (Ordine Francescano), è venerato come santo dalla Chiesa cattolica e dalla Comunione anglicana; proclamato, assieme a santa Caterina da Siena, patrono principale d’Italia il 18 giugno 1939 da papa Pio XII, il 4 ottobre ne viene celebrata la memoria liturgica in tutta la Chiesa cattolica.
Era figlio di Pietro di Bernardone, un ricco mercante di stoffe che desiderava per il figlio una carriera nel commercio. Le aspettative dell’uomo, però, andarono deluse. Fin dalla giovane età, infatti, San Francesco si dedicò alla carriera militare e partecipò a molti combattimenti, venendo fatto perfino prigioniero. All’improvviso, nel 1205, una crisi religiosa lo spinse però a convertirsi: mentre era in viaggio per essere nominato cavaliere, infatti, un sogno lo spinse a tornare ad Assisi per mettersi al servizio di Dio. Passando per Foligno, vendette il proprio cavallo e i propri ricchi abiti e indossò poveri panni. Donò così tutti i suoi beni ai poveri e chiuse i rapporti con la famiglia. Ben presto, intorno a San Francesco d’Assisi, cominciarono a raggrupparsi alcuni compagni (fratres), che dormivano dove capitava, si vestivano con stracci e camminavano scalzi. Essi assunsero il nome di frati minori e si dedicarono soprattutto al restauro delle chiese in rovina e alla cura dei malati di lebbra, che nessuno voleva accudire per paura di essere contagiato dall’orribile malattia. Qualche anno dopo, San Francesco e i suoi fratres decisero di imitare alla lettera il modello della vita apostolica e, vestiti con una rozza tunica cinta da un cordone, iniziarono a predicare nell’Italia centrale, esortando le popolazioni a fare penitenza. Poiché la predicazione dei laici era vietata dalla Chiesa, nel 1210 i fratres decisero di chiedere il riconoscimento della loro forma di vita religiosa e presentarono una breve Regola a papa Innocenzo III: dopo qualche esitazione, il pontefice diede una prima approvazione informale.La Regola fu poi approvata ufficiosamente da papa Onorio III solo nel 1223, quando nacque ufficialmente l’ordine francescano. In generale, l’attività principale di San Francesco era quella della predicazione: parlava con tutti – con gli esseri umani ma, secondo la leggenda, anche con gli animali, inclusi uccelli e lupi feroci – ed esortava tutti a comportarsi con amore l’uno verso l’altro. Ben presto, però, tra i suoi seguaci – diventati sempre più numerosi – si verificarono dei contrasti: molti di essi, infatti, non volevano vivere nella totale povertà ordinata da Francesco, che lasciò la guida del gruppo, rimanendone un punto di riferimento solo spirituale. San Francesco d’Assisi morì nel 1226, ormai malato e colpito dalle stigmate, che aveva ricevuto qualche anno prima sul monte Verna: nel 1228, intanto, Francesco d’Assisi venne fatto santo: è il santo patrono d’Italia. San Francesco d’Assisi non fu un filosofo nel senso preciso del termine, ma le sue riflessioni sulla vita, sulla morale, sulla religione e sulla natura ebbero una rapidissima diffusione: nacque così il francescanesimo, che ebbe una grandissima influenza nell’Europa del XIII e XIV secolo. L’amore di San Francesco è ancora più grande nei confronti di Gesù, figlio di Dio, nato e morto per la salvezza degli uomini. L’amore dimostrato da Gesù verso gli uomini può essere glorificato in un solo modo, cioè seguendo il suo insegnamento presentato nel Vangelo: «Dobbiamo amare molto l’amore di colui che ci ha molto amati».

Il Cantico è strutturato come una lode a Dio per la bellezza del creato, e mescola elementi della tradizione dell’Antico Testamento con espressioni linguistiche tipiche del volgare popolare del tempo.Il componimento è come una preghiera, un momento in cui si ringrazia il creatore per la sua opera di bellezza presente in ogni dove, ma presente è anche la morte che anch’essa glorifica Dio. All’uomo non spetta che il compito di accettare umilmente e serenamente tutto ciò che proviene da Dio e farne tesoro.

Altissimu, onnipotente, bon Signore, tue so’ le laude, la gloria e ’honore et onne benedictione.
Ad te solo, Altissimo, se konfàno et nullu homo ène dignu te mentovare.
Laudato sie mi’ Signore, cum tucte le tue creature, spetialmente messor lo frate sole, lo qual è iorno, et allumini noi per lui. Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore, de te, Altissimo, porta significatione.
Laudato si’, mi’ Signore, per sora luna e le stelle, in celu l’ài formate clarite et pretiose et belle.
Laudato si’, mi’ Signore, per frate vento et per aere et nubilo et sereno et onne tempo, per lo quale a le tue creature dài sustentamento.
Laudato si’, mi’ Signore, per sor’aqua, la quale è multo utile et humile et pretiosa et casta.
Laudato si’, mi’ Signore, per frate focu, per lo quale ennallumini la nocte, et ello è bello et iocundo et robustoso et forte.
Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre terra, la quale ne sustenta et governa, et produce diversi fructi con coloriti flori et herba.
Laudato si’, mi’ Signore, per quelli ke perdonano per lo tuo amore, et sostengo infirmitate et tribulatione.
Beati quelli che ’l sosterrano in pace, ca da te, Altissimo, sirano incoronati.
Laudato si’ mi’ Signore per sora nostra morte corporale, da la quale nullu homo vivente pò scappare: guai a quelli che morrano ne le peccata mortali;
Beati quelli che trovarà ne le tue santissime voluntati, ka la morte secunda no ’l farrà male.
Laudate et benedicete mi’ Signore’ et ringratiate et serviateli cum grande humilitate

*La poesia è l’espressione più alta dei sentimenti e delle emozioni che nascono dal cuore. Questo canto di ringraziamento e di lode ne è un esempio mirabile, letto, studiato e fonte d’ispirazione per tanti uomini di cultura al di là della sua valenza religiosa. Primo esempio di componimento in lingua volgare del tempo.

Il cibo e i poeti, la frugalità a tavola di D’Annunzio

Nelle lussuose feste a villa Pamphilj, durante i banchetti nei ricchi palazzi di piazza di Spagna, nei salotti migliori della capitale, mentre tutti si sollazzavano a bere e mangiare, c’era un giovane che se ne stava in disparte. Nulla potevano i manicaretti esotici, né i liquori più costosi: Gabriele D’annunzio non mangiava né beveva. Mentre principi e ambasciatori si riempivano la bocca, vecchie dame e generali sgomitavano per l’ultimo bigné di gamberi, lui, l’abruzzese, faceva un passo indietro. “Fame e sete sono impulsi primitivi ed essenziali nell’uomo come nella bestia”, scriverà poi in un appunto. Già perché lui, cultore di pazzi eccessi, vizi raffinati e piaceri indicibili, aveva, sin da giovanissimo, maturato una ferma repulsione verso il pasteggio pubblico.
«Mi sembra più bestiale e umiliante riempire il triste sacco, rifocillarmi, che abbandonarmi all’orgia più sfrenata e più ingegnosa» Lui, cantore dei sensi, escluse il gusto dal suo ricco vocabolario. O meglio, certo che di piatti e cene abbondano le sue pagine, ma il suo occhio sagace e la sua penna astuta non si sono mai concentrati sui sapori del buon pasto, sulla gioia del riempirsi lo stomaco, quanto, semmai, sul più fine piacere della tavola imbandita con zelo e raffinatezza. Sulle tovaglie arabesche, sui piatti esotici e i profumi ricercati. Mangiare per D’Annunzio era profondamente antiestetico. Riempirsi la bocca, masticare, asciugarsi il bavero, digerire. D’Annunzio era solito mangiare da solo prima di ogni grande ricevimento, riempirsi la pancia in solitudine per poi astenersi dalle grandi scorpacciate conviviali. Regola alla quale restò ligio per tutta la vita. Ad eccezione della sua vita militare. Lì, sedeva paziente, accanto ai suoi commilitoni, pronto a mangiare anche lui, il rancio. Aveva una vera passione per il dolce, occasione in cui traspare anche il piacere di descrivere con la sua penna l’arte del bello nel suo insieme, anche negli aspetti più ricercati. Ne Il piacere l’importanza gastronomica è soprattutto visiva, del dessert. Ma gli alimenti preferiti dal poeta erano di una semplicità disarmante, la frutta e le uova sode.

NAPOLI

Della frutta era certamente un estimatore, dedicando ad essa un ruolo importante nella propria dieta: appassionato di uva, mele ed arance.

Ma la grande passione di D’Annunzio erano le uova, in frittata ma soprattutto sode.

Il suo piatto preferito: uova sode sublimate con salsa d’acciughe, piatto semplice ma non per niente facile, visto che la cara Albina veniva omaggiata per la capacità di portare a perfetta cottura l’uovo prima di dividerlo in quattro spicchi.

“Cara cara Albina,
da tanti e tanti anni non avevo più mangiato l’uovo sodo tagliato in quattro. Questo tuo è cotto con l’ultima perfezione. E’ sublime. Quando ero bambino chiedevo l’ovo spalmato di una leggera salsa di acciughe. Mi leccavo le dita; e qualche volta mi accadeva di inghiottire la prima falange. Stasera ho ritrovato quella divina estasi. Vendo la mia primogenitura per un uovo perfetto come il tuo, sublimato dalla salsa di acciughe. Scivolo sotto la tavola in uno svenimento che nessuna femmina mi farà mai provare. Albina, sii laudata nei secoli dei secoli. E risplendi in eterno nella Costellazione dell’Ovo e nella Nebulosa dell’Acciuga! Amen”

*Davvero un personaggio, il Vate! Amante dei piaceri ma non del cibo o almeno dell’uso eccessivo e dannoso di una cattiva alimentazione. L’esteta supera il buongustaio ma anche lui aveva le sue debolezze …l’uovo sodo della sua cara Albina!

Angelo triste

Spesso anche gli angeli sono sopraffatti dall’amarezza del mondo e perdono le ali, restano legati alla terra perché non hanno più la forza di guardare al cielo.

Angelo con l’anima lieve
cammini su questa terra
perché un giorno sei caduto.
Hai visto questa terra martoriata,
troppe lacrime ti hanno
trattenuto e l’amore
ti ha tolto le ali, non puoi
più spiccare il volo.
Angelo triste
ti dibatti fra i dubbi
e le ingiustizie
e guardi il cielo da lontano
come un esiliato che sogna casa.
Angelo smarrito
non puoi fare miracoli
questo non è il paradiso
puoi solo piangere con noi.

Imma Paradiso

La festa dei nonni

Oggi 2 ottobre giornata degli angeli e la festa dei nonni,un giusto binomio. È una ricorrenza civile diffusa in alcune aree del mondo, celebrata in onore della figura dei nonni e della loro influenza sociale. Tale ricorrenza non è festeggiata in tutto il mondo nello stesso giorno. In gran parte dei paesi l’evento è festeggiato nel mese di settembre o di ottobre. L’Italia è sempre più un paese fondato sui nonni. Sono 12 milioni. Uno è a Palazzo Chigi e con il passaggio di consegne fra poche settimana rientrerà nel ruolo. «Torno a fare il nonno, arrivederci» ha detto Mario Draghi. I suoi nipoti sono bambini, ma ci sono nipoti cresciuti che non perdono occasione di ringraziare chi li ha aiutati a diventare grandi e lo faranno anche oggi nella Festa dei nonni. Portatori di saggezza e di una sapienza antiche, i nonni rappresentano per tutti un punto di riferimento insostituibile nella crescita e nell’educazione personale, una fonte inesauribile di consigli, storie, conforto, dolcezza e affetto che non smettono mai di dispensare a tutti i nipoti. Poiché sono figure insostituibili nella vita di tutti, anche nell’età adulta il ricordo dei nonni rimane indelebile ed è sempre il primo a cui guarda con nostalgia quando si pensa alla propria infanzia e adolescenza. Per celebrare anche istituzionalmente l’importanza dei nonni, dal 2005 con la legge 159 del 31 luglio 2005 emanata dal Parlamento italiano, in Italia è stata ufficialmente istituita la giornata nazionale dei nonni che ricorre il 2 Ottobre di ogni anno.

NAPOLI

Alla nonna

D’inverno ti mettevi una cuffietta
coi nastri bianchi come il tuo visino,
e facevi ogni sera la calzetta,
seduta al lume, accanto al tavolino.
Io imparavo la storia sacra in fretta
e poi m’accoccolavo a te vicino
per sentir narrar la favoletta
del Drago Azzurro e del Guerrier Moschino.
E quando il sonno proprio mi vinceva
m’accompagnavi fino alla mia stanza
e m’addormivi al suono dei tuoi baci.
Agli occhi chiusi allor mi sorrideva
in mezzo ai fiori una gioconda danza
di sonni dolci, splendidi e fugaci.

(Gabriele d’Annunzio)

*Auguri a tutti i nostri Angeli senza ali che stravedono per i loro nipotini, ieri come oggi. Magari i nonni moderni non indossano cuffiette e non fanno la calza ma vanno in palestra, stanno sui social e si fanno dei selfie ma l’amore non conosce tempo ed è identico in tutte le epoche.

Il poeta “il cui nome fu scritto sull’Acqua”

John Keats, poeta dalla grande sfortuna in vita e dalla immensa (e meritata) fortuna postuma. Moltissimi poeti moderni (se hanno vasti orizzonti culturali) e sicuramente tutti i parolieri delle canzoni devono tantissimo a Keats. È veramente difficile, oggi, leggere o ascoltare dei versi che non contengano qualcosa che non sia precedentemente passato per Keats, che non si richiami in qualche modo a qualche opera di Keats.Il rapporto tra Keats e l’amore fu sempre molto tormentato. Il poeta era un ragazzo atletico (almeno finché la salute non si deteriorò) e attraente, ma molto piccolo di statura (152 cm), fatto che gli provocava non pochi complessi di inferiorità. Non si sa molto della sua vita sentimentale fino alla primavera del 1817, quando fece la conoscenza di una ragazza di talento e appassionata lettrice, Isabella Jones, per la quale concepì una profonda passione che fu anche corrisposta, i biografi pensano che questo rapporto sia andato parecchio oltre la semplice attrazione platonica. Anche se successivamente i due finirono per allontanarsi, non si dimenticarono mai, tanto che la Jones fu tra le prime persone a ricevere la notizia della scomparsa di Keats. Il grande amore nella vita di Keats fu, però, come abbiamo accennato, Fanny Brawne, nata nel 1800, che il poeta incontrò per la prima volta alla fine del 1818. Nonostante tutti i problemi che si abbatterono su Keats, fino all’ultimo, entrambi sperarono di potersi sposare. Sembra tuttavia che il loro rapporto non sia stato mai consumato e che lo struggimento per l’impossibilità di vivere pienamente il suo amore per Fanny sia stato tra le cause principali che deteriorarono la salute di Keats (il poeta irlandese William Butler Yeats, premio Nobel nel 1923, che idolatrava Keats, gli dedicò una poesia in cui lo pianse morto “il cuore e i sensi inappagati”). La vicenda umana di Keats è caratterizzata sicuramente dalla malasorte ma anche da non poche scelte sbagliate, per non parlare delle circostanze in cui il poeta fu deliberatamente danneggiato da qualcuno.
Insomma, pagò il conto della sua generosità e della sua devozione agli affetti.

-Pierre Auguste Renoir, Innamorati

Su amami davvero!

Che mi ami tu lo dici, ma con una voce
più casta di quella d’una suora
che per sé sola i dolci vespri canta,
quando la campana risuona –

Su, amami davvero!

Che mi ami tu lo dici, ma con un sorriso
freddo come un’alba di penitenza,
suora crudele di San Cupido
devota ai giorni d’astinenza –

Su, amami davvero!

Che mi ami tu lo dici, ma le tue labbra
tinte di corallo insegnano meno gioia
dei coralli del mare –
mai che s’imbroncino di baci –

Su, amami davvero!

Che mi ami tu lo dici, ma la tua mano
non stringe chi teneramente la stringe;
è morta come quella d’una statua
mentre la mia brucia di passione –

Su amami davvero!

*Quanta meravigliosa passione! Che mi ami lo dici ma l’amore non è fatto solo di parole per quanto importanti e bellissime. L’amore vero esige baci, carezze, la celebrazione nella più assoluta comunione di corpo e spirito che legano due anime che si appartengono.

Giornata mondiale del caffè 2022

La Giornata internazionale del caffè (International Coffee Day) è la festa che celebra in ogni paese del mondo non solo la bontà di questa nera bevanda, ma tutta la filiera produttiva che permette di fare arrivare il caffè nelle nostre case e nei nostri bar preferiti. La data di nascita di questa festa è abbastanza recente: la prima data ufficiale è stata quella del 1 ottobre 2015, come concordato dall’International Coffee Organization, e fu lanciata a Milano con una serie di eventi dedicati al mondo del caffè durante Expo 2015. Ogni anno la Giornata internazionale del caffè ha un tema diverso. Quello di quest’anno è dedicato ai giovani che in tutto il mondo dedicano la propria vita al caffè.

NAPOLI

Eduardo De Filippo è stato un vero Maestro di drammaturgia, un genio in grado di raccontare Napoli e l’Italia intera attraverso le sue commedie. Quando un pezzo di storia s’incontra con un’altra espressione culturale della città, in questo caso il caffè, la magia è assicurata. La scena più famosa in merito è di certo il monologo del caffè presente nella commedia “Questi Fantasmi!”, capolavoro del 1945.
Il monologo è la perfetta sintesi della cultura napoletana del caffè, del suo valore simbolico, rituale e quotidiano, della gioia e della felicità uniche che da esso derivano. Riportiamo ora il famoso monologo, da leggere e gustare accompagnato da una deliziosa tazzina di caffè.

“…A noialtri napoletani, toglierci questo poco di sfogo fuori al balcone… Io, per esempio, a tutto rinunzierei tranne a questa tazzina di caffè, presa tranquillamente qua, fuori al balcone, dopo quell’oretta di sonno che uno si è fatta dopo mangiato. E me la devo fare io stesso, con mani. Questa è una macchinetta per quattro tazze, ma se ne possono ricavare pure sei, e se le tazze sono piccole pure otto per gli amici… il caffè costa così caro… Mia moglie non mi onora queste cose, non le capisce. glie non mi onora queste cose, non le capisce. È molto più giovane di me, sapete, e la nuova generazione ha perduto queste abitudini che, secondo me, sotto un certo punto di vista sono la poesia della vita; perché, oltre a farvi occupare il tempo, vi danno pure una certa serenità di spirito. Neh, scusate, chi mai potrebbe prepararmi un caffè come me lo preparo io, con lo stesso zelo… con la stessa cura. Capirete che, dovendo servire me stesso, seguo le vere esperienze e non trascuro niente… Sul becco… lo vedete il becco? (Prende la macchinetta in mano e indica il becco della caffettiera) Qua, professore, dove guardate? Questo… Vi piace sempre di scherzare…. No, no… scherzate pure… Sul becco io ci metto questo coppitello di carta… Pare niente, questo coppitello ha la sua funzione… E già, perché il fumo denso del primo caffè che scorre, che poi e il più carico, non si disperde. Come pure, professo’, prima di colare l’acqua, che bisogna farla bollire per tre o quattro minuti, per lo meno, prima di colarla dicevo, nella parte interna della capsula bucherellata, bisogna cospargervi mezzo cucchiaino di polvere appena macinata, piccolo segreto! In modo che, nel momento della colata qua, in pieno bollore, già si aromatizza per conto suo. Professo’ voi pure vi divertite qualche volta, perché, spesso, vi vedo fare al vostro balcone a fare la stessa funzione. E io pure. Anzi, siccome, come vi ho detto, mia moglie non collabora, me lo tosto da me… Pure voi, professo’? E fate bene… Perché, quella, poi, è la cosa più difficile: indovinare il punto giusto di cottura, il colore… A manto di monaco… Color manto di monaco. È una grande soddisfazione ed evito pure di prendermi collera, perché se, per una dannata combinazione, per una mossa sbagliata, sapete… ve scappa ‘a mano o’ piezz’ ‘e coppa, s’aunisce a chello ‘e sotto, se mmesca posa e ccafè… insomma, viene una zoza… siccome l’ho fatto con le mie mani e nun m’ ‘a pozzo piglia’ cu nisciuno, mi convinco che è buono e me lo bevo lo stesso. Professo’, è passato. State servito? Grazie. (Beve) Caspita, chesto è cafè… è ciucculata. Vedete quanto poco ci vuole per rendere felice un uomo: una tazzina presa tranquillamente qui fuori… con un simpatico dirimpettaio…”

*Solo Eduardo poteva descrivere in un modo così poeticamente perfetto la semplice operazione di farsi una tazzina di caffè e per i napoletani è una bevanda sacra, irrinunciabile.

Il poeta ” Il cui nome fu scritto sull’acqua”

“All’Autunno” (To Autumn) è una delle poesie più celebri del poeta romantico John Keats, composta il 19 settembre del 1819 all’alba dei primi mutamenti della natura. Sono stati proprio quest’ultimi ad aver ispirato il poeta tanto da confidare pochi giorni dopo, in una lettera indirizzato al suo amico J. H. Reynolds, “Com’è bella la stagione adesso. Com’è bella l’aria, una temperata nitidezza…”. Il poema è un crescendo di percezioni e riflessioni sulla transizione dell’autunno dalla sua maturazione ai suoi ultimi giorni quando l’inverno è alle porte. L’autunno è un passaggio, un flusso continuo di mutazioni, un momento transitorio che con generosità ci regala colori, panorami e suoni unici. Il nuovo arriva solo attraverso la trasformazione ed è proprio questo che ci ricorda John Keats.

NAPOLI

“All’Autunno” di John Keats

Stagione di nebbie e morbida abbondanza,
Tu, intima amica del sole al suo culmine,
Che con lui cospiri per far grevi e benedette d’uva
Le viti appese alle gronde di paglia dei tetti,
Tu che fai piegare sotto le mele gli alberi muscosi del casolare,
E colmi di maturità fino al torsolo ogni frutto;
Tu che gonfi la zucca e arrotondi con un dolce seme
I gusci di nòcciola e ancora fai sbocciare
Fiori tardivi per le api, illudendole
Che i giorni del caldo non finiranno mai
Perché l’estate ha colmato le loro celle viscose:

Chi non ti ha mai vista, immersa nella tua ricchezza?
Può trovarti, a volte, chi ti cerca,
Seduta senza pensieri sull’aia
Coi capelli sollevati dal vaglio del vento,
O sprofondata nel sonno in un solco solo in parte mietuto,
Intontita dalle esalazioni dei papaveri, mentre il tuo falcetto
Risparmia il fascio vicino coi suoi fiori intrecciati.
A volte, come una spigolatrice, tieni ferma
La testa sotto un pesante fardello attraversando un torrente,
O, vicina a un torchio da sidro, con uno sguardo paziente,
Sorvegli per ore lo stillicidio delle ultime gocce.
E i canti di primavera? Dove sono?
Non pensarci, tu, che una tua musica ce l’hai –
Nubi striate fioriscono il giorno che dolcemente muore,
E toccano con rosea tinta le pianure di stoppia:
Allora i moscerini in coro lamentoso, in alto sollevati
Dal vento lieve, o giù lasciati cadere,
Piangono tra i salici del fiume,
E agnelli già adulti belano forte dal baluardo dei colli,
Le cavallette cantano, e con dolci acuti
Il pettirosso zufola dal chiuso del suo giardino:
Si raccolgono le rondini, trillando nei cieli.

*Immagini e sensazioni e suoni e profumi. Eccolo  Keats che con la singolare sensibilità del suo animo profondamente romantico, dipinge con i versi l’autunno. Non è meno generoso e ricco della primavera, ha i suoi colori, la sua abbondanza e la sua musica.