È partita la VII edizione del Premio letterario per Agnese 2023. Sono on line, sul sito www.sebbenchesiamodonne.com , il nuovo Bando, il Regolamento e la Scheda di partecipazione.
Il Premio si articola in varie Sezioni:
Sezione A – INEDITI DI POESIA
Ogni concorrente partecipa con massimo 3 componimenti di max 30 versi ciascuno.
Sezione B – VOLUME EDITO DI POESIA
Ogni concorrente partecipa con un’opera pubblicata dopo il 1 gennaio 2015, anche autopubblicata
Sezione C – RACCONTAMI UNA STORIA. Racconti e favole per bambini e ragazzi “Giovanna Marchese”
Ogni concorrente partecipa con un racconto di max 5 cartelle di 1.800 battute ciascuna
Sezione D – NARRATIVA EDITA
Ogni concorrente partecipa con un romanzo o un racconto edito dopo il 1 gennaio 2015, anche autopubblicato
Sezione E – VERSI E PAROLE IN CLASSE “Lucio Marino”
Sezione dedicata alle scuole di ogni ordine e grado. La partecipazione a questa Sezione è gratuita.
La quota di partecipazione per ogni Sezione è di € 15,00, tuttavia la partecipazione a più sezioni comporta il versamento di max due quote.
Tutte le quote di partecipazione saranno, come sempre, devolute all’AIRC e alla Fondazione Ricerca Fibrosi Cistica.
La Giuria prevede, inoltre, l’assegnazione del PREMIO SPECIALE LIBERA, all’opera che ha meglio saputo raccontare il percorso delle donne nella conquista dei propri diritti.
PREMI
Per i primi classificati delle Sezioni A-B-C-D e per il Premio Speciale LIBERA € 300,00 + targa
Per la Sezione E € 100,00 in materiale didattico
REGOLAMENTO
Ogni partecipante può concorrere per più Sezioni, versando al massimo due quote di iscrizione.
Le OPERE INEDITE potranno essere inviate in formato elettronico alla mail: sebbenchesiamo@libero.it (2 file, uno anonimo e uno con nome, indirizzo e telefono).
Le OPERE EDITE potranno essere inviate in formato elettronico alla mail: sebbenchesiamo@libero.it .
La SCHEDA DI PARTECIPAZIONE (scaricabile dal sito www.sebbenchesiamodonne.com) dovrà essere compilata da tutti i partecipanti in tutte le sue parti, firmata in modo leggibile e spedita, contestualmente alle opere, via email.
Le MODALITA’ DI PAGAMENTO della quota di partecipazione* sono elencate nella SCHEDA DI PARTECIPAZIONE.
I concorrenti premiati sono tenuti a presenziare alla premiazione; i premi in denaro non riscossi personalmente verranno trattenuti per l’edizione successiva.
Le opere dovranno pervenire entro il 31 ottobre 2023. Le opere della Sezione “Versi e parole in classe – Lucio Marino” dovranno pervenire entro il 30 novembre 2023.
La partecipazione al concorso implica l’accettazione del presente regolamento.
Ai sensi del DLGS 196/2003 e della precedente Legge 675/1996 i partecipanti acconsentono al trattamento, diffusione e ufficializzazione dei dati personali da parte dell’organizzazione o di terzi per lo svolgimento degli adempimenti inerenti il presente premio letterario.
*Le quote di partecipazione saranno devolute all’AIRC (Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro).
*Le quote di partecipazione per la Sezione C saranno devolute alla Fondazione Ricerca Fibrosi Cistica.
Non ci sono più i grandi maestri. Non poteva essere altrimenti. Basta ricordare alla fine che hanno fatto Socrate, Cristo e in tempi più recenti Pasolini. Ci sono i grandi vecchi, ma non i sono più grandi maestri. O meglio i maestri ci sono, ma bisogna andarseli a trovare col lumicino. Bisogna avere il merito e anche la fortuna di trovarli perché molti di loro non si espongono, non vogliono assurgere al ruolo di mentore o di guida spirituale. Rischierebbero troppo. Alcuni rischierebbero la loro vita o forse la loro qualità della vita. A loro non conviene. Il rischio minore sarebbe per loro quello di venire fraintesi, equivocati. Bisogna avere anche la fortuna o il merito di dire no ai falsi maestri, ai tanti ciarlatani che vogliono influenzarti, plasmarti o più realisticamente deformati mentalmente. Al mondo d’oggi quasi nessuno fa niente per niente e molti sono falsi profeti per business. Discorso a parte meriterebbero gli insegnanti scolastici, che non sempre sono maestri veri, vuoi perché gli studenti non raccolgono i loro input, le loro conoscenze, ma vuoi anche perché talvolta non hanno la capacità né la vocazione per formare veramente i giovani. Non solo ma quest’epoca è difficile da decifrare; chi cerca di prevedere sbaglia: perfino i futurologi non ci azzeccano spesso. La questione di fondo è che mancano grandi figure autorevoli. A tutto ciò è dovuto anche il fatto che non viene più riconosciuta autorevolezza, se non a pochissimi. Nei decenni scorsi si è voluta abbattere ogni forma di autorità. Ma si è buttata via l’acqua sporca col bambino. Si è persa quindi anche l’autorevolezza per un perenne malinteso senso di ribellismo, di permissivismo, di democrazia e infine di rivoluzione. Chi vuole oggi la saggezza? Mancheranno anche i saggi per i motivi più disparati, ma pochi cercano la saggezza. E allora cosa resta? Un grande spaesamento, un grande smarrimento, una grande incertezza di fondo, un grande vuoto individuale e collettivo. Non fraintendetemi: per maestri non intendo assolutamente quei capi esoterici che pensano di insegnarti a vivere e di diffondere a pochi iniziati grandi verità, che spesso si dimostrano delle ovvietà. Ci sono al mondo d’oggi falsi illuminati e di conseguenza falsi risvegliati. E poi pensateci bene: di quali segreti gelosamente custoditi sarebbero portatori questi pseudo-maestri in una società millenaria che ha accolto il messaggio rivoluzionario di Socrate e anche di Cristo? Quale sarebbero mai le loro grandi verità da non diffondere al popolo? A pensare male verrebbe da parafrasare Brecht e dire: “sventurato è quel popolo che ha bisogno di maestri”. Di nuovo a pensare male verrebbe da dire che chi cerca dei maestri lo fa solo perché venga riconosciuto da una fonte attendibile e credibile il suo stesso talento e allora la ricerca è interessata; in questi casi frequenti si cerca un protettore, un nume tutelare, un’egida sotto cui ripararsi. I giovani si lasciano spesso incantare dalle sirene degli/delle influencer, dei vip. Non fraintendetemi: ognuno può avere dei maestri personali, dei maestri di vita e di cultura, ma i maestri intesi come figure pubbliche che lasciano un proprio lascito culturale e formativo sono quasi scomparsi. Però a tutto questo è legato a doppio filo il problema che ben pochi hanno l’umiltà di imparare e la capacità di saper riconoscere un grande maestro, che rimarrebbe probabilmente inascoltato ed emarginato. La migliore cosa a mio modesto avviso è leggere i maestri, più che frequentarli. È meglio ascoltare le voci dei grandi geni dell’umanità passata e presente tramite le loro opere scritte. E se è vero che frequentando dei maestri si può ricevere delle spiegazioni e il loro esempio, è altrettanto vero che la forma compiuta e quasi completa del loro pensiero si può ricevere solo leggendoli. La fortuna più grande sarebbe frequentarli e leggerli, ma bisogna avere tempo, soldi e la disponibilità del maestro a farsi incontrare. A ogni modo alle volte mi chiedo se ci sia davvero bisogno di imparare e se serva a qualcosa il cosiddetto autoperfezionamento. Non ultimo bisogna avere anche l’abilità nello scegliersi veri maestri e non dei cazzari che si professano tali. In quest’epoca c’è molta confusione perché persone notevoli vengono derise e messe all’angolo dalla società e falsi guru improvvisati scambiati per persone di spicco. Non solo ma chi avrebbe davvero qualcosa di interessante da dire viene oscurato dai mass media perché troppo scomodo oppure il suo apporto culturale viene oltremodo banalizzato e perciò semplificato, fagocitato, reso innocuo, annullato. Ma poi chi è davvero un grande maestro? Uno che riesce a trasmettere messaggi dello stesso livello di Cristo? Uno che scopre qualcosa che tutti avevano sotto gli occhi e non avevano visto? Uno che migliora il tuo pensiero? Uno che ti insegna come essere e dover essere? Oppure uno che ti fa sognare come potresti essere?
Le masse non si ribellano mai in maniera spontanea, e non si ribellano perché sono oppresse. In realtà, fino a quando non si consente loro di poter fare confronti, non acquisiscono neanche coscienza di essere oppresse. Abbandonati a se stessi, continueranno, generazione dopo generazione, secolo dopo secolo, a lavorare, generare e morire, privi non solo di qualsiasi impulso alla ribellione, ma anche della capacità di capire che il mondo potrebbe anche essere diverso da quello che è.
George Orwell
Las masas nunca se levantan espontáneamente, y nunca se levantan porque están oprimidas. En realidad, hasta que no se les permite hacer comparaciones, ni siquiera se dan cuenta de que están oprimidos. Abandonados a sí mismos, generación tras generación, siglo tras siglo, seguirán trabajando, generando y muriendo, privados no sólo de cualquier impulso de rebeldía, sino también de la capacidad de comprender que el mundo también podría ser diferente de lo que es.
Gandalf: finita? No, il viaggio non finisce qui...la morte è soltanto un'altra vita. Dovremo prenderla tutti. La grande cortina di pioggia di questo mondo si apre, e tutto si trasforma in vetro argentato. E poi lo vidi...
Pipino: cosa, Gandalf? Vidi cosa?
Gandalf: bianche sponde e al di là di queste, un verde paesaggio sotto una lesta aurora.
Pipino: beh, non é così male! Gandalf: no. Non lo è...
L’undicesima edizione del Premio Nazionale di Poesia “L’arte in versi” – indetto e organizzato da Euterpe APS di Jesi (AN) – , bandita nel mese di maggio 2022 e con scadenza di partecipazione fissata al 31/12/2022 ha visto l’ottenimento dei patrocini morali dei seguenti enti istituzionali: Regione Marche, Assemblea Legislativa della Regione Marche, Provincia di Ancona, Comuni di Ancona, Jesi e Senigallia, Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”. Finanche – in relazione all’assegnazione di alcuni Premi Speciali (fuori concorso) – sono stati ottenuti i Patrocini Morali della Regione Veneto, delle Provincie di Verona, Lecce e Modena e del Dipartimento di Culture e Civiltà dell’Università di Verona.
L’organizzazione del Premio, in sinergia e mutua collaborazione con alcune associazioni culturali che perseguono finalità comuni, ha deciso di attribuire alcuni premi speciali che vengono offerti dai seguenti enti: Movimento Internazionale “Donne e Poesia” di Bari, Centro Culturale “Vittoriano Esposito” di Avezzano (AQ), Consulta Giovanile di Bonorva (SS), Associazione di Promozione Sociale “Le Ragunanze” di Roma, Associazione Siciliana Arte e Scienza (ASAS) di Messina, Associazione Culturale “L’Oceano nell’anima” di Bari, Associazione Culturale “Il Faro” di Cologna Spiaggia (TE), Associazione Culturale “Africa Solidarietà” Onlus di Arcore (MB), Club per l’Unesco di Cerignola (FG).
Ha collaborato esternamente provvedendo a riconoscere alcuni contratti editoriali a opere ritenute meritevoli la casa editrice Ivvi Editore – Nuovi autori del Gruppo Solone s.r.l. di Battipaglia (SA).
Hanno patrocinato questa edizione del Premio anche i seguenti enti culturali: Centro Studi “Sara Valesio” di Bologna, Wikipoesia, Quotidiano online «Il Graffio».
Le Commissioni di Giuria, differenziate per le varie sezioni a concorso, erano costituite da poeti, scrittori, critici letterari, giornalisti, promotori culturali (in ordine alfabetico): Stefano Baldinu, Fabia Binci, Lucia Cupertino, Valtero Curzi, Mario De Rosa, Graziella Enna, Zairo Ferrante, Rosa Elisa Giangoia, Fabio Grimaldi, Giuseppe Guidolin, Francesca Innocenzi, Antonio Maddamma, Simone Magli, Emanuele Marcuccio, Francesco Martillotto, Vincenzo Monfregola, Morena Oro, Rita Stanzione, Laura Vargiu e sono state presiedute da Michela Zanarella. Presidente del Premio dott. Lorenzo Spurio.
Cronaca, Cultura Lunedì 6 marzo, alle ore 18.00, presso la Sala Multimediale del Museo Etnografico “C’era una Volta” di P.zza della Gambarina 1, Alessandria, La Voce della Luna, Associazione di cultura cinematografica e umanistica, in collaborazione con FIC – Federazione Italiana Cineforum, propone, tra suggestioni letterarie e cinematografiche, un affascinante viaggio nel mondo delle Bad Girls e, in particolare, delle avvelenatrici seriali, con la presentazione del libro del dirigente scolatico e scrittore Roberto Grenna “Donne che uccidono: dieci storie di avvelenatrici” (Edizioni Epoké, 2022).
L’Autore dialogherà con Barbara Rossi, media educator, giornalista, saggista di cinema, e Patrizia Farello, psicopedagogista.
L’iniziativa, a ingresso libero, si svolge in collaborazione con l’Assessorato e la Consulta Pari Opportunità nell’ambito del Marzo Donna, nel rispetto dei protocolli sanitari vigenti.
Nell’immaginario collettivo contemporaneo, la figura del serial killer è sempre stata associata a un criminale di genere maschile, tanto è che, ancora oggi, le produzioni cinematografiche e letterarie raramente ci propongono una donna quale autrice di delitti seriali. Invece, le serial killer donne esistono, sono sempre esistite e di questa verità, oggi, hanno dovuto prenderne atto anche gli investigatori, i criminologi e, soprattutto, i profiler. Ma perché le donne non sono così famose come i loro “colleghi” uomini? Ce lo racconta Roberto Grenna, in un viaggio che dall’antica Roma arriva all’Oklahoma della seconda metà del 900’.
Roberto Grenna (Acqui Terme, 5 gennaio 1973) è un Dirigente Scolastico con l’hobby della scrittura. Figlio di studi scientifici, ha sempre amato leggere qualsiasi genere. Dopo aver vissuto alcune vite lavorative ha coltivato la sua passione completando il romanzo di formazione “Il fiume”, edito in self-publishing. A giugno 2019, per Milena Edizioni, un suo racconto dell’orrore intitolato “Tenebre dalla Cittadella” è entrato a far parte dell’antologia “24 a mezzanotte”. Per Edizioni Epoké ha pubblicato “Cadavere in via Cavour” (2021), primo libro della serie “Indagini di Provincia”. Nel maggio 2022 è uscito il suo nuovo romanzo, “Un angelo dagli occhi a mandorla”, per Algra Editore.
Info: lavoce.dellaluna@virgilio.it; FB: /Voce/Luna; Instagram: associazione_lavocedellaluna g
se non li porti dentro se l’anima non te li mette contro.
Devi augurarti che la strada sia lunga.
Che i mattini d’estate siano tanti
quando nei porti – finalmente e con che gioia –
toccherai terra tu per la prima volta:
negli empori fenici indugia e acquista
madreperle coralli ebano e ambre
tutta merce fina, anche profumi
penetranti d’ogni sorta;
più profumi inebrianti che puoi,
va in molte città egizie
impara una quantità di cose dai dotti
Sempre devi avere in mente Itaca –
raggiungerla sia il pensiero costante.
Soprattutto, non affrettare il viaggio;
fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio
metta piede sull’isola, tu, ricco
dei tesori accumulati per strada
senza aspettarti ricchezze da Itaca.
Itaca ti ha dato il bel viaggio,
senza di lei mai ti saresti messo
in viaggio: che cos’altro ti aspetti?
E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso.
Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso
già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare.
Breve biografia:
Un 29 Aprile 1863 nasceva ad Alessandria d’Egitto il poeta Constantino Kavafis. La sua produzione è stata raccolta in un corpus di centocinquantaquattro poesie, originariamente scritte su fogli volanti e solo sporadicamente ordinate in fascicoli. La sua prima raccolta di poesie venne pubblicata, postuma, nel 1935. Le liriche di Kavafis hanno spesso carattere epigrammatico ed essenziale; lo stile è caratterizzato da un vena ironica, rivelatrice di un atteggiamento disincantato verso la realtà. La poesia, occasione di nobilitazione e di riscatto dalla miseria umana, è per Kavafis fondamentalmente memoria, rielaborazione di un passato che se da un lato è biografico dall’altro si incarna nella storia e nella tradizione di un popolo, di una civiltà. In questa chiave si iscrive la scelta del poeta di usare il greco, lingua parlata dalla madre del poeta, e di far rivivere, attraverso le sue liriche, fatti e personaggi dell’epoca ellenistico-romana e bizantina.
Cara Anne, lo so di averti lasciata un po' nell" oblio, ma sai, qui le cose non vanno tanto bene, non abbastanza come dobrebbero e se ci fosti, sicuramente saresti molto delusa degli uomini. Cosicché colgo questo ritaglio di tempo d'una giornata sicuramente particolare per molta gente, oserei dire per il mondo, anche sé, il mondo tutto non lo sa, oppure ha dimenticato o peggio, se ne frega.
Eh sì Annuccia; perché da quel momento in poi sappi che non fu mai più lo stesso e purtroppo non hai avuto la possibilità di venirne a conoscenza. Cercherò di essere poco noiosa, (sei una ragazza inteligente), oggi voglio dedicarti un pò d'attenzione per farmi perdonare,spero ti faccia piacere o almeno, ti raserene sapereche che per quanto sia passato del tempo qualcuno ancora s'interessa di chiarire come fu una parte importante della nostra storia, della tua!
Ti ricordi?! Se ho iniziato a scrivere, quando avevo più o meno la tua età, è soltanto grazie a te; e le tue preziose pagine, che poi divennero un libro, ma questo te l'ho avevo già detto.
Sai Anne cara, tempo fa, son venuta a conoscenza che una scrittrice importante, ha raccolto in un libro, tantissima informazione, si parla sul fatto di chi rivelò il vostro nascondiglio segreto, come lo chiamavi. Cinque anni e una squadra investigativa composta da quasi duecento persone!!! Hai capito?! Ahimè... alla tua età, diventata famosa, tu diresti sicuramente, -dovuto a cosa?!, già tì sento!! Grazie alla preziosa e minuziosa informazione che col inchiostro è senza rendertene conto ci stavi lasciando come legado.
Dolce Anne, siete stati traditi d'un altro ebreo, come te, come tuoi famigliari e "coinquilini ", triste già, sarai rammaricata oppure sconcertata e ti capisco...
Ma non uno qualsiasi, tale "signore " chiamatosi, Arnold van den Bergh, notaio ebreo, membro del Consiglio ebraico di Amsterdam, sposato con tre figlie.
Pare facesse parte della commissione del Consiglio ebraico che, su ordine dei nazisti, doveva selezionare i nomi degli ebrei da inserire nelle liste di deportazione.
Era molto facoltoso sai!, era riuscito a farsi inserire nella lista del tedesco Hans Georg Calmeyer che, ufficialmente, addirittura dichiarò la sua non appartenenza alla razza ebraica. Per questo, nonostante il decreto nazista che obbligava i notai ebrei olandesi a cedere la loro attività, Arnold van den Bergh poté svolgere il suo lavoro fino al gennaio del 1943, fino a quando un collega ariano, destinato a occupare il suo studio, J. W. A. Schepers, lo denunciò alle SS e gli fece perdere i suoi privilegi.
Probabilmente, a questo punto, sarai un pò seccata? Forse, ma ho pensato che quello che v'è capitato e non solo a voi, è stata una tragedia imanne. E mi dirai, - ma è passato del tempo, a cosa serve oramai sapere, ricordare?, e io ti dirò una frase scritta da un signore, Primo Levi, che subì come te, perché ebreo, ma sopravvisse e divento una scrittore! Pensa te, il tuo sogno! E recita,
《"L'Olocausto è una pagina del libro dell'Umanità da cui non dovremo mai togliere il segnalibro della memoria"》.
Bene! Chissà cosa continuerai a scrivere, là, dove tu sia; spero siano cose colorate, radiose e piene di emozioni.
Ti abbraccio forte, carissima.
Ps: Sono molto soddisfatta di averti scritto e sedermi con te per terra sui pavimenti in legno, con le gambe incrociate come indiani, mentre tiepida filtra un raggio da qualche fessura Credo essermi ritagliata un pò "troppo " di tempo, alla prossima.
Lettura: Venerdì 20 gennaio, a partire dalle ore 16.30, la Libreria con mescita Andando e Stando di via Bissati 14, Alessandria, ospita un nuovo appuntamento del Circolo di lettura organizzato dall’Associazione di cultura cinematografica e umanistica La Voce della Luna, tra suggestioni letterarie e cinematografiche. L’ingresso è libero, previo tesseramento associativo (al costo di dieci euro, con validità annuale e l’offerta di sconti presso attività commerciali convenzionate).
Di fronte alle manifestazioni della forza della natura e delle umane tragedie sorge il senso della paura e dell’angoscia ma anche della bellezza e del sublime. La bellezza presuppone forma, misura, proporzione, simmetria, il sublime richiama grandezze incommensurabili che generano sgomento e terrore. La bellezza e il sublime sono due poli in un continuo: un polo è la bellezza associata a un principio di organizzazione, l’altro rappresenta una disorganizzazione, una distopia e scaturisce dalla scoperta dell’abisso costitutivo dell’esistenza. È la differenza tra due spazi topologici che s’incontrano come in un nastro di Möbius: un fiore, un poema, un dipinto, o un brano musicale, che possieda bellezza del primo genere può essere vista anche come bellezza del secondo genere. Si ha la compresenza di due sensibilità in una: la physis, bistabile, si biforca e abita lo spazio möbiusiano: un meta-paradigma aldilà della metafisica-ermeneutica-epistemica.
Giacinto Plescia si laurea in Architettura al Politecnico di Torino, consegue n.2 Attestati di perfezionamento in “Scienza e Filosofia, Temi di Epistemologia Generale ed Applicata” e n.1 in “Estetica ed Ermeneutica delle Forme Simboliche” all’Università di Firenze.
Partecipa a Concorsi universitari di Docenza, Convegni internazionali e nazionali di Fisica, Modelli Matematici e Urbanistica. All’attivo ha molte pubblicazioni di Filosofia, Urbanistica, Modelli Matematici e Topologia. Ha presentato dei brevetti sul Fullerene ad Università ed agenzie.
Il libro La bellezza, la filosofia e il Mobius strip è stato pubblicato su Youcanprint, per la categoria Scienze Accademiche. È disponibile in versione digitale e cartacea con copertina flessibile, 118 pagine.
Una panchina in legno sporca e consumata dagli anni è sempre lì, in quel pezzo di sentiero, che se non fosse bullonata al pavimento probabilmente sarebbe già scomparsa. È stata testimone di tante storie; seduta questa ragazza sorride ed abbraccia il suo lui, in procinto di leggere un libro.
Una mamma sfinita, si siede, con un passeggino al fianco che; con il piede sinistro fa un movimento avanti, uno indietro per cullare il bimbo, lei a riposo mentre fruga ad occhi chiusi nella borsa.
Dietro la panchina, tante scritte, molte insolite, tante graffiature, altri disegni incomprensibili, non manca il cuore e addirittura il simbolo anarchico che più di un giovane fiero del fatto, avrà portato pure sulla maglietta.
Bambini l'hanno usato come cavalluccio, il gruppetto! dopo la partita di calcio...
Son passati in tanti davanti a quella panchina eppure più di uno non si è mai fermato, troppa fretta.
Ma, c'era un'ora ben precisa, dopo cena, non molto tardi, a quell'ora ormai non c'era quasi più nessuno; un uomo con una discreta gobba e cappello, si avvicinava a passo lento appoggiato con la mano destra sul vecchio bastone, sotto l'abambraccio destro un foglio di giornale arrotolato. Sedeva senza fretta, su quella panca; appoggiava il suo bastone di fianco, prendeva un sigaro della tasca interna della stessa giacca di sempre, lo scrutava e sentiva il suo aroma intenso, come fosse la prima volta.
Finalmente lo accendeva, l'aria si mescolava col fumo, si percepiva che per l'uomo non era un problema il tempo, né le stagioni, perché ogni mercoledì, in primavera, d'estate,oppure col freddo, per l'uomo era lo stesso; tutti i mercoledì al calare del sole, si trovava lì, incorvato,gambe incrociate, bastone s'un fianco e il rotolo di giornale di fianco, sulla panca.
Sembrerebbe un tipo strano, per chi lo vedesse per la prima volta. Aveva l'abitudine di fumare il suo sigaro, leggermente amaro mescolato ad un retrogusto dolce salato, ma, piacevole al palato il capo leggermente chino verso l'alto, guardava vada a sapere cosa, forse nulla... sguardo perso nel'aldilà passava il tempo e lui delibaba il fumo e lo guardava come saliva e si perdeva fra i frondosi cipressi fino a scomparire le figure che si formavano.
Una volta finita la sua costumanza, prendeva il suo bastone e appoggiato, con la destra, srotolava il foglio di giornale e con tutta la sua tenerezza, mani tremanti e rugose segnate dal tempo lo spostava, lasciando sulla panca, la solita rosa rossa, bella turgida come nessuna... come lei...
«Vorrei che il Natale di OGGI fosse come quello di IERI… Ieri di tanti anni fa, quando all’alberello si appendevano le caramelle e i mandarini; il vischio e l’agrifoglio abbellivano le nostre dimore e il presepe aveva il muschio raccolto nei boschi, le statuine di terracotta e le casette di cartone…
Ma di IERI rimane solo l’illusione che a Natale si è tutti più buoni e che una tavola imbandita e un grande albero pieno di luci e di regali ci rendano più felici…»
Me ne accorgo sai? Io ti vedo Invece tu? Tanti pensieri, insoddisfazioni, domande senza risposte, tanta malinconia, solitudine immersa fra tanti, ma quanti veri?
Non ti manca niente per essere felice, invece... Sempre quello sguardo; Perso nel nulla, nell'infinito che nessuno ha mai raggiunto nemmeno tu ne riuscirai.
Una camuffata indifferenza evoca, suplica, implora affetto, tenerezza, serenità che mai usciranno dalle tue labbra, perché non è nel tuo; chiedere... amore.
“Parlando agli dèi”. La cultura classica nella modernità
Torna con una nuova opera dal titolo “Parlando agli dèi”, l’autore Sergio Sabetta, ormai veterano per le sue pubblicazioni, nella collana “I Diamanti della Poesia”, targate Aletti editore. E lo fa, questa volta, con un richiamo che sa di antichità. «La cultura classica – afferma il poeta funzionario presso la Corte dei Conti di Genova ed ex magistrato onorario presso il tribunale di Chiavari – ha in sé i vari aspetti dell’umanità; è una riflessione sulle emozioni, sui sentimenti più forti e profondi che vengono sublimati in racconti e miti. Attraverso essi si vede l’animo umano e le passioni che, nonostante tutta la tecnologia, rimangono quale essenza fondamentale della specie». Nel dettaglio, riguardo, invece, la scelta del titolo l’autore spiega: «Gli dèi sono le forze, le forme di una Natura che agisce, ma la nostra superbia tecnologica la ritiene passiva, quindi parlare agli dèi è parlare alle varie facce della Natura».
L’opera si suddivide nelle seguenti sezioni: “Tra le braccia degli dèi”; “Nelle nebbie del Nord”; “Passeggiando Per Roma”; “Dissolvenze”. «Nel suo insieme – precisa il poeta – vorrebbe accompagnare il lettore su una dimensione talvolta tragica, altre volte ironica e gioiosa, sulla nostra storia e le sue contraddizioni. Una coscienza difficile da acquisire e talvolta dolorosa, ma sempre liberatoria dalle manipolazioni della storia». Una delle tante liriche è dedicata proprio alla poesia e al suo ruolo liberatorio e catartico per le coscienze. Ma anche alla sua funzione di resistenza e critica contro l’appiattimento esistenziale. «La poesia – ne è convinto, infatti, Sabetta -possiede una sua logica non matematica e consequenziale, bensì è un sovrapporsi di sentimenti ed emozioni apparentemente disgiunte ma che si legano tra loro per vie nascoste, nel salto tra tempi ed età diverse, sicchè nello stesso soggetto vengono ad intersecarsi diverse umanità».
Nell’opera vi è la necessità di un ritorno alle radici, alla cultura che forgia nella ricerca degli impulsi e delle emozioni che, nate dal cuore umano, vengono da essa rielaborate. Attualmente, si tende a considerare superata la cultura classica, vedendo l’umanesimo come qualcosa di opposto alla modernità di uno slancio innovativo continuo, in un malinteso senso della tecnologia. «C’è spazio anche, in questi versi profondi ed estremamente poliedrici di Sergio Benedetto Sabetta – scrive, nella Prefazione, Francesco Gazzè, fratello del noto cantante Max e autore di numerosi suoi testi – per quel certo raro talento di saper pennellare con grazia lunghissimi istanti di esistenza vera, spazio per la sublime arte del saper raccontare tutto, ma proprio tutto, e per quell’ispirata benedetta pazienza (rara anch’essa) del costruire, dell’ornamento, della cura, della forma; l’unica, la pazienza, davvero in grado di rendere senza tempo qualsiasi atto creativo». Gli argomenti ispiratori dell’opera sono i miti mediterranei e nordici filtrati dalla storia, dove, tuttavia, l’ironia della romanità ne riduce a dimensione umana la tragedia. Contro un impoverimento culturale si avverte l’esigenza di riscoprire la dimensione collettiva mitica e collegarla storicamente a quella attuale. «Quando si legge una poesia è come immergersi nelle acque di un torrente, un fluire dalla sorgente alla foce, in cui ciascun lettore dà i toni e le sospensioni, nuota tra l’increspare delle acque grazie alla particolare punteggiatura. Nella poesia – conclude l’autore Sabetta – non vi sono solo emozioni ma anche la storia e, pertanto, l’etica data dalle osservazioni e le domande che essa pone. Diventa, quindi, il deposito della memoria di una cultura, se non dell’umanità. Ne diviene una possibile forma, libera nella sua espressione».
Venerdì 2 dicembre 2022, alle ore 20.30, presso il Centro Culturale di Cultura G. Capurro – Biblioteca Civica (Via Marconi 66, Novi Ligure) avrà luogo la presentazione del libro Angéliquedi Guillaume Musso (La nave di Teseo, 2022). Intratterrà il pubblico il traduttore Sergio Arecco, con il quale dialogheranno la giornalista pubblicista Barbara Rossi e l’editore Andrea Sisti. Si tratta di un evento in qualche modo speciale, in quanto il professor Arecco festeggerà la sua nona traduzione consecutiva del famoso maestro del thriller francese. La prima risale a Central Park (Bompiani, 2015), piccolo classico ormai divenuto un cult per gli appassionati del genere, al quale, dal 2016 per La nave di Teseo, si sono aggiunti, un anno dopo l’altro, altri otto best seller di Musso. Per il penultimo di essi, La sconosciuta della Senna (2021), Sergio Arecco ha ottenuto, quest’anno, in occasione della terza edizione di “Scritture di lago”, presso Villa Olmo di Como, il premio per la miglior traduzione da una lingua straniera. Ingresso libero secondo le disposizioni vigenti.
Prima di questo avevo letto di Echenoz solo “Ravel”, una biografia garbata e attenta soprattutto agli aspetti umani e caratteriali del musicista, che mi piacque molto.
Nonostante ciò sono stata indecisa se iniziare Inviata , avendo letto commenti poco favorevoli ad eccezione di uno : ho così deciso di rendermene conto da me, ed eccomi qua!
Certo non lo metterò nella cerchia dei miei più amati in assoluto, ma, pensandoci bene, trovo che ha una originalità che mi ha soddisfatta.
Anzitutto lo posso definire una spy- story, anzi no ( eccoci!): è più una parodia del genere! Gli elementi ci sono tutti: lo spionaggio internazionale, il super potente super cattivo, la bella donna, le conquiste erotiche, le armi più o meno sofisticate e così via. Ma l’impresa è affidata a personaggi improvvisati, imbranati o addirittura inconsapevoli; la soluzione finale ( che certo non rivelerò) è ben diversa da quella che ci aspetteremmo.
Tutta l’azione poi sembra non decollare mai: per una buona metà del libro ci si dilunga in preparativi, molto tranquilli, e si fa conoscenza con una serie di altri personaggi che apparentemente sono solo di contorno. Ovviamente alla fine tutto si incastrerà vicendevolmente.
Oltre a questo, la stessa scrittura ha le caratteristiche della lentezza, della divagazione, magari a vantaggio delle descrizioni d’ambiente o del carattere di un personaggio: divagazioni che sembrano fatte apposta non per creare una suspense, ma per diletto dell’autore. A questo proposito cito la ripetuta informazione sui percorsi parigini, a piedi o in metrò, di qualche personaggio ed in particolare del “mercato selvaggio caotico come un terreno incolto” che invade un boulevard ( cap. 3°).
Nei momenti poi d’azione sembra prevalere nei personaggi un elemento paradossale o irrazionale ( emblematici i due che dovrebbero fungere da guardie del corpo).
Eeeh, però però…mi viene spontaneo un pensiero: ma quanta irrazionalità esiste nella realtà!? E mi riferisco a “personaggi” emblematici di potere o politico o economico, che agiscono su questo pianeta non in un romanzo… Ma via, anch’io divago, forse.
Accennavo poco fa all’autore: Ecco una caratteristica “vistosa” di lui è proprio la sua presenza nel libro, attraverso sia una brillante ironia, che sparge a piene mani nel linguaggio e nelle situazioni, sia attraverso ricorrenti ( forse anche troppi) interventi di lui medesimo al lettore.
«Ora, se non vi dispiace, ci occuperemo un po’ del marito». A volte finge di essere un personaggio interno alla storia: «Il giorno seguente, nel pomeriggio, visto che non avevamo niente da fare e passavamo giusto di lì, ci siamo introdotti con discrezione in casa di…» A volte assume il ruolo di “cronista” della vicenda : «dobbiamo interrompere questa scena perché ci è appena pervenuta una notizia».
Addirittura gioca sulla propria onniscienza di narratore, confessandone dei limiti: « Benché ci siamo un giorno vantati di essere i più informati di tutti, dobbiamo ammettere che al momento non sappiamo che ne sia stato di lui».
Questo giocare con il lettore può anche non piacere, in effetti, però l’ho chiamato gioco proprio perché l’autore pare proprio divertirsi a smontare certe regole narrative (« questo ora non ve lo dico»), ed a rovesciare il modo di raccontare senza preoccuparsi di aderire ad un genere. Tanto più che, sotto sotto, ci dipinge certi equilibri planetari che di divertente hanno poco.
Mi sono trovato quasi per caso alla presentazione di questo libro e senza aspettiva alcuna ne ho iniziato la lettura durante un viaggio treno.
L’ho amato da subito. La scrittice mi ha parlato direttamente, a tratti musicalmente, come se i personaggi del libro appartenessero alla mia vita. Dafne, Diego, Simone, questi alcuni dei personaggi, li riconosco in me, tra amici e conoscenti. Una scrittura intima e un messaggio autorevole: l’importanza della comunicazione e della condivisione, il peso della solitudine in alcune situazione.
La morte che si intreccia alla vita come una spirale per arrivare all’amore per la vita.
Consiglio questo libro a chiunque voglia farsi un bel viaggio introspettivo o voglia regalarlo a qualche persona cara.
Cerco nella commozione che ancora mi pervade il giusto ordine alle parole.
La giusta distanza, necessaria a raccontare questa storia che trascina in sé il peso ed il dolore della verità. Una verità che l’autrice ricerca in maniera lucida ma maniacale, trattenendo “il cuore accanto”: né troppo dentro a confondere, né troppo lontano a dimenticare.
Maria Grazia Calandrone, che è poeta (ed io questo non lo sapevo ma l’ho compreso leggendone la vibrante prosa), plana con leggerezza sul vissuto della madre naturale, Lucia, rivolgendo a Lei una perpetua carezza, che è conforto e perdono.
Non avendo di Lei alcun ricordo, la riporta a nuova vita.
Come nei libri di storia i grandi, così Lucia, prende forma e anima attraverso le parole di Maria Grazia.
“Rinascerai, Lucia, anche solo a parole. È tutto quello che posso.”
Maria Grazia ha bisogno che sua madre diventi reale, probabilmente per renderle il commiato che non le è stato concesso renderle. Ma soprattutto ha bisogno di spiegare a se stessa e al mondo chi era Lucia, cosa ha vissuto Lucia.
Ha bisogno di denunciarlo, che Lucia “ha ventinove anni, è innamorata, ha una figlia neonata. Se solo non trovasse davanti a sé solo strade chiuse, Lucia vivrebbe, forse ancora..”
Ma Lucia appartiene ad un tempo lontano, o almeno così ci piace immaginare. Ad un periodo di mezzo in cui l’emancipazione femminile sta affacciandosi lentamente al mondo, ma ancora non è presente tra le retrovie della gente. Figurarsi nelle piccole realtà contadine come quelle da cui Lucia proviene.
Lucia è per la famiglia una merce di scambio, un’occasione per un buon affare. Viene umiliata e vessata, non amata, ripudiata fino alla fine della sua vita.
Lucia è la vera vittima dell’abbandono. Di un disamore che non le dà alcuna chance di salvezza, che è puro egoismo e non opportunità. Lucia è sacrificata sull’altare di una cultura gretta, patriarcale e maschilista, in un paese – l’Italia – il cui diritto di famiglia viaggia ancora su due velocità, dove la discriminazione tra uomo e donna non fa ancora abbastanza rumore.
Lucia è vittima di violenza. Una violenza avallata e condivisa dal sistema culturale e valoriale del tempo. Una violenza di massa, dalla quale non riesce a fuggire, ovunque vada se la ritrova addosso.
Ma Lucia non si piega, piuttosto si spezza.
Lei vuole vivere, vuole tornare a brillare. Ci prova con tutte le sue forze. Ma alla fine ne vedremo dissolversi l’essenza e tutta la sua bellezza.
L’abbandono che Lucia subisce è del tutto diverso da quello che prepara e infine compie.
Questo Maria Grazia lo sa, la verità è nei fatti che analizza, ricostruisce, forse, ad un certo punto accarezza, che legge come un testamento postumo d’amore dei suoi genitori verso di Lei.
“L’amore di Lucia per me […] sta nel Dove non mi ha portata.”
Pagine che alternano il freddo registro della cronaca, ben incastonato nel contesto sociale, culturale economico e legislativo del tempo, a frangenti di elevata poesia.
Che non è mai autocommiserazione, ma balsamico perdono.
Un rimpianto misto amore.
È un testo altissimo, di cui ho detto forse troppo.
Quando a Emile viene diagnosticata una forma precoce di Alzheimer è certo di una sola cosa: vuole vivere quel poco che gli resta scoprendo posti che non ha mai visto e che ha sempre voluto visitare. Gli occorre solo un compagno di viaggio, non facile da trovare viste le sue condizioni fisiche di cui ha dettagliatamente scritto nell’annuncio. Ma quando una ragazza di nome Joanne risponde, rendendosi disponibile a partire subito, lui non può credere ai suoi occhi.
Inizia così, a bordo di un camper, il viaggio di Emile e Joanne: un viaggio emozionante, dove nulla è prevedibile, che porterà i due protagonisti a confrontarsi con il loro passato, ad affrontare le loro paure e a scoprire, attraverso la conoscenza reciproca, una parte di sé a loro sconosciuta.
Questo romanzo tocca davvero note profonde.
Sono stata travolta dal coraggio di Emile di vivere questo momento della sua vita lontano dai suoi cari e mi sono commossa alla fine del libro per la scelta di Joanne.
Un merito particolare, a mio parere, va anche a uno dei personaggi secondari: Myrtille, una vecchietta che mi è rimasta nel cuore per la sua ingenuità (mi ha fatto davvero sorridere) e la sua bontà d’animo.
Il libro è scritto molto bene e si legge velocemente.
Il tema dell’autodeterminazione terapeutica è preponderante, ma non è il solo. È un libro che parla anche di perdita, di elaborazione del lutto e di rinascita ed infine, non per importanza, di amore.
Per chi ha voglia di leggere pubblico uno stralcio di
“A QUEL TEMPO”.
Un racconto ambientato nella Paternò degli anni sessanta.
3
Ricordi…
La memoria delle piccole cose del nostro passato, e la rivisitazione della vita vissuta, forse, più dello scritto, resta impressa nella mente di tutti noi.
Voglio dire che, se cerchiamo di capire chi siamo e dove siamo diretti, non possiamo dimenticarci chi eravamo, e allora, come se salissi su un’ipotetica macchina del tempo, voglio ripercorrere a ritroso le impronte dei miei passi, e come d’incanto mi appare l’immagine della “putia” di mia madre, per tutti la “putia della signora Angelina”.
Come ho già detto non era un vero e proprio negozio, ma semplicemente una grande stanza che faceva angolo fra Via Circonvallazione e Via Fratelli Bandiera e che mia madre, improvvisandosi commerciante, aveva adibito a negozio.
La parete che costeggiava la via Circonvallazione era fornita da un’ampia finestra che era stata adibita a vetrina d’esposizione, mentre l’ingresso era sull’altra via. Non so, a dire il vero, se mia madre avesse una regolare licenza di vendita. Sicuramente non l’aveva da subito ma poiché gli affari inizialmente andavano bene, penso che col tempo si sia messa in regola.
È verso la fine degli anni ’50 che sorge il negozio, sulle ali dell’entusiasmo di tanti altri piccoli negozi di venditori e artigiani che sorgevano come funghi, lungo la via principale.
Si sa, si era in un periodo tutto sommato di crescita economica, anche se non paragonabile a quella dei paesi del nord Italia.
I negozi erano tutti molto piccoli. In genere erano le stanze che si affacciavano sulla via e i più fortunati avevano addirittura un piccolo retro come magazzino.
Ancora risuonano nelle mie orecchie i rumori dei lavori degli artigiani e sento i mille odori caratteristici di ogni negozio.
Dopo il negozio di mia madre, dalla stessa parte della strada, c’era la bottega del “suddunaru”.
Quest’uomo era un vero artista nella lavorazione del cuoio. Era un uomo magro e minuto con uno strano timbro di voce, nel senso che era molto acuto, quasi stridulo e alla fine di ogni frase sembrava quasi che risucchiasse l’aria che gli era uscita dalla gola. Il viso aveva la forma di un’incudine, il naso era stretto e molto pronunciato, e la testa era coperta da una rada peluria che con un grande sforzo di fantasia si poteva definire capelli. Era conosciuto come “Saru u schettu”, nel senso che non si era mai sposato. La sua vita trascorreva fra la bottega e i vari maneggi, dove consegnava di persona i suoi capolavori.
Dicevano che era anche un abile cavallerizzo e che mai, a memoria d’uomo, si era vista una persona abile come lui nel domare i cavalli, anche i più irrequieti. Forse per questo io immaginavo che non si fosse mai sposato, o forse come alcuni dicevano, che a lui le donne non piacevano. Non lo so se fosse vero, ma so che non lo avevo mai visto parlare con una donna.
La sua arte spaziava dalle selle borchiate alle cinture per gli uomini fino anche alle museruole per cani.
Appese sulla porta del negozio facevano mostra, in bella vista, molte sue creazioni. I suoi “capolavori”, come amava definirli.
C’era un pezzo speciale che io adocchiavo sempre e che desideravo fosse mio. Un sogno irrealizzabile: una frusta fatta in budello di maiale molto flessibile che quando il sellaio la faceva roteare sembrava fischiasse nel lacerare l’aria.
Dalla parte opposta della strada c’era invece il calzolaio. Lungo il marciapiede che costeggiava il suo negozio, sopra un improvvisato banchetto, erano esposte un’infinità di forme di legno di scarpe.
Dal suo negozio usciva un odore che a me piaceva molto, era un misto di colla e cuoio.
Il calzolaio era un omone grosso e alto, aveva un paio di baffi che, dicevano, non ce n’erano di simili in tutta la Sicilia. Li aveva sempre ben curati e le estremità erano rivolte in alto, sembrava che fossero incollate, tanto stavano ritte e ferme.
Ricordo di averlo sempre visto con addosso un grembiule di cuoio scuro e unto, scalfito da un’infinità di piccoli tagli. Era sempre seduto fuori, sul marciapiede, su uno sgangherato sgabello. Batteva continuamente pezzi di cuoio con un martello dalla testa piatta e larga, distesi su una spessa lastra di ferro. Aveva le mani tozze e callose, sempre screpolate.
Con un lungo ago infilato di uno spesso filo di spago riparava scarpe, stivali, e anche borse di tutti i tipi.
Era il calzolaio del quartiere, nel senso che oltre a riparare le scarpe, le produceva artigianalmente su misura. Anche noi eravamo suoi clienti.
Quello che mi appassionava delle sue scarpe, erano dei ferretti a mezza luna che aggiungeva alle estremità delle suole e che facevano, quando si camminava su un pavimento di sasso o comunque duro, un rumore metallico, e ad ogni passo che si faceva, sembrava di ballare il tip-tap.
Un altro negozio che faceva molti affari era quello del vasaio. Anche lui esponeva la sua mercanzia lungo il marciapiede e la mia paura era, quando passavo accanto ai “bummuli”, di toccarne qualcuno e farlo cadere mandandolo in mille pezzi. Per quel motivo, cercavo di passare dalla parte opposta del marciapiede.
Il negozio, a dire il vero, era gestito da una donna, la signora Filomena che era la moglie del vasaio. Era una donna molto alta e prosperosa, aveva il fascino e la grazia di una leonessa. Gli occhi erano grandi e neri come il buio della notte. Aveva una chioma di capelli abbondanti e neri che erano mossi e ondulati con la scriminatura un poco di lato. Quello che colpiva in quella donna era il contrasto fra il nero dei capelli e il candore della pelle. La vita era molto sottile e il seno esuberante.
Sì, era indubbiamente una bella donna, tutti gli uomini del quartiere, me compreso, ne erano segretamente innamorati.
Purtroppo il marito vasaio, anche lui molto alto e prestante, era gelosissimo. Per questo motivo, pochissimi uomini rivolgevano la parola a sua moglie, per evitare equivoci e liti inutili.
Quelle poche volte che parlava con qualche uomo, i discorsi vertevano solo sulla vendita dei vasi esposti.
Calogero, questo era il nome del vasaio, lavorando nel retrobottega, sembrava assente, ma ai suoi occhi nulla sfuggiva.
Non vendevano solo vasi di terracotta, ma anche attrezzi di vario tipo, scatole metalliche, piatti, portavasi di ferro e lampade a petrolio.
A proposito delle lampade a petrolio, erano oggetti che mi piacevano particolarmente, non chiedetemi perché, non lo so, forse perché nel mio subconscio erano i custodi della fiamma e del calore.
Ricordo che la parte superiore della lampada, era fatta da una specie di tubo di vetro, dove la parte bassa s’innestava in una molla metallica e la parte alta finiva con una greca merlata.
Per controllare la resistenza del vetro, ogni acquirente usava battere con le dita la parte esterna del vetro, e secondo il rumore, si riusciva a capire se il vetro fosse integro o incrinato. Ancora nelle mie orecchie risuona il tintinnio del vetro al battere delle dita.
La bottega del carrettiere era quella che creava più frastuono, confusione e disordine, nel senso che il continuo via vai di carretti impediva una serena pace, così come potrebbe essere ai giorni nostri il disturbo che ci arreca il traffico automobilistico. C’è da dire che era anche quella che dava movimento a tutta la via.
Con i suoi attrezzi e macchinari costruiva carretti variopinti e anche sponde e pianali per i letti.
A quel tempo erano pochi i letti fatti di reti e molle, e i materassi erano riempiti di paglia e crine. Solo nelle case dei ricchi si usavano materassi riempiti di lana.
Era anche un continuo battere sui cerchioni delle ruote e sulle sponde dei carri. A completare l’opera ci si metteva anche il lavoro di sistemazione delle botti per il vino, e dunque anche sui cerchi delle botti era un continuo martellare.
Un altro bottegaio era il tappezziere, il quale era specializzato nel rinnovare le sedie di rafia, divani e poltrone.
Era anche una specie di sarto e a lui le donne portavano i cappotti da rivoltare finché c’era stoffa a sufficienza. Insomma non si buttava mai nulla.
All’occorrenza funzionava anche da tintoria e coloro che avevano un lutto da “portare” per tanto tempo, si rivolgevano a lui affinché “rinnovasse di nero” il loro guardaroba.
Un artigiano che non aveva fissa dimora era l’arrotino, che con il suo carretto passava di tanto in tanto per la mia via. Allora capitava che le donne, in massa, uscissero da casa, chi per portargli qualche ombrello da riparare, chi qualche coltello da molare e chi qualche pentola ammaccata e bucata da rimettere a nuovo.
In genere sostava per una giornata intera e verso il suo carretto era un continuo via vai di donne che gli portavano qualcosa da riparare, non prima di aver fatto una lunga ed estenuante trattativa sul compenso da corrispondere.
Non mancavano i negozi prettamente maschili, come il salone da barba, dove si regalavano mini calendari profumati, con rappresentate donne seminude che a sfogliarli avevano un non so che di pornografico e vagamente peccaminoso.
Come il circolo, dove gli uomini bevevano vino e disputavano qualche partita a carte, e che era sicuramente il locale dove si urlava di più.
Non poteva mancare poi il tabaccaio in cui si vendevano tabacchi, accendini, cerini, valori bollati. Insomma diciamo che la Via Circonvallazione era una strada piena di vita.
Il negozio di mia madre, per quei tempi, era sicuramente il più attrezzato e anche quello fornito delle più svariate mercanzie. In una vetrina dietro il bancone facevano bella mostra bianche bottiglie di latte con tappo di sigillo di sicurezza, con tassativo vuoto a rendere.
Cosa eccezionale per quei tempi, il negozio di mia madre era anche fornito di un grande e rumorosissimo banco frigo, dove all’interno erano ordinatamente stipati formaggi, salumi, prosciutti, salami, uova, ricotta fresca messa in contenitori di cesti fatti di frasca e coperti da foglie di fico, e tutto quello che necessitava di essere conservato al fresco.
In una grande vetrata sotto il bancone di formica, di un tenue color celestino con riflessi verdi, con le portine di vetro che si aprivano a scorrimento una sull’altra, erano in esposizione grosse forme di pane, la “vastedda”. A dire il vero, di pane se ne vendeva ben poco per via del fatto che non esisteva, a quei tempi, casa che non avesse il proprio forno.
Adesso che ci penso, il pane che maggiormente mia madre vendeva, era il famoso pane industriale, la “mafalda”, che era un bastone di pane con sopra spruzzati dei semi di sesamo, buonissimo da mangiare caldo e con la mortadella. Credetemi sulla parola, non esiste paragone in quanto a sazietà e prelibatezza, con le merendine industriali dei giorni nostri: pane e mortadella vince sicuramente dieci a zero. C’era anche uno scaffale con tanti contenitori di vari tipi di pasta e riso. Tutto da vendere rigorosamente sfuso.
Il reparto pasticceria non era altro che un alto scaffale con molti ripiani che arrivava a sfiorare il soffitto. Era il reparto preferito dai miei fratellini che, avendo scoperto il sistema per aprirlo, non facevano altro che accomodarsi direttamente all’interno per fare razzia di dolci.
I vasi di vetro pieni di confetti e leccornie varie, erano i primi a essere svuotati, poi era il turno delle rotelle di liquerizia e delle caramelle, quelle con tante sfumature di colori, erano le più attraenti. Se ne mettevano in bocca tre o quattro per volta. Si comportavano come potrebbe agire una volpe in un pollaio: facevano una strage.
Quando mia madre se ne accorgeva, erano urla e strilli per tutta la casa contro mia sorella maggiore, perché diceva mia madre, che non poteva fare tutto lei e il compito di curare i fratellini era suo.
Lo scatolame, come tonno, pelati, detersivi, era ammassato in un angolo. Per quanto riguarda il caffè, una rarità, era chiuso a chiave in una vetrinetta a parte, le cui chiavi erano di esclusiva gestione di mia madre, mentre il caffè d’orzo era contenuto in un recipiente metallico in bella vista sopra il bancone.
Ad ogni modo, nonostante l’offerta fosse varia e abbondante, non si poteva neanche lontanamente paragonare a quella dei moderni supermercati, ma tutto quello che si vendeva era indubbiamente privo di conservanti e additivi e sicuramente più genuino. A quei tempi c’era meno offerta ma molta più qualità.
Il negozio era sempre invaso da un misto di odori di salumi, dolci, detersivi e il tutto si mischiava in un unico aroma che invadeva chiunque entrasse.
L’odore delle cassate di mandorle e di pistacchio si mischiava a quello forte e pungente del “piacentino”. Purtroppole parole non bastano per descrivere la sinfonia di odori e sapori che invadevano l’aria del negozio.
Il negozio era anche un punto d’incontro fra le massaie del quartiere, le quali, con la scusa di fare la spesa si riunivano a spettegolare e a comunicare gli ultimi aggiornamenti avvenuti nel circondario.
Diciamo che era una specie di giornale radio locale dove le casalinghe raccontavano le ultime notizie, con il tacito accordo, di mantenere il segreto professionale sul nome della “giornalista” di turno. Una specie di tutela della riservatezza, anche se tutti sapevano tutto di tutti.
Fuori, sulla porta del negozio, non c’era un cartello che indicasse l’orario di apertura e neanche quello del giorno di chiusura settimanale. Si entrava e usciva in qualsiasi momento. Mia madre apriva la mattina quando si alzava e chiudeva poco prima di andare a dormire. Ecco questo era l’orario del negozio.
Una porta con un vetro smerigliato divideva il locale negozio dall’abitazione privata, per cui tutta la casa era avvolta dal profumo, mentre altre volte era il negozio a essere avvolto dagli odori, buoni per altro, che provenivano dalla cucina. In alto, appesi al soffitto del negozio, facevano mostra una serie di carte moschicida, che quando erano sature di prede, mia madre sostituiva.
Ormai con i moderni centri commerciali tutto questo è sicuramente sparito per sempre.
Buon compleanno all’artista francese Francoise Gilot che oggi compie 101 anni!!!
In questo libro intenso, non facile, Françoise Gilot , la quarta donna importante per Picasso dopo Ol’ga, Marie-Thérèse e Dora Maar, descrive le enormi difficoltà incontrate durante la relazione con Pablo, il quale, in nome di se stesso e forte del mito che lo avvolge sacrifica i rapporti personali rinnegando amori e amicizie.
Madrid, 25 ott. – E’ tornato alla luce il violino che Frida Kahlo (1907-1954) regalò a Lev Trockij (1879-1940), esiliato nella sua casa di Coyoacán tra il 1937 e il 1939, dipinto a mano e dedicato dall’artista messicana al leader comunista rivoluzionario. Dato l’interesse per tutto ciò che ha a che fare con la Kahlo, icona culturale venerata , lo strumento musicale sarà offerto prossimamente all’asta con una stima intorno ai 50 milioni di euro.
“E così, come in una meravigliosa eresia, saranno le onnipotenti case d’aste Sotheby’s e Christie’s a dare un prezzo all’amore comunista di Frida e Trockij che si concluse con l’assassinio del politico russo per mano dello spagnolo Ramón Mercader”, scrive il quotidiano spagnolo “El Mundo” dando la notizia della scoperta del violino in Spagna. Nel novembre 2021 l’autoritratto “Diego e io” di Khalo è stato venduto a New York per 34 milioni di dollari, battendo ogni record per un artista latinoamericano. E presto il violino potrebbe polverizzare il precedente primato raggiunto dalla Kahlo.
Nessuno sa in quante mani sia passato il violino prima di arrivare all’attuale proprietario che, sospettando che si trattasse di un pezzo autentico, ha contattato Javier Gallego, di Gallego y Sánchez Rollón Asociados di Madrid, esperto di arte e perizie, per certificare che sia i disegni che la dedica erano opera di Frida Kahlo. Sullo strumento musicale si legge: “Un uomo senza patria è come un vecchio violino senza corde, spero che molto presto ritrovi la sua patria e la sua casa, il suo ideale e la sua lotta, e torni a essere il direttore d’orchestra della storia mondiale. Cordiali saluti, Frida Kahlo”. Sul retro, l’artista ha disegnato due farfalle e, all’interno di un sole nero, il simbolo della falce e martello.Romanticismo e politica si fondono nelle sue pennellate donchisciottesche e nel suo tratto ingenuo. Gallego è stato incaricato di coordinare il team di esperti che ha analizzato l’autenticità del violino. Guillermo Pastor Vázquez, presidente dell’Associazione nazionale degli esperti di calligrafia, è stato incaricato di verificare la calligrafia e la firma. Una società spagnola ha confermato, attraverso lo studio dei pigmenti, il violino fu dipinto negli anni ’30 e che alcuni dei colori utilizzati erano in uso solo in America Centrale.
Per quasi due anni, Trotsky fu ospite dei Rivera – Kahlo, nella famosa “casa azul”, anch’essi appartenenti al partito comunista. Fu in quella frangente di tempo, che Kahlo è Trotsky furono amanti, dicono una vendetta della Kahlo, dopo scoperta l’avventura amorosa di Rivera con la sorella minore di Frida.
Dal web
Il risultato, quindi, è stato conclusivo: Frida Kahlo dipinse il violino e quindi lo regalò anche al suo amante. Ora che l’attribuzione alla Kahlo è stata confermata, il violino è un pezzo super ghiotto per le grandi case d’asta, dove probabilmente finirà.
León Trotsky
Breve biografia:
Lev Davidovich Bronstein, nato a Yanovka, Ucrania, 1877. Rivoluzionario russo. Nato in una famiglia ebrea da genitori propietari di terre che lavoravano come agricoltori. Studia Diritto alla università di Odessa. Già da giovane, partecipò nella opposizione clandestina contro il regime autocrata dei Zar, organizando una Lega Operaia del sud della Rusia. Muore assassinato a Coyoacán, México, 1940.
“E allora mi sono guardato negli occhi. Raramente ci si guarda, con se stessi, negli occhi, e pare che in certi casi questo valga per un esercizio estremo. Dicono che, immergendosi allo specchio nei propri occhi – con attenzione cruciale e al tempo stesso con abbandono – si arrivi a distinguere finalmente in fondo alla pupilla l’ultimo Altro, anzi l’unico e vero Se stesso, il centro di ogni esistenza e della nostra, insomma quel punto che avrebbe nome Dio.
Invece, nello stagno acquoso dei miei occhi, io non ho scorto altro che la piccola ombra diluita (quasi naufraga) di quel solito niño tardivo che vegeta segregato dentro di me. Sempre il medesimo, con la sua domanda d’amore ormai scaduta e inservibile, ma ostinata fino all’indecenza. “
Molti mi scrivono chiedendomi – come mai il tuo libro non si trova in libreria? Il motivo è semplice… Le librerie fanno posto alle grandi case editrici… Noi figli di un Dio minore possiamo essere ordinati ma non abbiamo spazio a scaffale. Stasera sono entrata in una libreria Giunti e guardavo le decine di libri esposti sotto i riflettori. Libri da toccare da sfogliare da odorare.
Il mio non c’era. Non ci sarà mai. Non è possibile cambiare questo meccanismo che ospita grandi autori e lascia al buio altri autori magari meritevoli di un po’ di luce. Ovviamente non è colpa delle librerie… È una legge di mercato. L’autore famoso vende mentre il piccolo autore è un’incognita totale. Non è nessuno … E poco e porta se scrive con il cuore. Il cuore per tanti è solo un muscolo che batte.