Iosif Aleksandrovič Brodskij (1940 – 1996) Premio Nobel per la letteratura 1987, noto anche come Joseph Brodsky, è stato un poeta, saggista e drammaturgo russo naturalizzato statunitense.
Chinati, ti devo sussurrare all’orecchio qualcosa: per tutto io sono grato, per un osso di pollo come per lo stridio delle forbici che già un vuoto ritagliano per me, perché quel vuoto è Tuo. Non importa se è nero. E non importa se in esso non c’è mano, e non c’è viso, né il suo ovale. La cosa quanto più è invisibile, tanto più è certo che sulla terra è esistita una volta, e quindi tanto più essa è dovunque. Sei stato il primo a cui è accaduto, vero? E può tenersi a un chiodo solamente ciò che in due parti uguali non si può dividere. Io sono stato a Roma. Inondato di luce. Come può soltanto sognare un frammento! Una dracma d’oro…
Tragico verso tratto da una lirica premonitrice di Karin Boye (Göteborg, 1900 – Alingsås, 1941), poetessa e critica letteraria svedese morta suicida a soli 41 anni.
Foto: Francesco Ungaro. Foto di portata: Jeff Nissen
Le stelle
Ora è finita. Ora mi sveglio.
Ed è quieto e facile l’andare, quando non c’è più niente da attendere e niente da sopportare.
Oro rosso ieri, foglia secca oggi. Domani non ci sarà niente.
Ma stelle ardono in silenzio come prima stanotte, nello spazio intorno.
Ora voglio regalare me stessa, così non mi resterà alcuna briciola.
Dite, stelle, volete ricevere un’anima che non possiede tesori?
Presso di voi è libertà senza difetto lontana la pace dell’eternità.
Non vide forse mai il cielo vuoto, chi dette a voi il suo sogno e la sua lotta.
Salva
Il mondo scorre da fango, vuoto lo riempie. Ferite, che il giorno ha aperto, si chiudono, quando è sera.
Calma, calma inclino il capo a una santa visione, il tuo ricordo che indugia. Tempio; rifugio; purificazione; santuario mio!
Sulle tue scale lontana la tenebra, salva, serena come un bimbo mi addormento.
La breve esistenza della Boye, divenuta celebre grazie al romanzo distopico 'Kallocaina', che anticipava l'avvento dello Stato mondiale raccontato da Orwell in '1984', è marcata in modo drammatico dalla scoperta della sua omosessualità all'età di 18 anni. La donna vivrà sempre con tormento questo orientamento affettivo, condannato all'epoca dalla Legge e dalla morale comune della sua nazione.
Nel '32 si trasferisce a Berlino, dove convive con la compagna Margot Hanel, e decide di curare una profonda depressione con la psicoanalisi. Invano: come aveva previsto nel suo diario lo stesso terapeuta, la poetessa si toglierà la vita, seppur diversi anni dopo.
*Valeria Consoli: laureata in Letteratura Moderna e Contemporanea presso l’Università degli Studi di Milano con una tesi sulla scrittrice Fausta Cialente.
Norman MacCaig (1910-1996) è stato uno dei più grandi poeti scozzesi del ventesimo secolo. E’ ricordato con grande affetto non solo dalla nuova generazione di scrittori scozzesi che ha contribuito a formare, ma anche dalle migliaia di persone incontrate nelle scuole, per le quali MacCaig è stato il primo poeta che avesse il dono di scrivere con semplicità sulle cose di tutti i giorni rendendole sorprendenti.
Penso a te nei vari modi in cui la pioggia scende. (sempre di più, con l’età, odio le metafore – la loro rigidità la loro inadeguatezza.) A volte questi pensieri sono pioggerellina, appena percettibile, niente di più leggero: a volte uno scroscio battente, una solerte pulizia primaverile della mente: a volte, un terribile temporale. Sempre di più, con l’età, odio le metafore, amo la leggerezza, temo i temporali.
raccoglie i fiori del destino e prende posizione davanti a una lacuna delle nostre ossa per questi l’inchiostro con cui scrive è la densità della porta divelta la gloria della tasca vuota
la mia assenza ora è irrequieta non vuole essere costante fa lo sgambetto alle ali degli angeli
Quando la gente la mattina si sveglia nei suoi isolati nuclei familiari con uno strano sapore di canti di libertà nella bocca, si desta anche il suo vuoto. E subito il vuoto pregusta la gioia di quando la gente sparirà nel buio, diretta alle macchine in attesa e resterà solo a possedere le cose e lo spazio che son loro. Attende invisibile con ansia. Quando è sicuro che la madre, il padre e i figli sono via salta come un pupazzo da una scatola magica e si mette a rovistare facendo da padrone. Nessuno sa quanto perverso sia il vuoto. Il vuoto che resta nelle case private quando la gente è uscita. Rovista fra lettere e armadi della gente, ne prova le vesti, si volta e rivolta davanti ai loro specchi. Il vuoto ha via libera quando la gente non c’è. Il tempo in cui…
Città di origine fenicia, Palermo fu conquistata dai romani, dagli arabi, dai normanni, dagli svevi e dagli spagnoli. Ciò ha determinato un mix di bellezza e di meraviglia che ha rivestito la città, potremmo dire, strato su stato. Il giornalista Roberto Alajmo, per descrivere la sua complessa realtà artistica, ha detto: “Palermo è come una cipolla. È fatta a strati. Ogni volta che ne togli uno ne resta un altro da sbucciare”.
Tanti sono i tesori artistici, monumentali, folkloristici e culinari che Palermo offre. Per cui se avete intenzione di visitarla e non avete molti giorni a disposizione, indossate delle scarpe molto comode.
Prima di tutto, lasciatevi avvolgere dall’atmosfera confusionaria e multietnica dei mercati della Vucciria e di Ballarò. Un vero proprio viaggio di odori e sapori nei vicoli più antichi della città che, per molti versi, ricordano quelli della bellissima città di Napoli (anche per le canzoni napoletane che con una certa allegria si diffondono nei quartieri). Non appena entrati nel mercato della Vucciria, sarete investiti da un magma di profumi gastronomici, tipici della cucina palermitana, veri e propri emblemi dello Street Food siciliano, come le arancine (attenzione a non chiamarle arancini, la declinazione maschile è tipica catanese, dove le stesse assumono anche una forma appuntita, mentre quelle palermitane sono rotonde) pane e panelle (pane con squisite frittelle preparate con la farina di ceci), pani ca’ meusa (pane con la milza), rascatura (letteralmente raschiatura, ovvero una polpetta realizzata unendo l’impasto delle panelle con quello dei crocchè) e molto altro.
Ballarò è il mercato più antico della città. Visitarlo vi darà la sensazione di passeggiare nelle strade di una città musulmana e non è un caso se risale proprio al tempo della dominazione araba. Qui vi è possibile acquistare qualsiasi cosa, ma soprattutto verdure e primizie provenienti dalle campagne limitrofe. Una pittoresca scenografia vi trasporterà tra le bancarelle dei mercati insieme all’allegro vociare dei venditori ambulanti che si lasciano andare, spesso, a richiami fatti ad alta voce per attirare possibili clienti. Non manca la possibilità di gustare una buonissima spremuta d’arance siciliane.
Dopo esservi immersi nel cuore di Palermo, lasciatevi avvolgere da un’atmosfera spirituale visitando la Cattedrale di Palermo, un vero e proprio gioiello architettonico che sfoggia numerosi stili artistici: da romanico a bizantino, da arabo a neoclassico. Viene costruita nel 1170 sulle rovine di un’antica chiesa paleocristiana per volontà dell’arcivescovo di Palermo, l’inglese Walter Of The Mill, passato alla storia col nome di Gualtiero Offamilio. Durante la dominazione seracena la chiesa fu ampliata e trasformata in una moschea. Con la venuta dei Normanni viene istituito nuovamente il culto cristiano. Al suo interno ospita le tombe di Federico II, nipote di Federico Barbarossa, di Ruggero II, dell’imperatrice Costanza D’Altavilla e dell’imperatore Enrico VI di Hohenstaufen. Meritano sicuramente una visita la cappella di Santa Rosalia, santa patrona della città, che conserva i resti mortali della santa racchiusi in una preziosa urna d’argento, e il tesoro, ovvero la corona e i gioielli del sepolcro di Costanza d’Aragona.
Rimanendo in tema religioso, non può mancare una visita a una delle Chiese bizantine più importanti d’Italia, ovvero la Chiesa della Martorana, definita da alcuni la più bella in assoluto dato il contrasto tra lo stile arabo e quello normanno. Patrimonio Unesco, deve il suo nome al fatto che nel 1433 Alfonso d’Aragona la cedette al vicino monastero benedettino che fu fondato dalla nobildonna Eloisa Martorana. Numerose le opere d’arte che ospita al suo interno. Una su tutte il Cristo Pantocreatore sulla sommità della cupola. Proprio accanto alla Chiesa della Martorana sorge un’altra chiesa importante, che non passa inosservata data la sua caratteristica architettura araba. Sto parlando della Chiesa di San Cataldo con le sue tipiche cupole rosse e la forma a parallelepipedo.
Di fronte alla Chiesa della Martorana è presente il magnifico complesso religioso della Chiesa e del Monastero di Santa Caterina d’Alessandria. Un gioiello trionfante di arte barocca che vi lascerà letteralmente a bocca aperta, al cui interno conserva opere d’arte dei migliori artisti dell’epoca. Il monastero delle monache di clausura era dedicato al culto di Santa Caterina d’Alessandria, martire d’Egitto vissuta tra il III e il IV secolo. Secondo la tradizione, Caterina era una bella ragazza figlia del re Costa che la lasciò orfana in giovane età. Caterina venne chiesta in sposa da molti uomini importanti, ma lei li rifiutò tutti per abbracciare la castità, dopo aver sognato la Madonna con il Bambino che le infilava l’anello al dito facendola sua sposa. Il suo culto si diffuse in Sicilia durante la dominazione spagnola e venne presa ad esempio dalle monache di clausura come modello da seguire. Il monastero ha accolto le suore di clausura dell’ordine domenicano dal 1311 fino al 2014. Dal 2017 è visitabile in qualità di museo di arte sacra. Curiosità: all’interno del monastero oggi c’è una pasticceria in cui vengono riprodotti i tipici dolci siciliani, quali cannoli e cassate, secondo le antiche ricette delle suore. Secondo alcuni palermitani che me l’hanno consigliata, in questa pasticceria si mangerebbe uno dei migliori cannoli di Palermo, e a giudicare dalla lunga fila di attesa e dal sapore stratosferico, direi proprio che hanno ragione.
La chiesa di Santa Caterina d’Alessandria s’affaccia su piazza Bellini e su Piazza Pretoria, la piazza che ospita la famosa fontana omonima, tutta in stile barocco. In origine, nel 1554, fu realizzata per ornare il giardino di una villa fiorentina, successivamente venne acquistata dal Senato di Palermo. Arrivò a Palermo smontata in 644 pezzi che furono assemblati in maniera diversa rispetto al modello originale. Le evidenti nudità delle statue destarono scalpore tra i palermitani dell’epoca, i quali battezzarono la piazza con l’epiteto di “Piazza della Vergogna”.
Una tappa imperdibile di Palermo è sicuramente il Palazzo dei Normanni, noto anche come Palazzo reale, la più antica residenza d’Europa nonché sede dell’Assemblea Regionale Siciliana. Palazzo sontuoso ricco di affreschi e mosaici, si caratterizza anch’esso per la sovrapposizione di stili: normano, bizantino, arabo e spagnolo. Anche qui, come nella Chiesa della Martorana, troviamo la cappella palatina. Intitolata a San Pietro apostolo, risale al al 1130 e fu costruita per volere di Ruggiero II. Grande stupore vi susciterà la magnificenza dei mosaici tra i quali spicca, ancora una volta, quello del Cristo Pantocreatore. Gli stalattiti in legno e gli intagli del soffitto risalgono, invece, all’antica e lunga dominazione araba. Il palazzo, però, non è stato solo sede reale ma anche la residenza dei vicerè spagnoli, i quali apportarono numerose modifiche alla struttura. Abbatterono le torri normanne (tranne quella di Pisa ancora visitabile e davvero suggestiva) per creare due cortili esterni e due sale di rappresentanza. Tra queste la più nota è sicuramente la Sala d’Ercole, il cui nome è dovuto ai numerosi affreschi che ritraggono le 12 fatiche dell’eroe greco, realizzati da Velasquez.
Nel crocevia di piazza Vigliena assolutamente imperdibile la straordinaria e complessa concentrazione di chiese e palazzi famosa col nome di Quattro canti. Nei quattro angoli sono presenti, dal basso verso l’altro, tre ordini di statue barocche che rappresentano le quattro stagioni, i tre vicerè spagnoli più Carlo V, più le quattro sante che furono Patrone di Palermo prima di Santa Rosalia.
Ma se amate particolarmente l’arte barocca, allora non potete non recarvi alla Chiesa del Gesù o Casa Professa, la chiesa barocca più importante di Palermo. Situata nel quartiere della Alberghiera, nei pressi del mercato di Ballarò. Attenzione a non lasciarvi ingannare dalla sua facciata esterna che la fa apparire come una chiesa simile a tante altre. Al suo interno è un vero tripudio di decorazioni barocche, un susseguirsi di affreschi, stucchi e ornamenti marmorei che vi lasceranno letteralmente senza fiato.
Ovviamente non impossibile non citare il Teatro Massimo di Palermo, il teatro più grande d’Italia e il terzo più grande d’Europa, con la sua caratteristica sala a ferro di cavallo che ha una capienza di 5000 spettatori, e con il palco reale, all’esterno finemente decorato, con ben 27 posti a sedere. L’esterno del teatro, invece, ha una tipica struttura circolare perché concepito come tempio della musica. E proprio come un tempio appare a chi giunge nella piazza, a cui potrebbe ricordare il Pantheon.
Una bella capatina alla Galleria d’Arte Moderna, vi darà la possibilità di ammirare i dipinti dei pittori siciliani più famosi, quali Francesco Lojacono, Michele Catti, Antonino Leto, Ettore Maria Bergler (nato e Napoli e trasferitosi a Palermo) e niente di meno che il grandissimo Renato Guttuso.
Il Castello della Zisa, iniziato durante il regno di Gugliemo I e terminato nel 1167 durante il regno di Guglielmo II, fu la residenza estiva del re. Il suo nome deriva dall’arabo “al-Aziz” che significa splendido. Ha subito diverse trasformazioni nel corso dei secoli, di cui la più importante è avvenuta nel 1635 che ha conferito agli interni del palazzo uno stile tipicamente barocco. Un’antica leggenda è legata al castello, in particolare a una decorazione pittorica presente al suo interno. Nell’arco d’ingresso della Sala della Fontana sono raffigurate delle figure mitologiche che corrispondono alle divinità dell’Olimpo: Giove, Marte, Nettuno, Venere, Giunone, Mercurio e Plutone. Secondo la tradizione non si tratterebbe di divinità, ma di diavoli che custodiscono delle monete d’oro nascoste all’interno del palazzo. Il tesoro fu lasciato da Azel Comel e El Aziz, che fuggirono a Palermo perché il padre di lei ostacolava il loro amore. Sempre secondo la leggenda, furono proprio i due amanti a far costruire il castello, ma dopo esser venuti a conoscenza che la loro fuga era stata causa del suicidio della madre di El Aziz, morirono entrambi a breve distanza, non prima di aver affidato il loro tesoro alla protezione dei diavoli mediante un incantesimo. Si narra che chiunque voglia contare il numero dei diavoli, non ci riesca a causa del loro continuo rimescolamento.
Per i più intraprendenti si consigliano le Catacombe dei Cappuccini, uno dei luoghi più impressionanti da visitare al mondo, che conserva mummie in perfetto stato di conservazione. La costruzione delle catacombe risale al 1597, quando i frati decisero di realizzare un cimitero sotterraneo più adatto alle loro esigenze. Nel momento di traslare i loro confratelli, sepolti fino ad allora in fosse comuni, si accorsero che 45 corpi erano rimasti intatti, mummificati naturalmente. I frati, allora, decisero di non seppellirli ma di esporli in piedi, nelle nicchie del corridoio. Col passare degli anni le mummie suscitarono sempre più interesse, cosicché i frati decisero di concedere la sepoltura mediante imbalsamazione anche a tutti coloro che fossero in grado di sostenere le spese economiche di tale pratica.
È il giorno che pare di condividere la terra con i fiori, il fiore tenerlo vicino al cuore perché parli. Ognuno beve in alto il suo bicchiere, ognuno è bello e pensa che i corpi sono in mezzo ai fiori, i prati alti sopra ogni cattiva idea del mondo. Nessuna storia toglierà le erbe dalla roccia, un altro cielo non sarà il nostro ma la memoria perché altri vivano e chiedano dopo di noi le nostre stesse cose: com’era per loro che erano tutto innalzati sopra la terra?
Nessuna cultura toglierà le mani alle mani, la pelle ai vestiti. Difendiamo anche nella disputa le nostre vite, ci difendiamo da chi vuole altre cose, si cerca di venire a un patto, di non farci troppo del male.
(Fate clik nel titolo ” Sono sorda” , vi porta al post personale).
Siccome tocca una corda molto sensibile e a me, vicina voglio condividere con voi tutti questo appello, non solo per sensibilizzare, ma per tendere una mano solida e concreta a chi ha bisogno.
Perciò, mi auguro con tutto il cuore, che questo mio post non sia invano. (Contattate pure me o l’interessata in primis). Grazie mille!
Se qualcuno è disponibile a contribuire al crowdfunding per Evaporata, sarei lieta di ricevere le vostre collaborazioni. Pensavo se fosse possibile partire con una base di € 20, poi qualsiasi somma è più che gradita.
Boris Borisovič Ryžij è stato un poeta e geologo russo. Considerato neo-romantico, alcuni suoi versi sono stati tradotti in inglese, italiano, tedesco, olandese e serbo. Nato nel 1974, si suicidò il 7 maggio 2001 all’età di 26 anni.
Portami lungo viali vuoti, parlami di qualche sciocchezza, pronuncia vagamente un nome. I lampioni piangono l’estate. Due lampioni piangono l’estate. Cespugli di sorbo. Una panchina umida. Amore mio, resta con me fino all’alba, poi lasciami. Rimasto come un’ombra offuscata, vagherò qui ancora un po’,ricorderò tutto, la luce accecante, il buio infernale, io stesso fra cinque minuti sparirò.
Ancora solo pochi passi e poi lei sarà di nuovo sua sentirà libererà il suo canto che senza di lei inaridisce. Collo naso orecchie gli occhi i capelli la bocca e così via lui li canterà solo a eterna gloria di lei. Ma una voce si alza. Orfeo ascolta: lei che doveva solo tendere l’orecchio cantando gli piomba sulle spalle. Allora si volta ed ecco dalle turbate mani gli scivola la lira. Che Euridice raccoglie e uscendo percuote piano con tocchi trattenuti. Collo naso orecchie gli occhi i capelli la bocca e così via lei li canterà solo a eterna gloria di lui. Se Orfeo l’abbia poi seguita le fonti lasciano all’oscuro.
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Estate sommersa dalla pioggia
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Quest’estate vedo proprio la pioggia cadere dal cielo e diluviare su alberi, felci muschio sul guscio della chiocciola fino all’interno della terra. Botton d’oro, gladioli, calte si…
Ringrazio l’autore Flavio Almerighi per avermi inserito in questa rosa d’autori
Posted on Maggio 28, 2023
Col tempo
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Col tempo
ho imparato che non tutto è bianco o nero
che ci sono grigi se apri la mente.
Col tempo
non ho smesso di sognare
ebbene, il giorno in cui non sognerò più,
il mio bambino interiore sarà scomparso.
Col tempo
ho imparato a godermi l’attimo
senza pensare a ciò che è successo
o al tempo in cui accadrà.
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di Neus Bonet I Sala, qui:
. * . Una Lettera . in maggio la selvaggina crepitava sul fuoco poi gli inni alla gioia dei berliner si sono confusi ai pianti sugli imperi dissolti ti scrivevo, qui in questa palude di principi ranocchi non si è salvato né l’odio per i libretti rossi né il marasma degli innamorati: l’estinzione della Storia infiamma le folle come ai…
Attrice e poeta. Nata ad Ancona, vive a Bologna dove è impiegata presso l’Università.
Ci sono giorni che non riesco a starmene seduta la sedia è troppo alta, il divano non accoglie. Ci sono i giorni del letto duro e inospitale che pare il disordine insopprimibile del cosmo riversarsi in un instabile equilibrio del mio corpo. Se ne stanno dure le cose e ossute preoccupate di seguire il palinsesto quotidiano.
Mi avrebbero linciato se non fossi stato spedito in segreto alla prigione di Peoria. Eppure me ne tornavo in pace a casa mia, con in mano il boccale, un po’ ubriaco. Quando Logan, il maresciallo, mi fermò, mi diede del porco ubriaco e mi scrollò, e quando gli risposi per le rime, mi colpì con quel bastone proibizionista di metallo – tutto questo prima ch’io sparassi. Mi avrebbero impiccato se non per questo: il mio avvocato, Kinsey Keene, stava cercando d’imputare il Vecchio Thomas Rhodes per il fallimento della banca, e il giudice era un amico di Rhodes e voleva che fuggisse, e Kinsey offrì di tralasciare Rhodes in cambio di quattordici anni per me. L’affare fu concluso. Scontai la pena e imparai a leggere e a scrivere.
Forough Farrokhzad (Teheran, 5 gennaio 1934 – Teheran, 13 febbraio 1967), poetessa iraniana, sfidando le autorità religiose e i letterati conservatori, Farrokhzad espresse con fermezza la propria posizione sulla situazione femminile nella società iraniana degli anni cinquanta-sessanta, contribuendo in modo decisivo al rinnovamento della letteratura persiana del ‘900.
Ah se in questo silenzio con questa purezza tu diventassi terra tra le mie braccia, in questo silenzio, con questa purezza tra le mie braccia sotto l’ombrello dei miei capelli quando il terreno del mio giovane corpo ti beve come una pioggia delicata o una carezza di luna.
Certe sere vorrei salire sui campanili della pianura, veder le grandi nuvole rosa lente sull’orizzonte come montagne intessute di raggi.
Vorrei capire dal cenno dei pioppi dove passa il fiume e quale aria trascina; saper dire dove nascerà il sole domani e quale via percorrerà, segnata sul riso già imbiondito, sui grani.
Vorrei toccare con le mie dita l’orlo delle campane, quando cade il giorno e si leva la brezza: sentir passare nel bronzo il battito di grandi voli lontani.
ANTONIA POZZI
Le tre strofe della poesia si fondano sull’ottativo ‘vorrei’; 19 versi piani; ho contato 2 novenari; 2 decasillabi; 5 settenari; 3 ternari; 5 endecasillabi; 1 doppio settenario; 1 ottonario. Antonia descrive un paese di montagna, immerso nella natura, vorrebbe salire sui campanili, per vedere le nuvole rosa all’orizzonte, i pioppi lungo le sponde del fiume, il sorgere del sole che illumina il grano imbiondito. Vorrebbe toccare l’orlo delle campane, e quando verrà il vento, sentire i loro rintocchi come se fossero voli lontani.
Jean Nicolas Arthur Rimbaud (1854 – 1891) è stato un poeta francese.
cinque della sera Da otto giorni laceravo i miei stivali Sulle pietre dei sentieri. Entrai a Charleroi. – Al Cabaret-vert: chiesi dei crostini di burro E del prosciutto che fosse mezzo freddo. Beato, distesi le gambe sotto il tavolo verde: Contemplai i soggetti piuttosto ingenui Della tappezzeria. – E fu adorabile, Quando la ragazza dalle enormi tette, gli occhi vispi, – Quella, non era certo un bacio a spaventarla! – Sorridente mi portò i crostini imburrati, E il tiepido prosciutto, in un piatto colorato, Prosciutto bianco e rosa profumato da uno spicchio D’aglio, – e mi riempì un boccale immenso, con la schiuma Che un raggio di sole tardivo indorava.
La poesia nacque per allietare i banchetti,infatti, gli aedi, gli antichi cantautori, durante i banchetti regali cantavano le imprese degli eroi mitici, mentre durante i pasti nuziali intonavano la melica e la satira giambica e nel corso dei banchetti funebri l’elegia. Perciò la cornice conviviale dei piaceri della tavola, scanditi quasi come se fossero su uno spartito musicale dai brindisi dei convitati, è strettamente legata con l’arte della parola. Nonostante questo legame viscerale tra cibo e arte poetica, la letteratura l’ha scelto poche volte come centro di interesse, soprattutto per quanto concerne la preparazione delle pietanze. I riferimenti gastronomici erano considerati impoetici. Il grande poeta simbolista italiano, Giovanni Pascoli, nel suo “romanzo georgico”, i Poemetti, fu tra i primi a sublimare nella poesia i riti della preparazione di pietanze, facendoli assurgere ad opere d’arte in quanto eseguiti con amore e maestria.
NAPOLI
Il cibo nelle opere di Pascoli assume a seconda dei casi ruoli e funzioni assai diversi: la sua scelta quindi, come quella di oggetti e di luoghi, non è casuale ma fatta perché apportatrice di precisi significati che possono essere slegati da una descrizione di un prodotto o di una ricetta e più collegati a quella di un atto di preparare o trasformare una materia alimentare. Il banchetto in particolare, all’interno della poetica pascoliana, è una metafora della vita e della morte. Il momento conviviale, generalmente simbolo di unione e coesione tra persone che condividono tra loro qualcosa o che sono parenti, è per il nostro protagonista fonte di inquietudine, esempio della sua relazione col senso del vivere; la vita è intesa infatti sostanzialmente come un banchetto dal quale si può essere scacciati all’improvviso. Interessanti a tal proposito sono anche le metafore che utilizza per delineare il comportamento del giusto invitato e quindi, per associazione, dell’uomo che deve avere nei confronti della vita. La morte, tema dominante nella poetica pascoliana, emerge inevitabilmente anche nelle metafore conviviali o a tema cibo ma anche nelle credenze dei propri territori alle quali il poeta fa costantemente riferimento. C’è una tradizione di matrice popolare presente in Romagna che vuole che i morti della famiglia assieme ad altre entità possano, in determinate occasioni, avere accesso libero alla casa; Quindi, di sera era opportuno di non lasciare la tovaglia sulla tavola e lasciare del cibo per non attirarli. A questa usanza fa riferimento la poesia “La Tovaglia” facente parte della raccolta “I canti di Castelvecchio” del 1903. In questo componimento il poeta prega la sorella di non seguire la tradizione e far si che i morti amati, quelli dei parenti, possano giungere a casa. Le tradizioni contadine inoltre, unite alla descrizione delle ricette non sono solo descrizioni atte a documentare gli usi di una porzione di territorio italiano ma, attraverso esse, vengono costruiti significati simbolici, metaforici e rituali, che assumono grande valore per il poeta.
LA TOVAGLIA
Le dicevano: ― Bambina! che tu non lasci mai stesa, dalla sera alla mattina, ma porta dove l’hai presa, la tovaglia bianca, appena ch’è terminata la cena! Bada, che vengono i morti! i tristi, i pallidi morti!
Entrano, ansimano muti. Ognuno è tanto mai stanco! E si fermano seduti la notte attorno a quel bianco. Stanno lì sino al domani, col capo tra le due mani, senza che nulla si senta, sotto la lampada spenta.
È già grande la bambina; la casa regge, e lavora: fa il bucato e la cucina, fa tutto al modo d’allora.
Pensa a tutto, ma non pensa a sparecchiare la mensa. Lascia che vengano i morti, i buoni, i poveri morti.
Oh! la notte nera nera, di vento, d’acqua, di neve, lascia ch’entrino da sera, col loro anelito lieve; che alla mensa torno torno riposino fino a giorno, cercando fatti lontani col capo tra le due mani.
Dalla sera alla mattina, cercando cose lontane, stanno fissi, a fronte china, su qualche bricia di pane, e volendo ricordare, bevono lagrime amare. Oh! non ricordano i morti, i cari, i cari suoi morti!
― Pane, sì… pane si chiama, che noi spezzammo concordi: ricordate?… È tela, a dama: ce n’era tanta: ricordi?… Queste?… Queste sono due, come le vostre e le tue, due nostre lagrime amare cadute nel ricordare! ―
*Ancora una poesia profonda e struggente, del grande Pascoli. Come sempre il tema centrale il desco familiare, il nido, il cibo come atto di unione e la morte fine e separazione. È talmente grande la nostalgia dei cari persi così tragicamente che trova spunto da un’antica tradizione che vuole che nel giorno dei morti, hanno il permesso di sedersi alla tavola dei vivi e lì sostare un attimo per mangiare qualcosa se chi è rimasto lì ricorda e li attende. E lui immagina la figura della sorella che contro ogni raccomandazione e paura mette la tovaglia e lascia del pane innaffiato di lacrime, le stesse che i cari estinti verseranno su quel cibo fatto di ricordi di passati pranzi, di passate gioie.