Poesia : “Utopia” di Caterina Alagna

Potessero le mie mani sfogliare

petali bagnati di cielo

e impregnare di vita la pioggia

che scroscia lungo le vie del pensiero.

Potessero le mani afferrare

lo sciabordio di ardite favelle

che scorre come cascata 

di luce e sfavillanti stelle,

o accogliere il seme dei sogni,

il soffio soffuso di tacite nuvole

rannicchiato sulla cime dei monti

a offuscare foreste incolte.

Potessero le nuvole avvolgere i miei occhi,

scardinare immagini avvinghiate

a lastre di dolore,

cancellare le orme tracciate

da un amaro ricordo

che olezza di vento e d’un lacrimare sordo.

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Cultura: “Il fiordo di Furore” di Caterina Alagna – Salerno

Una profonda spaccatura nella roccia che cade a strapiombo sul mare, immersa nel cuore di una natura selvaggia e racchiusa da una spiaggia di soli 25 mq. Parliamo del Fiordo di Furore, una meravigliosa insenatura del borgo di Furore, piccolo gioiello della Costiera Amalfitana. Il fiordo, in realtà, è uno specchio d’acqua situato ai piedi di un vallone creato dal torrente Schiato. Attraversato da un ponte alto 30 m, è famoso anche per il ” Campionato mondiale di tuffi e altezze” che ogni anno accoglie atleti da tutto il mondo che si cimentano nelle gare di tuffi, ad altezze tra i 23 m e i 28 m.

Il borgo di Furore, noto anche come “il paese che non c’è”, si caratterizza per la sua particolare morfologia. Non presenta, infatti, un centro urbano ma case situate su rocce a strapiombo, sorgendo proprio sul laterale della montagna. Dal 1997 Furore, insieme ai suoi 688 abitanti, è patrimonio mondiale dell’Unesco.

A Furore ho voluto dedicare dei versi

A Furore

Inabissata nel grembo di una gola marina

Gemma preziosa di quella costa divina

Assaporo l’inquietudine del mare

Confondermi le carni alla pietra viva

Sulle onde corrugate dal vento

Nel furore di quel fiordo incandescente

Si schianta a strapiombo il mio spirito irruente 

Selvaggio come il mare che sferza la riva

Impetuoso come il vento che scaglia la corrente

Il respiro del mare che infuria nella mente

Mi soggioga a quel miracolo vivente

Fino a risucchiare il mio spirito ribelle. 

Caterina Alagna

Musica italiana: “L’aquila” di Lucio Battisti, analisi del testo – di Caterina Alagna – Salerno

L’aquila

Il fiume va
Guardo più in là
Un’automobile corre
E lascia dietro sé
Del fumo grigio e me
E questo verde mondo
Indifferente perché
Da troppo tempo ormai
Apre le braccia a nessuno
Come me che ho bisogno
Di qualche cosa di più
Che non puoi darmi tuUn’auto che va
Basta già a farmi chiedere se io vivoMezz’ora fa
Mostravi a me
La tua bandiera d’amore
Che amore poi non è
E mi dicevi che
Che io dovrei cambiare
Per diventare come te
Che ami solo me
Ma come un’aquila può
Diventare aquilone
Che sia legata oppure no
Non sarà mai di cartone, no
Cosa son io non soMa un’auto che va
Basta già a farmi chiedere se io vivo
Basta già a farmi chiedere se io vivoIl fiume va, sa dove andare
Guardo più in là in cerca d’amore
Un’automobile corre, non ci son nuove terre
E lascia dietro sé
Del fumo grigio e me
E questo verde mondo nel quale mi confondo
Indifferente perché
Da troppo tempo, ormai
Apre le braccia a nessuno
Come me che ho bisogno
Di qualche cosa di più
Che non puoi darmi tuMa un’auto che va
Basta già a farmi chiedere se io vivo

La canzone “L’ aquila” fu inizialmente scritta da Battisti e Mogol per Bruno Lauzi che la pubblica nel 1971. L’anno successivo anche Battisti la interpreterà inserendola nell’album ” Il mio canto libero“. Il brano tratta vari temi. Quello principale è la libertà. Il protagonista si trova ad osservare la discrepanza tra la sua vita personale e il mondo. L’autore è attanagliato da una grande sofferenza perché non riesce a trovare il senso della vita. Rivolge il suo sguardo al mondo in cerca di una saliente risposta ma tutto ciò che ottiene è indifferenza. Il mondo continua imperterrito il suo percorso senza prestare attenzione alla sofferenza dell’autore. Un mondo freddo che non riesce a dargli il senso della vita, senso che non ottiene neppure dall’amore. Emblematici in tal senso sono i versi ” E questo verde mondo/indifferente perché/ da troppo tempo ormai /apre le braccia a nessuno/come me che ho bisogno/di qualche cosa di più/che non puoi darmi tu“.  Quel che più è chiaro  è che l’autore ha bisogno di respirare la libertà. Libertà che predomina persino sull’amore. Non è possibile modificare o plasmare una persona a nostro piacimento, se la si ama veramente la si lascia libera di essere quel che è. L’autore vuole essere libero da regole, obblighi e  impedimenti che gli impedirebbero di essere sé stesso. Il significato della canzone è racchiuso tutto nei versi ” Ma come un’aquila può/ diventare aquilone/ che sia legata oppure no/ non sarà mai di cartone“.

Biografia

Lucio Battisti nasce il 5 marzo 1943 a Poggio Bustone, un piccolo paese in provincia di Rieti, da una famiglia piccolo borghese. Ancora bambino si trasferirà prima a Vasche di Castel Sant’Angelo e poi a Roma. Molto poco si sa dell’infanzia di Lucio. Dal carattere estremamente riservato, non lascerà molte interviste e tenderà sempre a proteggere la sua vita privata. Si sa che a Roma frequenta le scuole elementari e medie, conseguendo nel 1962 il diploma di perito industriale. Fin da piccolo non nasconde la sua passione per la musica e per la chitarra. Con gli anni della maturità per Lucio diventa sempre più chiaro quel che è il suo obiettivo: diventare un cantante.Nel 1965 arriva l’incontro che segnerà il suo destino, quello con il paroliere Giulio Rapetti, in arte Mogol. I due iniziano un sodalizio che durerà per ben 15 anni, grazie al quale regaleranno alla musica alcune delle canzoni più belle mai scritte. Pur facendo musica d’autore, in effetti, Lucio non è un cantautore ma più un musicista, o per meglio dire, un grande musicista. Prima di conoscere Mogol scrive alcuni testi, ma ben presto si accorge che le parole sono troppo deboli per sposarsi con la sua musica.  Nel 1968 arriva il successo grazie alla canzone “Balla Linda“, a cui seguiranno “Un’avventura” nel 1969, brano che presenterà a Sanremo, e la canzone che gli consentirà di ottenere il successo definitivo, ovvero “Acqua azzurra Acqua chiara” che porterà nell’estate seguente al Festival Bar. Gli anni più importanti della sua carriera musicale sono senza dubbio gli anni ’70 e ’80, anni in cui regalerà alla musica italiana dei brani immortali e ineguagliabili, quali “La canzone del sole“, “I giardini di marzo“, ” Anche per te“, ” E penso a te“, ” Il mio canto libero“. Veri e propri capolavori che finiscono sempre in testa alle classifiche. Artista musicalmente eclettico, spazia in tutti i generi musicali, dalla musica leggera al rock progressive, dalla canzone d’autore al rock psichedelico, dalla musica dance a quella elettronica. Dopo  la rottura con Mogol inizia una nuova collaborazione con il paroliere Pasquale Panella. La differenza tra i due periodi è lampante, ma il genio di Lucio resta invariato. I testi scritti da Panella sono di difficile interpretazione e anche la musica perde la sua vena pop. Gli album con Panella sono grandi capolavori che però possiamo definire di nicchia. Le parole, costruite su una sintassi a volte contorta, a limite del non sense,  non arrivano  a tutti. Nonostante ciò, gli album avranno delle buone vendite. Purtroppo nel 1998 per cause mai chiarite, Lucio Battisti, dopo aver trascorso diversi in giorni in terapia intensiva, muore a soli 55 anni. Una grande perdita per la musica. Qualcuno ha detto che con la morte di Lucio Battisti sia morta metà della musica italiana. Quel che è certo è che Lucio Battisti è stato uno dei più grandi musicisti e cantanti italiani e che, senza ombra di dubbio, la sua musica è destinata all’eternità.

Poesia: ” Occhi caldi” di Caterina Alagna – Salerno

I tuoi occhi caldi 

assaporano un timido mattino

dipinto di bianco

e di profumi che invadono

l’olfatto. 

I sapori dell’amore

ancora scivolano sulle sponde

della pelle

e in oceani brulicanti di stelle

s’affollano i sospiri 

di una luna d’argento

che imperla d’incanto

il soffuso calore d’un bacio d’amore. 

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Poeti: “Gesù” di Giovanni Pascoli – Caterina Alagna – Salerno

Gesù rivedeva, oltre il Giordano,
campagne sotto il mietitor rimorte,
il suo giorno non molto era lontano.

E stettero le donne in sulle porte
delle case, dicendo: “Ave, Profeta!”
Egli pensava al giorno di sua morte.

Egli si assise, all’ombra d’una mèta
di grano, e disse: “Se non è chi celi
sotterra il seme, non sarà chi mieta”.

Egli parlava di granai ne’ Cieli:
e voi, fanciulli, intorno lui correste
con nelle teste brune aridi steli.

Egli stringeva al seno quelle teste
brune; e Cefa parlò: Se costì siedi,
temo per l’inconsutile tua veste.

Egli abbracciava i suoi piccoli eredi:
Il figlio Giuda bisbigliò veloce –
d’un ladro, o Rabbi, t’è costì tra ’piedi:
“Barabba ha nome il padre suo, che in croce
morirà.”

Ma il Profeta, alzando gli occhi
“No”, mormorò con l’ombra nella voce,
e prese il bimbo sopra i suoi ginocchi.

Una poesia che possiamo interpretare come una lirica religiosa e che possiamo definire una lettura ideale durante il periodo che conduce alla Pasqua. Contenuta nella raccolta Il piccolo Vangelo, pubblicata postuma nel 1912, descrive il Cristo in cerca della sua natura divina.

Pascoli ci restituisce l’immagine di un Gesù umano, rivestito di quell’umanità che lo rende simile a noi. I primi versi si aprono con l’immagine di una profezia: Gesù pensa alla propria morte e intuisce che la sua fine è vicina. Intorno a lui si raccolgono i bambini che portano tra i capelli aridi steli. Immagine che riconduce alla corona di spine che Gesù sarà costretto a indossare. Egli stringe a sé questi fanciulli, che Pascoli chiama “i suoi eredi”, in quanto Gesù sa che , una volta scomparso, questi si faranno promotori del suo messaggio, della buona novella. Nei versi finali compare il presagio della croce. Tra i bambini, infatti, è presente il figlio di Barabba che, il discepolo Giuda, il traditore, dice, bisbigliando a Gesù, essere il figlio di un ladro che morirà sulla croce. Gesù respinge quest’affermazione con un “no” deciso, ma con “l’ombra nella voce”. Con questa sinestesia Pascoli rimarca il presagio della crocifissione a cui Gesù reagisce con un gesto di amore. Prende il figlio di Barabba e lo conduce sulle sue ginocchia per abbracciarlo. È l’accettazione del sacrificio. Non sarà Barabba a morire, ma lui.

Pascoli con questa poesia non intende parlare della morte di Gesù o della sua passione, né evidenziare la sua natura divina. Descrive soprattutto un uomo che va incontro al suo cruento destino in modo docile, compiendo gesti d’amore.

Poesia: “Sull’orlo dei miei versi” di Caterina Alagna

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Sull’orlo dei miei versi

nevicano fiocchi di miele

che consumano acuminati pensieri

fino a smussarne i bordi

ricoperti d’antichi veleni.

La poesia s’avvinghia all’anima mia

e s’inerpica lungo arbusti

di fervide immagini d’amore

che si sciolgono in metafore armoniose,

in languide rime

da cui emerge, nascosto da una docile foschia,

il timido accenno di un cuore pulito

che non s’arrende a un cielo

mancante d’amore.

Giornata della donna. Poesia: “Pensiero di vita” di Caterina Alagna – Salerno

Ti vedo piangere, donna

per i dubbi del domani

e per lo strazio delle cicatrici

generato dagli intenti criminali

di uomini che stringono 

la polvere nel cuore delle mani. 

Il loro amore si è impegolato

in paludi di falsa poesia

che sboccia sul fiore delle labbra

e cela una serpe velenosa

sulla punta della lingua.

Vorrei vederti sorridere, donna

tu che sei pensiero di vita

che germoglia fin dentro le ossa

e si staglia sulle tenere fronde

delle nuvole

che sussurrano al vento

il vellutato chiarore del tuo animo

gemmato di rose

che s’espande come intenso profumo

d’un delicato fiore. 

Caterina Alagna

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Musica. Canzone italiana: “Sentimento”, Piccola Orchestra Avion Travel – Di Caterina Alagna – Salerno

“Sentimento” è un brano della ” Piccola Orchestra Avion Travel” che si è aggiudicato la vittoria a Sanremo nel 2000. Ebbe un successo commerciale anche se non superò mai il nono posto in classifica e l’album vendette solo 70.000 copie. Il fatto è che le canzoni d’autore belle e significative non sono per tutti, sono per un pubblico di nicchia e “Sentimento” non fa eccezione. Stiamo parlando di una canzone elegante e raffinata che risente di importanti influenze musicali. Il “Dizionario delle canzoni italiane” di Dario Salvatori l’ha definita “un omaggio alla musica del Novecento”. Gli stessi autori ammettono che il brano risenta di numerose ispirazioni musicali che attraversano  le note e il testo. Il brano inizia con un’apertura pucciniana per poi citare subito un verso di una delle più belle canzoni napoletane : “sul mare luccica” di “Santa Lucia”. Si esprime dopo in un ritmo elegante in cui mescolati si mostrano echi dei Pink Floyd, della musica greca, della melodia classica napoletana, di Verdi e persino di Orietta Berti. Quello che più colpisce di questa canzone, oltre la sua incantevole melodia, è il significato del testo. Sentimento è il nome di una barca e dei suoi sei pescatori che a volte riescono a prendere dei pesci e altre volte no. Il testo è  una metafora della vita, noi tutti ci troviamo su una barca, a volte navighiamo su mari calmi e a volte su mari in tempesta, momenti di gioia e di dolore si alternano e non possiamo che accoglierli e gestire la rotta nel migliore dei modi“con la paura ogni tanto di affogare“. Non manca il desiderio di libertà. Un verso che mi colpisce particolarmente è :” Diceva Ulisse chi m’ò fa fa? La strana idea che c’ho di libertà“.In un’epoca come la nostra dove i giovani appaiono sempre più demotivati, spenti, privi di sogni, disposti ad accontentarsi, travolti dal vortice dell’immagine e dalla sfrenata voglia di apparire,  Ulisse è l’esempio da seguire. Il famoso eroe greco non si distingue per la sua bellezza, ma per la sua intelligenza, per la sua astuzia e per la sua infinita sete di conoscenza. Dovremmo essere animati come lui dalla curiosità, dal desiderio di raggiungere fonti di sconosciuto sapere e per farlo abbiamo bisogno proprio di sentimento, di quella passione emotiva che ci spinga con slancio nel cuore delle cose e che dia  un senso a questa vita fondamentalmente  senza senso.

Sentimento

Sul mare luccica la luna in transito
biancheggia il corpo di una bestia acquamarina
ed è un incrocio tra il cielo e il fondo
cosa mai vista s’inabissa quando s’alza
maronna mia questo cos’è
Castellammare pesce non ce n’è

Sul mare luccica la nostra barca
tesa nel vento il suo nome è sentimento
stella d’argento sono contentotu m’hai portato nella mano in cima al mondo
stiamo a vedere quando uscirà
con gli occhi cosa ci domanderà

na na na….

Sopra il mare non passa mai il tempo
tempo che non passa mai ci cercò ci trovò
ma noi chi siamo che ci facciamo
cosa vendiamo delle cose che più amiamo
e stare soli in mezzo al mare
con la paura ogni tanto di affogare

Diceva Ulisse chi m’o ffa fà

la strana idea che c’ho di libertà

na na na….

Sopra il mare non passa mai il tempo
tempo che non passa mai ci cercò ci trovò

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Poeti: Dante Alighieri, Inferno Canto V ” Paolo e Francesca” di Caterina Alagna – Salerno

Possiamo dire con certezza che sono tra i versi più belli del panorama letterario italiano. Sto parlando del V canto dell’Inferno e nello specifico dei versi che decantano il  grande amore che unisce due innamorati ( adulteri), Paolo e Francesca. 

Dopo l’incontro con Minosse, Dante e Virgilio s’inoltrano in un luogo buio tempestato da una violenta bufera che trascina i dannati sbattendoli da una parte all’altra del cerchio, mentre questi emettono grida e bestemmie. Dante intuisce che si tratta dei lussuriosi le cui anime, trascinate, formano schiere simili a quelle degli stornelli. Dante poi s’accorge di un’altra schiera di anime che in volo forma, invece, linee simili a quelle delle gru. Virgilio gli spiega che si tratta di tutti i lussuriosi morti violentemente e tra questi gli indica Didone, Cleopatra, Elena, Achille, Tristano. Dante nota due anime che camminano affiancate l’uno all’altra e dichiara a Virgilio il desiderio di poter parlare con loro. Virgilio acconsente e Dante le chiama a sé. Le due anime, staccatesi dalle altre, gli vanno incontro. Sono un uomo e una donna e quest’ultima ringrazia Dante per la pietà mostrata per loro. Dice di essere nata a Ravenna e di essere indissolubilmente legata all’uomo che è ancora accanto a lei . Si tratta appunto di Paolo Malatesta e Francesca da Rimini che in vita erano cognati ( Francesca era la moglie di Gianciotto, fratello di Paolo) uniti da un grande amore. Dante colpito dalla loro unione, chiede a Francesca di raccontargli in che modo sia iniziata la loro relazione. La donna allora narra che un giorno, presi dalla lettura del libro che racconta la storia dell’amore tra Ginevra e Lancillotto, vengono travolti da una profonda passione finendo per scambiarsi un bacio tremante  che segnerà l’inizio del loro amore. Alla fine troveranno la morte per mano di Gianciotto. 

Avremmo letto questi versi centinaia di volte, ma non possiamo nascondere che a ogni nuova lettura, i nostri sensi tremano di fronte a quest’opera  di straordinaria levatura, di fronte all’immenso e profondo amore che ha condotto Paolo e Francesca alla stessa morte e che dura finanche all’Inferno.  Volendo dirlo con le parole di Dante:  ” Amor che a nullo amato amar perdona,/mi prese del costui piacer così forte,/ che, come vedi,  ancor non m’abbandona”. Dante profondamente colpito dall’intensità di questo amore così forte e vero, perde i sensi, e “cade come corpo morto cade”.

Di quel che udire e che parlar vi piace,
noi udiremo e parleremo a voi,
mentre che ‘l vento, come fa, ci tace.

Siede la terra dove nata fui
su la marina dove ‘l Po discende
per aver pace co’ seguaci sui.

Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende,
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e ‘l modo ancor m’offende.

Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona.

Amor condusse noi ad una morte.
Caina attende chi a vita ci spense».
Queste parole da lor ci fuor porte.

Quand’ io intesi quell’ anime offense,
china’ il viso, e tanto il tenni basso,
fin che ‘l poeta mi disse: «Che pense?».

Quando rispuosi, cominciai: «Oh lasso,
quanti dolci pensier, quanto disio
menò costoro al doloroso passo!».

Poi mi rivolsi a loro e parla’ io,
e cominciai: «Francesca, i tuoi martìri
a lagrimar mi fanno tristo e pio.

Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri,
a che e come concedette amore
che conosceste i dubbiosi disiri?».

E quella a me: «Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
ne la miseria; e ciò sa ‘l tuo dottore.

Ma s’a conoscer la prima radice
del nostro amor tu hai cotanto affetto,
dirò come colui che piange e dice.

Noi leggiavamo un giorno per diletto
di Lancialotto come amor lo strinse;
soli eravamo e sanza alcun sospetto.

Per più fïate li occhi ci sospinse
quella lettura, e scolorocci il viso;
ma solo un punto fu quel che ci vinse.

Quando leggemmo il disïato riso
esser basciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,

la bocca mi basciò tutto tremante.
Galeotto fu ‘l libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante».

Mentre che l’uno spirto questo disse,
l’altro piangëa; sì che di pietade
io venni men così com’ io morisse.

E caddi come corpo morto cade.

Cultura: Matera, Città dei Sassi di Caterina Alagna

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Definita dall’Unesco patrimonio mondiale dell’umanità, la città di Matera è unica nella sua bellezza. Matera è una città che ti abbraccia con la sua arte e con la sua tranquilla, ma mai spenta, vita cittadina. Non poche le cose da vedere che ti lasciano a bocca aperta. La città antica, meglio conosciuta come I Sassi, sorge su due nuclei: il Barisano e il Caveoso. Una volta che ti inoltri nei vicoli, vieni avvolto da un’aura di rara bellezza che però mostra segni di un passato di sofferenza. E’ possibile visitare alcune case, oggi musei, che sono state arredate con i mobili e gli utensili originali del periodo in cui erano abitate, donati dai discendenti delle famiglie che vi abitarono fino a metà del secolo scorso. Le case, scavate nelle grotte, non hanno all’interno l’aspetto delle nostre case, sono piuttosto caratterizzate da una sola stanza senza finestre, con un povero mobilio costituito da una piccola tavola, qualche mensola, da un’umile dispensa e un cassettone. Negli angoli di questa unica stanza troviamo minuscoli vani: il vano cucina,  il vano stalla ( all’esterno non c’era spazio per gli animali per cui li ospitavano in casa) e il vano notte costituito da un un letto e una piccola culla. Queste case erano abitate da poveri contadini, erano luoghi molto umidi privi di luce, di finestre, di porte e di acqua corrente. Possiamo solo immaginare, quindi, le condizioni malsane in cui vivevano: scarsa igiene, poco cibo, odore nauseabondo anche a causa della presenza degli animali in casa (dove immaginiamo espletassero i loro bisogni fisiologici). Inoltre erano abitate da nuclei di famiglie molto numerose. Ogni famiglia, infatti, aveva in media otto figli. Si veniva a creare un vero e proprio microclima deleterio per la salute. In questi territori erano diffuse molte malattie che provocavano vari focolai endemici: tubercolosi, leishmaniosi, rachitismo, polmoniti, malaria. Altissima la mortalità infantile, che arrivò  tra il 1923 e il 1933 a raggiungere percentuali addirittura del 45%. Nel 1945 Carlo Levi nel suo capolavoro “Cristo si è fermato ad Eboli” pose la questione materana all’attenzione della politica nazionale. Nel 1948, il leader del Partito comunista italiano, dopo avervi fatto visita,  definì Matera “la vergogna nazionale”. Dello stesso avviso fu il primo ministro Alcide De Gasperi quando vi fece visita nei primi anni ’50 e con una legge del 1952 impose lo sgombero delle case grotte. I cittadini vennero trasferiti in nuove strutture che poi costituirono le abitazioni della città nuova. Solo negli anni ’80 i Sassi vennero di nuovo rivalutati e iniziò un graduale percorso di recupero che portò nel 1993 l’Unesco a definire Matera patrimonio mondiale dell’umanità. Nel 2019 Matera è stata capitale europea  della cultura. Ad ogni modo, oggi quando ti inoltri nei piccoli vicoli dei sassi, una forte emozione ti strugge il cuore. Grande attenzione merita il complesso di chiese rupestri scavate nelle grotte. Tra le  più importanti troviamo Santa Lucia alle Malve,  Santa Maria di Idris che sorge sulla sommità dell’omonima rupe e San Pietro Barisano che ospitano al loro interno numerosi affreschi importanti purtroppo deteriorati dal tempo ( alcuni ormai quasi totalmente perduti). Meritano una visita anche tutte le meravigliose chiese della città nuova. Sono in realtà molto antiche anche se costruite fuori dai sassi. Alcune risalgono al 1200. Degne di nota sono le grotte del Paleolitico nel parco materano della Murgia in cui sono stati ritrovati utensili e pitture rupestri risalenti a 400.000 anni fa, periodo in cui visse l’Homo Habilis e successivamente l’Homo Erectus. Insomma Matera è un esempio di un ecosistema  straordinario che parte dalla preistoria e arriva fino ai nostri giorni attraversando vari piani: culturale, artistico, architettonico, naturale e urbanistico.


A Matera ho voluto dedicare dei versi 

“A Matera”

Matera

dai vividi splendori, 

ti ergi su due cuori 

di sassi e di dolori.

Tempio consacrato alla 

filosofia povera,

adornato di atavici stenti 

e di giorni iti alla 

malora.

Tu,

intima alcova

di un’anima nuda

che nell’amore di Maria

si ristora.

Si eleva sincera 

la tua umile pietra 

che di arte e di gloria 

lasciò il suo segno

nella storia.

Matera,

la mia anima si sposa

alla tua pietra,

la tua magnificenza

gli occhi mi sottrae

mentre deliziata affondo

nella tua terra 

di bellezza soave.



Caterina Alagna

Musica. Cantautori: Roberto Vecchioni, “Samarcanda”, testo e analisi- L’ineluttabilità del Fato di Caterina Alagna

Oggi voglio  dedicare questo spazio alla canzone d’autore italiana. Il cantautore  a cui desidero rendere omaggio è Roberto Vecchioni. Paroliere, poeta e musicista,  non si può non menzionare la sua più grande passione: l’insegnamento. Ha lavorato, infatti, come docente di greco e latino in vari licei classici, tra Milano e Brescia, dal 1969 al 2004. Ha ottenuto, in seguito, la cattedra di docente universitario presso l’ Università di Torino, dove ha insegnato per tre anni ” Forme di poesia in musica”. 

Di origini napoletane, nasce a Carate Brianza il 25 giugno 1943. Ha pubblicato più di 25 album e venduto oltre 6 milioni di copie. Raggiunge l’apice del successo nel 1977  con l’album “Samarcanda“, a cui seguiranno “Robinson” nel 1980 e “Milady” nel 1989. Nel 1992, grazie al brano  “Voglio una donna“, inserito nell’ album “Camper”, vince il Festival Bar. Nel 1997 pubblica “Il bandolero stanco ” e nel 2002 esce “Il lanciatore di coltelli “. Nel 2011 vince il Festival di Sanremo con la bellissima canzone “Chiamami ancora amore“.

Il brano musicale che ho scelto è “Samarcanda”, dell’omonimo album. Samarcanda è una canzone meravigliosa caratterizzata, però, da sonorità che rischiano di allontanare l’ascoltatore dal vero significato del testo. Quante volte, trasportati da quel ritmo incalzante, sostenuto dal riff inconfondibile del violino di Angelo Branduardi, l’abbiamo ascoltata senza prestare molta attenzione alle parole. Ma di cosa parla “Samarcanda”? Il brano ci conduce nelle atmosfere di terre orientali e racconta di un soldato che rientra dalla guerra, il quale, insieme alla folla festante, si getta, gioioso e danzante, per le strade della città  per esser scampato al pericolo. Ma proprio tra la folla si accorge della presenza di una Nera Signora che gli sta vicino e lo guarda con malignità. La Nera Signora non è altri che la personificazione della morte. Il soldato, credendo che la morte sia lì per lui, in preda allo spavento, riesce a farsi donare dal sovrano il cavallo più veloce del regno per fuggire il più lontano possibile. Fugge fino a Samarcanda, ma una volta arrivato, sarà accolto da una terribile sorpresa: la Nera Signora lo attende proprio in quella città e lui, fuggendo, non ha fatto che altro che assecondare il proprio destino. In poche parole, non si può mai sfuggire alla propria sorte. Sulle nostre teste incombe la forza del Fato, alla quale dobbiamo sottostare. Il tema della canzone rimanda alle credenze dell’antica cultura greca la quale, per dare un senso alle ingiustizie e agli eventi dolorosi che affliggevano la vita delle  persone, anche di quelle virtuose, ricorreva a questa forza potente, il Fato, contro la quale neanche gli dèi potevano ribellarsi. Gli stessi dèi soccombono alla volontà del destino. Emblematica, in tal senso, è la tragedia di Soflocle, l’“Edipo re“. L’oracolo raccomanda a Laio, re di Tebe, di non avere figli, perchè il figlio, una volta adulto, lo avrebbe ucciso per sposare sua moglie, Giocasta. Laio, però, una notte, in preda all’ebbrezza, si unisce a sua moglie. I due concepiscono un bambino, Edipo. Il re, spaventato dalla profezia, abbandona il bambino sul monte Citerone, dove viene trovato da un pastore che  lo affida a Polibo e Peribea, sovrani di Corinto,  che lo adottano. Una volta adulto, Edipo, venuto a sapere della profezia che incombe sulla sua testa, ignorando che Polibo non sia il suo vero padre, per impedire che la profezia si realizzi, fugge da Corinto e, prima di arrivare a Tebe e diventarne sovrano,  uccide sulla strada un vecchio per futili motivi. Quel vecchio non è altri che Laio, il suo vero padre. Edipo, completamente ignaro, giunge a Tebe, risolve l’enigma della Sfinge e diventa sovrano, finendo per sposare Giocasta, ovvero sua madre. Il Fato ha avuto la meglio su di lui. La tragedia si conclude nel peggiore dei modi: Giocasta si toglie la vita, e lui, una volta divenuto consapevole dei fatti, per non vedere la verità, decide di cavarsi gli occhi con la fibbia della veste di lei, chiedendo di essere esiliato dalla città.

Samarcanda

Ridere, ridere, ridere ancora,
Ora la guerra paura non fa,
Brucian nel fuoco le divise la sera,
Brucia nella gola vino a sazietà,
Musica di tamburelli fino all’aurora,
Il soldato che tutta la notte ballò
Vide tra la folla quella nera signora,
Vide che cercava lui e si spaventò 

Salvami, salvami, grande sovrano,
Fammi fuggire, fuggire di qua,
Alla parata lei mi stava vicino,
E mi guardava con malignità
Dategli, dategli un animale,
Figlio del lampo, degno di un re,
Presto, più presto perché possa scappare,
Dategli la bestia più veloce che c’è 

Corri cavallo, corri ti prego
Fino a Samarcanda io ti guiderò,
Non ti fermare, vola ti prego
Corri come il vento che mi salverò
Oh oh cavallo, oh, oh cavallo, oh oh cavallo, oh oh, cavallo, oh oh 

Fiumi poi campi, poi l’alba era viola,
Bianche le torri che infine toccò,
Ma c’era su la porta quella nera signora
Stanco di fuggire la sua testa chinò:
Eri fra la gente nella capitale,
So che mi guardavi con malignità,
Son scappato in mezzo ai grilli e alle cicale,
Son scappato via ma ti ritrovo qua! 

Sbagli, t’inganni, ti sbagli soldato
Io non ti guardavo con malignità,
Era solamente uno sguardo stupito,
Cosa ci facevi l’altro ieri là?
T’aspettavo qui per oggi a Samarcanda
Eri lontanissimo due giorni fa,
Ho temuto che per ascoltar la banda
Non facessi in tempo ad arrivare qua 

Non è poi così lontana Samarcanda,
Corri cavallo, corri di là
Ho cantato insieme a te tutta la notte
Corri come il vento che ci arriverà
Oh oh cavallo, oh, oh cavallo, oh oh cavallo, oh oh cavallo oh oh

Per ascoltare il brano: https://www.youtube.com/watch?v=o3uTOmlva88

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Giornata della Memoria. Edith Bruck, “Quel pensiero”- Per non dimenticare mai, di Caterina Alagna

In occasione della Giornata della Memoria ho deciso di condividere i versi di una grande scrittrice e poetessa, testimone ancora vivente della Shoah, che con la sua arte ha raccontato l’orribile e disumana esperienza vissuta nei campi di concentramento di Auschwitz, Dachau e Bergen Belsen. Sto parlando di Edith Bruck e la poesia che ho scelto è un estratto del canzoniere ” Il Tatuaggio” (1975) ed è dedicata a sua madre. 

Quel pensiero


Quel pensiero di seppellirti
te l’hanno tolto con almeno trent’anni di anticipo!
Abbiamo avuto una lunga festa d’addio
nei vagoni stivati ​​dove si pregava dove si facevano
i bisogni in fila dentro un secchio
che non profumava del tuo lillà di maggio
e anche il mio Dio Sole ha chiuso gli occhi
in quel luogo di arrivo il cui nome
oggi irrita le coscienze, dove io e te
restano sole dopo una selezione
mi desti la prova d’amore
sfidando i colpi di una belva umana
anche tu madre leonessa a carponi
per supplicare iddio maligno di lasciarti almeno l’ultima
la più piccola dei tuoi tanti figli.
Senza sapere la tua e la mia destinazione
per troppo amore volevi la mia morte
come la tua sotto la doccia
da cui usciva un coro di topi
chiusi in trappola.
Hai pensato alla tua piccola con quel frammento
di coscienza risvegliata dal colpo
del portoncino di ferro
con te dentro il mio pane amato mio pane bruciato!
O prima ancora
sapone paralume concime
nelle mani parsimoniose di cittadini
che amano i cani i poeti la musica
la buona letteratura e hanno nostalgia
dei familiari lontani.

Questi versi dal linguaggio forte e viscerale sconquassano la coscienza del lettore. Bruck descrive a chiare lettere, anche brutali, l’orrore dell’Olocausto, con immagini incisive che hanno la forza di scene cinematografiche. Quella di Edith Bruck è una poesia che esprime tutta la disperazione vissuta sulla pelle, il dolore per la morte della madre, diventata concime o sapone nelle mani di tante persone, ignare dell’orrore che si consumava in quei luoghi di sterminio.  Quella di Bruck è una poesia fatta di sangue e dolore, sempre vivi e pronti a travolgere l’anima della poetessa. Siamo di fronte a una memoria del presente. Per Bruck la Shoah non rappresenta un fatto passato, ma un male che è ancora capace di logorare l’anima e la carne dei sopravvissuti. La scrittura diventa quindi un monito per tutti i popoli della terra: tenere viva la memoria affinché mai più si ripeta quello che è accaduto. Come lei stessa afferma: ” La memoria è vita per me. La memoria dovrebbe essere vita per tutti. Non possiamo cancellare il passato perché il passato è il nostro presente e il nostro presente sarà il nostro futuro. Il tempo è uno. Credo che la memoria riguardi tutta l’umanità, non solo coloro che sono stati deportati. Purtroppo dobbiamo parlare sempre noi perché gli altri vorrebbero appiattire, cancellare, allontanare, respingere, mistificare, rimuovere“.

Edith Steinschreiber, poi Bruck, nasce nel 1931 da una povera famiglia ebrea, in uno sperduto villaggio dell’Ungheria. Da bambina viene deportata in vari campi di concentramento, tra cui quello di Aushwitz. Sarà liberata, insieme alla sorella, nel 1945. I suoi genitori, un fratello e altri familiari non sopravvivono. Dopo la liberazione ritornerà in Ungheria, dove inizia la sua carriera di scrittrice raccontando l’orrore agghiacciante che ha vissuto.  Ma ben presto scopre che le sue parole non sono accolte come spera. Nessuno s’interessa a quello che scrive, nessuno è disposto ad ascoltarla. Decide allora di lasciare il paese, dando inizio al suo pellegrinaggio. Prima tenta di raggiungere una delle sorelle maggiori (salvate da Perlasca) in Cecoslovacchia, ma il tentativo fallisce. Poi nel 1948, con la nascita del nuovo Stato di Israele, piena di entusiasmo vi si trasferisce. Qui, per evitare il servizio militare obbligatorio, si sposa assumendo il cognome che ancora oggi porta. L’entusiasmo da cui è animata, però,  svanisce ben presto. I conflitti e le tensioni dello Stato di Israele la deludono e così nel 1954 decide, ancora una volta, di trasferirsi. Questa volta in Italia, a Roma, dove tutt’ora risiede. Qui sposa il poeta Nelo Risi, con cui instaurerà un’importante  storia d’amore che darà vita anche a un sodalizio artistico. Ha scritto tutti i suoi romanzi in italiano. Ha pubblicato diverse raccolte poetiche in cui narra la sua esperienza di sopravvissuta all’Olocausto.

Cultura. Poesia: “I rintocchi del mare” di Caterina Alagna

I rintocchi del mare

ritornano come echi lontani

e germogliano nell’anima

remoti scenari

di un paradiso marino

che avevo vissuto sulla pelle,

e nello spirito con movimento suadente

le onde lavano i residui

di un dolore tagliente.

Il mare cura ogni male fervente

e il profumo della salsedine 

sboccia come un prato di fiori

seminando il sale nel cuore,

il sale della sapienza e della riflessione

che respiro ogni volta

che uno spiraglio di azzurro marino

bagna le mie impronte.

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Cultura. Poesia: “Venezia” di Caterina Alagna

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Sulle sponde della mia pelle

Venezia cosparge il suo canto serafico,

una melodia che risuona di stelle

e  mi inebria il cuore di chiarore romantico.

Illuminato nasce un sorriso 

che si squarcia profondo e senza fiato,

innamorato  s’inoltra nelle  vie  del paradiso 

fino a perdersi nel cuore di San Marco.

Sulla loggia della Basilica

estasiato ho lasciato il mio viso 

e nella laguna che di delizia brulica,

s’incendiano i miei occhi d’oro intriso.

Brillantate dai raggi di dorate increspature,

movenze sinuose trascinano i canali,

per le calli dissolvono ataviche paure 

e sotto i ponti mietono i sospiri degli innamorati. 

Venezia ha posto sul mio capo un diadema,

davanti alla sua immagine idilliaca

la mia carne ancora trema,

s’immerge nel ricordo del suo lirico splendore,

un sigillo che s’incarna come emblema

scolpito nell’anima da brividi d’amore. 

Musica. Canzone italiana: “Altrove”, testo e analisi del significato

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 “Altrove” è il primo brano da solista di Morgan estratto dall’album “Canzoni dall’appartamento” del 2003. Chiusa l’esperienza musicale con i Bluvertigo, Morgan si chiude in un appartamento in via Sismondi a Milano in cerca di un volontario smarrimento che gli darà l’ispirazione giusta per uno dei brani più belli e testualmente più complessi del panorama musicale italiano. Non è un  caso se la rivista Rolling Stone ha definito “Altrove” la canzone italiana più bella del nuovo millennio. 

Abbandonato il sound sintetico del periodo giovanile che lo vedeva legato ai Bluvertigo, Morgan s’accosta  a suoni più vintage e più armonici, vicini alla melodia degli anni ’60, che accompagnano un testo difficile ma al tempo stesso affascinante. Un brano originale che si apre con una congiunzione avversativa, “però“, gettando l’ascoltatore nel bel mezzo di una storia ( forse quella autobiografica dell’autore) che non si sa come comincia ma che delinea perfettamente il significato principale della canzone. Il brano vuole essere una ribellione al conformismo, ai pregiudizi, ai preconcetti e alle idee già stabilite. Chiari, in questo senso, appaiono i primi versi,  ” mi sveglio col piede sinistro, quello giusto“, posti ad indicare una scelta di vita palesemente anticonformista che vede  apprezzare anche la follia  che appare come l’unica via per trovare la felicità, forse perché la follia è libera, non disposta a scendere a compromessi e a macchiarsi d’ipocrisia. Concetto che viene  chiaramente espresso nei versi “c’era una volta un ragazzo/ chiamato pazzo/diceva sto meglio in un pozzo/che su un piedistallo“. Nel  ritornello assistiamo al desiderio dell’autore di perdersi nel mondo, che possiamo interpretare come la volontà di sganciarsi da un luogo e un tempo preciso, che spesso caratterizza la vita quotidiana dell’uomo medio, per abbracciare il mondo nella sua complessità, nelle sue numerose sfaccettature, nella sua totalità. Questo desiderio di perdersi, però, potrebbe anche essere interpretato come una speranza di smarrirsi, di non avere una direzione prestabilita e lasciare che la vita faccia il suo corso liberamente conducendolo altrove. Ma al di là delle possibili interpretazioni, ciò che conta è non rimanere fermi, non restare chiusi nei propri preconcetti ma mettere la mente in continuo movimento, condurla in un viaggio di continua conoscenza. Nella seconda parte della canzone i concetti affermati ricevono una nuova conferma. Pur di vivere libero e non ingabbiato dagli schemi,  l’autore è disposto a rinunciare al suo passato, alla “cosmogonia,  che letteralmente significa l’origine del mondo ma che nella visione autobiografica dell’autore potrebbe tradursi in una rinuncia alle sue origini per concentrarsi sull’avvenire che si presenta in continuo movimento, caratterizzato soprattutto dalla necessità di lasciare la propria impronta, la propria idea libera, non intrappolata negli stereotipi sociali e culturali. In tal senso interessanti appaiono i versi finali : “svincolarsi dalle convinzioni/dalle pose e dalle posizioni“. Questi versi racchiudono il significato ultimo della canzone, ovvero rappresentano un invito a chi ascolta a ragionare sempre con la propria testa e a tracciare un proprio percorso, non condizionato dalle opinioni e dai giudizi altrui. 

Link per ascoltare la canzone https://www.youtube.com/watch?v=6z6dRy3gCIg

Cultura. Poesia:” Ode al primo giorno dell’anno” di Pablo Neruda.

Lo distinguiamo dagli altri
come se fosse un cavallino
diverso da tutti i cavalli.
Gli adorniamo la fronte con un nastro,
gli posiamo sul collo sonagli colorati,
e a mezzanotte lo andiamo a ricevere
come se fosse un esploratore
che scende da una stella
.

Come il pane assomiglia al pane di ieri.
Come un anello a tutti gli anelli: i giorni
sbattono le palpebre
chiari, tintinnanti, fuggiaschi,
e si appoggiano nella notte oscura

Vedo l’ultimo giorno
di questo anno
in una ferrovia, verso le piogge
del distante arcipelago violetto,
e l’uomo
della macchina,
complicata come un orologio del cielo,
che china gli occhi
all’infinito
ripetersi delle rotaie,
alle brillanti manovelle,
ai veloci vincoli del fuoco.

Oh conduttore di treni
fuggiasco
verso stazioni
nere della notte.
Questa fine dell’anno
senza donna e senza figli,
non è uguale a quella di ieri, a quella di domani?

Dalle vie
e dai sentieri
il primo giorno, la prima aurora
di un anno che comincia,
ha lo stesso ossidato
colore di treno di ferro:
e salutano gli esseri della strada,
le vacche, i villaggi,
nel vapore dell’alba,
senza sapere che si tratta
della porta dell’anno,
di un giorno scosso da campane,
fiorito con piume e garofani.

La terra accoglierà questo giorno
dorato, grigio, celeste,
lo dispiegherà in colline,
lo bagnerà con frecce di trasparente pioggia
e poi, lo avvolgerà nell’ombra.

Così è:
piccola porta della speranza,
nuovo giorno dell’anno,
sebbene tu sia uguale agli altri
come i pani a ogni altro pane,
ci prepariamo a viverti in altro modo,
ci prepariamo a mangiare, a fiorire, a sperare.

Ti metteremo
come una torta
nella nostra vita,
ti infiammeremo
come un candelabro,
ti berremo come
un liquido topazio.

Giorno
dell’anno nuovo,
giorno elettrico, fresco,
tutte
le foglie escono verdi
dal tronco
del tuo tempo.

Incoronaci con acqua,
con gelsomini
aperti,
con tutti gli aromi
spiegati,
sì,
benché
tu sia solo un giorno,
un povero giorno umano,
la tua aureola palpita
su tanti cuori stanchi
e sei,
oh giorno nuovo,
oh nuvola da venire,
pane mai visto,
torre permanente!

In questa poesia il poeta cileno affronta un tema caro a tutti gli uomini: la speranza. Il primo di gennaio che s’appresta ad affacciarsi sul mondo, sarà accolto come un giorno speciale, un giorno nuovo, un giorno portatore di cambiamenti, sebbene per la terra non è altri che un giorno come un altro ( nuovo giorno dell’anno/sebbene tu sia uguale agli altri/come i pani/a ogni altro pane). In questi versi Neruda tiene a farci presente che in realtà il primo dell’anno non è portatore di nessuna novità imminente, ma è piuttosto un giorno la cui importanza è legata a un elemento culturale e convenzionale. La gente, pur consapevole che si tratta di un giorno sostanzialmente uguale ad altri che ha già vissuto, si prepara ad accoglierlo con aria di festa, di allegria e di speranza. Nei versi finali, il poeta sottolinea la necessità di questa speranza. Nonostante il primo dell’anno sia solo un povero giorno umano, ha l’animo di consolare e supportare tanti cuori stanchi che trovano così la forza di continuare a vivere e costruire un avvenire migliore. L’aggettivo finale, permanente, riferito alla torre, sta ad indicare proprio la volontà di edificare un futuro stabile e duraturo, ed è in quest’ottica che il pane, seppur sempre uguale, appare come mai visto, come pane fresco ricco di nutrienti per i futuri giorni da vivere.

Cultura. Poesia: “L’ora del Natale” di Caterina Alagna

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Sfavillano le luminarie 

di rosso e di oro nelle case,

per le antiche vie 

delle borgate si espande 

l’aroma del Natale.

Morbido  si adagia

sui vicoli delle città

a festa colorate

e sulle bocche, a fiotti, 

fioriscono parole cantate. 

Per tutti un augurio sincero

di un Natale sereno.

Un pensiero speciale

lo voglio dedicare 

a chi dalla vita riceve tanto male,

a chi non ha i denti,

a chi si veste di spine e arde di stenti,

a chi ha smarrito la speranza,

a chi degli affetti resta 

solo la mancanza. 

E’ Natale a ogni ora

della vita

se lasci cantare la poesia,

se lasci che risplenda nel tuo cuore

un barlume di tenerezza

che soffi sulle labbra una carezza,

che ti guidi nel buio dell’incertezza,

che ti aiuti a sprofondare 

fin nelle viscere del cielo 

anche per un solo briciolo 

di amore vero.

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Poesie natalizie: “Natale” di Salvatore Quasimodo

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Visto il clima preoccupante e bellicoso che da mesi si mostra protagonista del nostro tempo, è difficile pensare al Natale senza sperare che la sua atmosfera di amore e di pace, possa aprire un varco fra le rocce dell’odio per accedere al cuore degli uomini.

La sublime poesia “Natale” di Salvatore Quasimodo è ancora attuale. Partendo da semplici immagini, il poeta riesce a suscitare forti emozioni e profonde riflessioni. Nel guardare l’atmosfera di serenità e di amore che anima il presepe, Quasimodo medita sull’odio che regna nel cuore degli uomini che ancora, dopo secoli, non conoscono la pace e si chiede se ci sarà mai qualcuno pronto ad accogliere il vero significato del Natale, significato che si traduce nell’amore per il prossimo di cui Cristo è portatore. Per dirlo con le parole del poeta:

Ma c’è chi ascolta il pianto del bambino
che morirà poi in croce fra due ladri?

Natale

Natale. Guardo il presepe scolpito,
dove sono i pastori appena giunti
alla povera stalla di Betlemme.
Anche i Re Magi nelle lunghe vesti
salutano il potente Re del mondo.
Pace nella finzione e nel silenzio
delle figure di legno: ecco i vecchi
del villaggio e la stella che risplende,
e l’asinello di colore azzurro.
Pace nel cuore di Cristo in eterno;
ma non v’è pace nel cuore dell’uomo.
Anche con Cristo e sono venti secoli
il fratello si scaglia sul fratello.
Ma c’è chi ascolta il pianto del bambino
che morirà poi in croce fra due ladri?

Poesia: “Luna” di Caterina Alagna

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Una brezza eterea carezzava

la terra come piuma leggera. 

La sua luce argentea cullava

i pensieri stanchi della sera,

bagnando di un bianco bagliore 

le nostre parole di cera.

Gli animi agitati placava 

dagli attacchi del mondo, 

dalle logoranti vicende del giorno.

Ombre spossate nel corpo,

arrese nell’abbraccio di Selene

che mutava in quiete 

il flusso burrascoso delle vene.

Cultura. Poesia napoletana: Il pensiero poetico di Antonio De Curtis

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Il 15 febbraio del 1898 veniva alla luce nel rione Sanità di Napoli Antonio Vincenzo Stefano Clemente  attore, sceneggiatore, commediografo, poeta e paroliere. Figlio di una relazione clandestina tra Anna Clemente e il marchese Giuseppe De Curtis, il piccolo Antonio, risulterà all’anagrafe ” Antonio Clemente, figlio di Anna Clemente e di N.N.” Una storia che segnerà in maniera significativa tutta la sua vita, dal momento che combatterà per farsi riconoscere i titoli nobiliari che gli spettano. L’arcigno marchese Luigi De Curtis  impedisce a suo figlio Giuseppe di  contrarre matrimonio con una popolana. Anna, da sempre ribelle, non nasconde la sua gravidanza, mentre dal canto suo, Giuseppe, pur essendo innamorato di Anna, obbedisce tassativamente agli ordini di suo padre, tenendo segreta la relazione. Il piccolo Antonio così crescerà nella casa materna, in condizioni estremamente povere e disagiate. Non riceve regali a Natale né per il suo compleanno, ma solo freddo, fame e miseria. In cambio sarà nutrito con amorevole affetto da sua madre ( sarà proprio Anna Clemente ad affibbiargli il nomignolo Totò) e da sua nonna Teresa che una volta adulto lo vizierà accontentandolo in ogni capriccio. Non incline agli studi, a scuola si dimostra totalmente svogliato tanto che in quarta elementare viene retrocesso in terza. Sarà solo grazie alla forza di volontà di sua madre che porterà a termine i sei anni delle elementari, ottenendo un attestato che all’epoca vale come un titolo di studio. Ciò nonostante il padre lo iscrive alle ginnasiali, più precisamente al Collegio Cimino, un istituto per i figli dei poveri. Qui si può dire che termina la carriera scolastica del piccolo Antonio, e i genitori, ormai rassegnati, decidono di mandarlo a lavorare. Bisogna dire però che in collegio Totò viene colpito con un ceffone da un suo precettore, spazientitosi forse della sua eccessiva irrequietezza. Il ceffone gli devia il setto nasale, determinando col passare degli anni l’atrofizzazione della parte sinistra del naso conferendo al volto quella particolare asimmetria che lo distinguerà in maniera inconfondibile e che risulterà persino favorevole alla sua carriera di comico. Una volta fuori dal collegio svolge diversi lavori : da garzone a imbianchino, ma pitturare le case non gli interessa. Il lavoro gli provoca tristezza e pigrizia e, ogni volta che può, fugge per andare all’osteria di Don Aniello alla Stella per bighellonare con gli amici catturando le loro attenzioni esibendosi in imitazioni perfette dei malcapitati nel locale. Con l’entrata in guerra dell’Italia nel 1915 Totò si illude di poter ottenere una possibilità di riscatto arruolandosi nell’esercito, ma ben presto si accorgerà che la vita militare non fa per lui: non sopporta di alzarsi all’alba, la disciplina ferrea e le marce. Finge malesseri di ogni tipo con la speranza di ottenere mansioni meno faticose. Ma il suo atteggiamento non fa che irritare i suoi superiori che decidono di punirlo destinandolo al 182esimo battaglione di fanteria diretto in Francia. Con un’escamotage riesce ad evitare di finire in prima linea allo scoppio della Grande Guerra. Durante la sosta che il treno fa ad Alessandria mette in atto il suo piano di fuga.  Si getta a terra, inizia a digrignare i denti,  si contorce fino a farsi trasferire in infermeria e successivamente all’ospedale militare dove si sottopone a numerose iniezioni pur di non partire per la Francia.  Una volta rimessosi in forza viene trasferito all’ 88esimo reggimento di stanza a Livorno. Qui trascorre l’ultima parte della sua vita militare ed è proprio in questo periodo che subisce continui soprusi e umiliazioni da parte di un graduato. Si racconta che una sera su un tavolaccio, facendo il verso al suddetto,  se ne esce con una delle sue battute più famose ” Siamo uomini o caporali?!” I commilitoni, sentendosi per una volta liberati dalla loro condizione e vendicati,  si abbandonano a uno scroscio di applausi e risa. Proprio quel particolare entusiasmo sprona Antonio  verso la carriera artistica,  in quanto le sue movenze, le sue imitazioni dei potenti, l’esasperazione dei particolari gli procurano un pubblico appassionato. Terminata la carriera militare si avvicina al teatro, ma con molto poco successo. Agli inizi degli anni ’20 il padre lo riconosce e decide di regolarizzare il suo rapporto con la madre, sposandola, ma Antonio non ha ancora i titoli nobiliari che gli spettano. Nel 1922 si trasferisce con la famiglia a Roma e proprio qui riesce a farsi assumere nella compagnia comica teatrale di Giuseppe Capece per poche lire. Quando chiede un aumento, questi si rifiuta di concederglielo. Totò allora lascia la compagnia e si presenta al Teatro Jovinelli dove in breve tempo ottiene il successo. Di lì a poco  reciterà accanto ai più grandi attori di teatro riuscendo a farsi apprezzare come comico perché trascina il pubblico in un vortice di battute divertendo fino al delirio. Debutta poi nel cinema. Reciterà in 97 film, alcuni dei quali saranno vere pellicole di successo quali “Signori si nasce”, “Toto’ truffa”, “Miseria e nobiltà”. Arriverà a recitare persino con grandi registi del calibro di  Monicelli e Pasolini. Nel 1933 si fa adottare dal marchese Francesco Maria Gagliardi ereditando  i suoi titoli gentilizi. Ma sarà solo nel 1946 che il Tribunale di Napoli gli riconosce il diritto  a fregiarsi dei nomi e dei titoli di Antonio Griffo Focas Flavio Dicas Comneno Porfirogenito Gagliardi De Curtis di Bisanzio, altezza imperiale, conte palatino, cavaliere del Sacro Romano Impero, esarca di Ravenna, duca di Macedonia e di Illiria, principe di Costantinopoli, di Cicilia, di Tessaglia, di Ponte Moldavia, di Dardania, del Peloponneso, conte di Cipro e di Epiro, conte e duca di Drivasto e Durazzo.  Ma veniamo all’Antonio De Curtis poeta. Quando parliamo della sua opera poetica è bene dire che Antonio De Curtis distingue la sua vera identità dalla maschera Totò. Le due identità sono ben separate e sarebbe sbagliato pensare alla personalità di Antonio De Curtis  come quella che siamo abituati a vedere nei suoi film. Antonio De Curtis usa la sua maschera per lavorare, per fare quello che più gli piace che è divertire il pubblico. È proprio lui ad affermarlo in un’intervista televisiva rilasciata a Lello Bersani. Quando quest’ultimo gli chiede che differenza ci siano tra lui e Totò, risponde: “C’è una grande differenza. Io sono De Curtis e lui è Totò, che fa il pagliaccio, il buffone, infatti in casa, lui normalmente mangia in cucina, mentre io mangio nella stanza da pranzo. Io vivo alle spalle di Totò, lo sfrutto. Lui lavora ed io mangio.” Le sue poesie sono le espressioni, le idee, i sentimenti dell’uomo Antonio De Curtis che si sente libero di sfuggire agli obblighi della maschera per poter essere finalmente se stesso, per offrire al pubblico l’autentica immagine di sé. Gran parte della sua produzione è in dialetto napoletano ma è bene precisare che le sue poesie sono scritte in modo che risultino comprensibili ai più. Non manca, comunque, di scrivere liriche anche in italiano. I componimenti affrontano varie tematiche quali l’amore, le donne, la vita, la morte, la povertà e le ingiustizie sociali. In esse è ben chiaro il pensiero di un uomo che viene dal basso, dalla povertà più esasperante.. E’ dalla parte dei più deboli, dei poveri. Nelle sue poesie le persone dimenticate dalla società ottengono la dignità che meritano. Nel 1964 viene pubblicata la sua raccolta poetica intitolata “A livella” che comprende 26 poesie che Antonio de Curtis scrive a partire dagli anni ‘50. Un’altra raccolta poetica ” Dedicate all’amore” viene pubblicata nel 1977, in occasione del decennale della sua morte, da parte della sua ultima compagna di vita e suo grande amore, Franca Faldini. In questa raccolta sono riunite per lo più poesie d’amore dedicate appunto alla sua compagna. Altre poesie vengono, in fine,  raccolte insieme a quelle già edite, nel volume Tuttototò nel 1991.  

Felicità!

Vurria sapè ched’è chesta parola,

vurria sapè che vvo’ significà.

Sarà gnuranza ‘a mia, mancanza ‘e scola,

ma chi ll’ha ntiso maje annummenà.

Traduzione

Vorrei sapere cos’è questa parola,

vorrei sapere cosa vuol significare.

Sarà ignoranza la mia, mancanza di scuola,

ma chi l’ha mai sentita nominare.

La donna

Chi l’ha criata è stato nu grand’ommo,
nun ’o vvoglio sapè, chi è stato è stato;
è stato ’o Pateterno? E quanno, e comme?
Ch’avite ditto? ’O fatto d’ ’a custata?
Ma ’a femmena è na cosa troppo bella,
nun ’a puteva fà cu ’a custatella!
Per carità, non dite fesserie!
Mo v’ ’o ddich’io comm’è stata criata:
è stato nu lavoro ’e fantasia,
è stata na magnifica truvata,
e su questo non faccio discussione;
chi l’ha criata è gghiuto int’ ’o pallone!

Traduzione 

Chi l’ha creata è stato un grande uomo,

non voglio saperlo, chi è stato è stato;

è stato il Padreterno? E quando, e come?

Cosa avete detto? Il fatto della costola?

Ma la donna è una cosa troppo bella,

non poteva farla con la costoletta!

Per carità, non dite fesserie!

Adesso ve lo dico io com’è stata creata:

è stato un lavoro di fantasia,

è stata una magnifica trovata,

e su questo non faccio discussione;

chi l’ ha creata è andato nel pallone!

‘A vita

‘A vita è bella, sì, è stato un dono,

un dono che ti ha fatto la natura.

Ma quanno po’ ‘sta vita è ‘na sciagura,

vuie mm’ ‘o chiammate dono chisto cca’?

E nun parlo pe’ me ca, stuorto o muorto,

riesco a mm’abbusca’ ‘na mille lire.

Tengo ‘a salute e, non faccio per dire,

songo uno ‘e chille ca se fire ‘e fa’.

Ma quante n’aggio visto ‘e disgraziate:

cecate, ciunche, scieme, sordomute.

Gente ca nun ha visto e maie avuto

‘nu poco ‘e bbene ‘a chesta umanità.

Guerre, miseria, famma, malatie,

crestiane addeventate pelle e ossa,

e tanta gioventù c’ ‘o culo ‘a fossa.

Chisto nun è ‘nu dono, è ‘nfamità.

Traduzione

La vita

La vita è bella, sì, è stato un dono,

un dono che ti ha fatto la natura.

Ma quando poi questa vita è una sciagura,

voi me lo chiamate dono questo qua?

E non parlo per me che, storto o morto,

riesco a guadagnare una mille lire.

Ho la salute e, non faccio per dire,

sono uno di quelli che ci sa fare.

Ma quanti ne ho visti di disgraziati:

ciechi, paralitici, ritardati, sordomuti.

Gente che non ha visto e mai avuto

un poco di bene da questa umanità.

Guerre, miseria, fame, malattie,

cristiani diventati pelle e ossa,

e tanta gioventù col culo alla fossa.

Questo non è un dono, è infamità.

Poesia: “Anima Potente”di Caterina Alagna. Giornata internazionale contro la violenza sulle donne

A tutte le donne

Donna, colonna d’oro 

che regge la vita

nel grembo e nelle ossa,

nell’anima, sensibile e deliziosa,

che assorbe l’essenza di ogni cosa,

nelle mani che sorreggono montagne

di ansie e paure,

di desideri e premure,

di pensieri pronti a navigare

su mari oscuri 

pur di approdare su terre di luce.

Donna ti affibbiarono

l’immagine della debolezza

perché ignoravano,

o,forse, perché temevano l’idea 

che da un tenero fiore

di vellutata carne

si generasse un altare solenne,

la luce della tua anima potente

al cui confronto

s’appassisce il bagliore delle stelle.

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L’angolo della poesia: “Cuore di periferia” di Caterina Alagna

Salerno, ore 14:19

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Un pianto lieve 

felpato come la neve

serpeggia dietro una nube di poesia,

falsa parvenza di allegria,

solitario s’effonde nella vasta radura

dei sogni negati alla vita.

Nelle vecchie borgate di periferia

un cuore tristemente s’arrende,

è un riccio raggomitolato in se stesso,

un tenero arbusto sbilenco

che non trova più l’animo

di inoltrarsi negli anfratti  del tempo.

Il futuro ha smarrito il suo smalto,

si è consegnato a uno scialbo presente

ricolmo di tacite lacrime e parole spente, 

di mani scabre e tasche vuote,

nell’anima solo l’amore.

Amore intenso, incessante, eterno 

per gli occhi dei figli innocenti

che patiscono la fame 

e la penuria degli inverni.

Occhi che trovano rifugio 

tra le braccia straziate dei loro cari

sottomessi e ammaccati

dal lavoro estenuante e precario,

dal mondo che è sempre più avaro,

da un sogno terribilmente mancato.

Povera vita che annaspi nell’acredine 

dei borghi di periferia,

tra sterili passi e pensieri pesti,

ti nutri di polveri e foglie sparse,

di accumuli di case e giorni riarsi.

La gioventù donò i suoi anni alle miserie,

alla povertà e alle macerie.

E il fuoco resiliente

che un tempo sguainava la sua lingua ardente,  

si incenerisce, inzuppato dalle stille

di quel pianto lieve

mentre felpata scende la neve.

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Viaggio nella poesia francese: La “poesia pura” di Paul Valéry

Salerno, ore 16:

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“I miei versi hanno il significato che gli si presta. Quello che gli ho dato io non serve che per me, e non lo credo opportuno a nessuno. È un errore contrario alla poesia il pretendere che a ogni componimento corrisponda un significato vero, unico e conforme o identico a qualche pensiero del poeta”.

Paul Valéry

Ambroise Paul Toussaint Jules Valery nasce a Sete il 30 ottobre del 1871. Il padre, Barthélemy, è un controllore delle dogane di origini corse, la madre, invece è la genovese Fanny Grassi, figlia del console del Regno di Sardegna a Sete. Dopo aver frequentato il liceo, si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza. Proprio negli ambienti universitari avrà l’occasione di conoscere Mallarmè e altri esponenti importanti del mondo culturale dell’epoca. Si avvicina alla poesia e pubblica alcuni componimenti poetici che risentono di tutti gli influssi intellettuali del Simbolismo. Per lui la poesia è un gioco di intelligenza,  un chiaro segno dell’altezza dello spirito. Purtroppo nel 1892 la sua ispirazione poetica subisce un duro colpo: l’amore del poeta per una ragazza spagnola e una profonda crisi interiore lo porteranno a ripudiare la scrittura che definisce, addirittura, una vanitosa forma di autoaffermazione personale. Lui stesso chiarirà in seguito, in un saggio su Poe, di aver avuto quella che lui chiama ” una crisi dello spirito” dipesa dalle paure e le incertezze dei suoi vent’anni.  Crisi che lo porta ad annotare quotidianamente su un diario tutte le sue riflessioni con lo scopo di un ottenere un rigido controllo sul suo intelletto. In questi diari,  che verranno pubblicati solo dopo la sua morte, riporterà tutte riflessioni filosofiche, estetiche e antropologiche. In realtà Valéry, pur allontanandosi dalla poesia, non l’abbandonerà mai del tutto. Nel 1894 si trasferisce a Parigi e lavora come redattore presso il Ministero della Guerra. Sono anni che vedono proliferare la sua scrittura . In tal senso sono importanti alcune opere che mettono in luce il suo ideale estetico: ” Introduzione al metodo di Leonardo da Vinci” ( 1895) e “Serata con il signor Teste” ( 1896). Per quanto riguarda la figura di Leonardo, c’è da dire che Valèry ne è davvero affascinato. Per lui Leonardo è il vero eroe dell’intelletto in quanto capace di osservare il mondo con uno sguardo eclettico : di poeta, di pittore, di scienziato, di inventore, di naturalista, di fisico. Teste invece non è altri che una trasposizione dello stesso poeta. Figura leonardesca che ha una vita del tutto immaginaria: grazie all’immaginazione egli riscopre le leggi dello spirito. Ecco che la scrittura diviene il mezzo attraverso il quale lo scrittore, ma anche il poeta, può esprimere le idee maturate insieme alle esperienze spirituali. E non a caso ho citato il termine “poeta”, perché nel 1917 la sua carriera poetica riprende il volo con grande successo grazie alla pubblicazione della raccolta ” La giovane parca”, un poemetto ermetico in cui la protagonista rappresenta il conflitto tra coscienza e spiritualità. Dominante è l’intellettualismo che rende ostico il senso dell’opera che si riversa tutto  sulla struttura. Secondo Valèry la poesia nasce da un evento misterioso, per cui la sua poesia prende forma solo dall’ispirazione. Il compito del poeta, quindi, è quello di condurre il lettore alla partecipazione del testo attraverso la musicalità e la perfezione della forma. Ecco che nasce la ” poesia pura”, improntata essenzialmente sulla parola poetica, ammaliante e incantatrice .  Successivamente pubblicherà altre due raccolte di successo : “Il cimitero marino”(1920) e “Charmes” (1922). La sua carriera poetica è un enorme successo. Ottiene cariche prestigiose e al College di France istituiranno una cattedra di poetica apposta per lui. Durante l’occupazione nazista lavora come amministratore al centro universitario di Nizza, ma viene rimosso dall’incarico dal momento che si rifiuta di collaborare con il regime. La sua carriera si eclisserà in quanto costretto al silenzio. Ma l’anima libera di Valéry non verrà mai domata. Continuerà ad avere scambi di riflessione con importanti esponenti intellettuali dell’epoca, tra cui il filosofo Bergson, di origini ebraiche. In questo rapporto di amicizia e collaborazione si comprende il carattere determinato e indipendente di Valéry. Dopo il conflitto mondiale è di nuovo libero di esprimersi in pubblico ma purtroppo si spegnerà alcune settimane dopo la fine della guerra all’età di 73 anni. Verrà sepolto proprio in quel cimitero marino protagonista delle sue poesie.

Paul Valèry affermò per tutta la vita che la poesia è un fatto personale, individuale. Ogni intervento su di essa, come la parafrasi o addirittura la traduzione in un’ altra lingua, è una forzatura che tradisce la valenza originaria dell’opera poetica. Ogni lettore deve essere libero di interpretare la poesia liberamente, ricavandone un proprio messaggio, un proprio significato. 

Un chiaro fuoco

Un chiaro fuoco m’abita e vedo freddamente
la violenta vita, illuminata tutta…
io non posso più amare oramai che dormendo
i suoi graziosi atti mescolati di luce.

I giorni miei, la notte, mi riportano sguardi
dopo i primi momenti di un infelice sonno,
quando sparsa nel buio è la sventura stessa,
tornano a farmi vivere, mi danno ancora occhi.

Se erompe quella gioia, un’eco che mi sveglia
ributta solo un morto, alla mia riva di carne.
E al mio orecchio sospende, il mio riso straniero

come alla vuota conchiglia un sussurro di mare,
il dubbio – sul bordo di un’estrema meraviglia,
se io sono, se fui; se dormo oppure veglio…

I Passi

Nati dal mio silenzio,
posati santamente,
lentamente, i tuoi passi
procedono al mio letto
di veglia muti e gelidi.

Persona pura, ombra
divina, come dolci
i passi che trattieni.
O iddii, quali indovino
i doni che mi attendono
sopra quei piedi nudi!

Se da protese labbra,
per’ acquietarlo, all’ospite
dei miei sogni prepari
d’un bacio il nutrimento,
non affrettarlo il gesto
tenero, dolcezza
di essere e non essere:

io vissi dell’attesa
di te, il mio lento cuore
non era che i tuoi passi.

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L’angolo della poesia: “Sguardo di lince” di Caterina Alagna

Salerno, ore 16:19

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Un mellifluo profumo di tenerezza

trova riparo dietro uno sguardo di lince.

Le cicatrici fanno da scudo a

future ferite, sempre tese,

in agguato come predatori affamati,

pronti a tracannare fino all’ultima

goccia limpidi fiotti di rugiada,

i sentimenti più puri dell’anima.

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L’angolo della poesia: “Solitarie ombre” di Caterina Alagna

Salerno, ore 16:30

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Solitarie ombre 
attraversano le strade,
assorbono in silenzio 
le luci dei negozi,
i colori sbiaditi delle case.


Immuni alle parole 
s'immergono nel canto delle allodole
nel soffice cadere delle foglie,
un tenero fruscio che accenna 
la loro fragile voce.



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Viaggio nella poesia francese: la poesia visiva di Guillame Apollinaire

Salerno, ore 12:13

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Il più grande innovatore della poesia del primo Novecento è, senza dubbio, Guillame Apollinaire. Personaggio eclettico: poeta, scrittore, critico d’arte e commediografo. Rivestirà un ruolo fondamentale nello sviluppo dell’arte moderna, in particolare nel passaggio dal Simbolismo all’ Avanguardia. Nota distintiva di Apollinaire è la sua poesia visiva. 

Guillame Apollinaire, pseudonimo di Wilhelm Albert  Wlodzimierz Apollinaris de Vaz-Kostrowicki, nasce a Roma nel 1880, figlio naturale di un ufficiale borbonico napoletano e di una nobildonna di origine polacca naturalizzata russa. I genitori, però, si separano presto e lui si troverà a lasciare Roma per seguire la madre sulle orme di Parigi. Avrà una gioventù tormentata da amori difficili, ma sarà  proprio a Parigi che avrà la possibilità di immergersi completamente nella realtà letteraria e artistica dell’epoca. In quel periodo, a cavallo tra fine Ottocento e inizio Novecento,  il mondo affronta grandi cambiamenti dal punto di vista scientifico e artistico. Dobbiamo annoverare, infatti, la nascita di quattro movimenti artistici che influenzeranno non poco il pensiero e l’opera di Apollinaire: l’ Espressionismo, il Cubismo, il Futurismo e l’ Astrattismo. L’ estetica cubista  sarà quella che condizionerà in maniera preponderante la sua attività letteraria,  anche grazie all’ importante amicizia che coltiverà con Pablo Picasso. Si avvicinerà alle idee del movimento futurista italiano dopo l’ incontro con il fondatore del Futurismo, Tommaso Marinetti. Ha modo di apprezzare la pittura metafisica di Giorgio De Chirico e quella espressionista di Henri Matisse. A causa del suo  carattere estremamente irrequieto, sarà accusato di essere l’autore del furto del dipinto della Gioconda, avvenuto il 20 agosto del 1911, a seguito del quale sarà arrestato e incarcerato, salvo poi essere rilasciato in quanto persona estranea ai fatti. Successivamente si saprà che l’autore del furto è l’italiano Vincenzo Peruggia, dipendente del Louvre, che dichiarerà di aver compiuto quel gesto per restituire la Gioconda all’ Italia. In piena sintonia con le idee futuriste, note per le loro manifestazioni interventiste, Apollinaire partecipa come volontario al primo conflitto mondiale, definendo la guerra “un grand spectacle“. Incredibilmente quel conflitto gli fornirà grande soddisfazione personale. Le vicende belliche  diventeranno materia fertile per la sua ispirazione poetica. Nel 1916, però, rimane ferito a una tempia e subirà un delicato intervento chirurgico che lo vedrà costretto a ritornare a Parigi. Morirà nel 1918, due giorni prima dell’armistizio, colpito dal virus dell’influenza spagnola, assistito dalla moglie Jacqueline Kolb e dal poeta e amico Giuseppe Ungaretti, giunto presso di lui  per comunicargli la vittoria dell’Intesa. 

Esordisce con opere di narrativa, “Undicimila verghe” del 1907 e   “Bestiario” del 1911; e  con opere  di saggistica, ” La poesia simbolista” del 1909 e “I pittori cubisti” del 1913.  Ma saranno le poesie le opere in cui darà dimostrazione delle sue doti più eloquenti . Del 1913 è una delle  sue raccolte più importanti, “Alcools“, in cui è possibile distinguere l’impronta del Simbolismo mista a una poesia triste e malinconica di romantica memoria. Ma, allo stesso tempo, la forma è ricca di suggestioni che rinnovano l’espressione letteraria dell’epoca. Già in alcune liriche di “Alcools” si sovrappongono e si contrappongono nella maniera più eterogenea immagini e motivi tipici dell’estetica cubista, ricercati in modo da impressionare il lettore. I temi dell’amore e della malinconia, tipici del Romanticismo, si alternano con parodie di poesie e poemi pittoreschi. La forma è caratterizzata dal verso libero, dall’assenza di punteggiatura, da ripetizioni e sinestesie. La raccolta  più rappresentativa della poetica di Apollinairela più rilevante nel determinare l’innovazione estetica letteraria e la più ampiamente contraddistinta dall’ascendenza cubista è, sicuramente, “Calligrammes” del 1918. E’ qui che Apollinaire si dedicherà alla produzione della poesia visiva. Il calligramma è un componimento poetico in cui il poeta dispone le lettere e le parole del testo in modo da formare un disegno, un’immagine che coincida con il tema trattato dalla poesia. Se la poesia ha come soggetto la donna, le lettere saranno disposte in modo da formare l’immagine di una donna.  Per dirlo con le sue parole: “Un insieme di segno, disegno e pensiero, la via più corta per esprimere un concetto e obbligare l’occhio ad accettare una visione globale della parola scritta.

Calligramma “Versi per Lou“, dedicato alla sua amata.  Fa parte della raccolta postuma ” Versi per Lou e altre poesie”

Riconosciti

Questa adorabile persona sei tu 

Sotto il grande cappello da canottiere

Occhio

Naso 

La bocca

Ecco l’ovale del tuo viso

Il tuo collo bellissimo

Ecco infine l’immagine non completa del tuo busto adorato

Visto come attraverso una nuvola

Un pò più in basso è il tuo cuore che batte
   La lirica che preferisco di Apollinaire appartiene alla raccolta “Alcools” e si intitola “Il ponte Mirabeau“. Apollinaire la compone in un periodo di profonda crisi d’amore, dopo la rottura con la sua amata, la pittrice Marie Laurencin. L’amore svanisce e porta via con sé ogni speranza. Nel testo l’amore è simboleggiato dall’immagine del fiume che scorre sotto il ponte. Come il tempo che passa inesorabilmente, così la felicità diventa sempre più irraggiungibile.

Sotto gli archi del ponte Mirabeau 

scorre la Senna e insieme i nostri amori

Fa bisogno che io me lo ricordi?

Sempre veniva gioia dopo il dolore

    Venga la notte suonino le ore

    i giorni vanno io resto

Stiamocene con le mani nelle mani

a faccia a faccia mentre l’onda passa

sotto il ponte che fan le nostre braccia

stanca di quegli sguardi eterni, eguali

    Venga la notte suonino le ore

    i giorni vanno io resto

L’amore se ne va come va questa

acqua corrente, se ne va l’amore

Com’è lenta la vita e invece come

la Speranza si avventa.

     Venga la notte suonino le ore

     i giorni vanno io resto

Passano i giorni e passano le settimane

né il tempo che passò torna o gli amori

Sotto gli archi del ponte Mirabeau

scorre la Senna

       Venga la notte suonino le ore

       i giorni vanno io resto

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L’Odore Dell’Anima, di Caterina Alagna

Con immenso piacere annuncio che da oggi potete trovare negli store online la mia prima raccolta poetica ” L’Odore Dell’Anima” in formato epub. 

40 poesie scritte e curate negli ultimi dieci anni che ho pensato fosse giunto il momento di dare alla luce.Sinossi

Raccolta poetica che si focalizza sulle note introspettive che prendono forma sul palcoscenico dell’anima. All’apparenza ombrose, brillano di luce propria se attraversate da uno sguardo profondo. Tra alti e bassi, si muovono nel bizzarro spettacolo della vita in cui il bene e il male, il piacere e il dolore si uniscono in un intreccio indissolubile su cui si fonda l’essenza dell’animo umano.

L’anima è la protagonista principale della raccolta, che attraverso varie tematiche, emerge dal mare sepolto che ogni essere umano nasconde dentro di sé.

E’ possibile acquistarla su

Youcanprint

Amazon

Ibs

Rakuten Kobo

IBooks Store 

Estratto 

Aculei e margherite

Camminiamo su distese

di aculei e margherite,

punte di picche 

che scalfiscono la pelle,

ma tra le fenditure

s’insinua il profumo dei fiori.

Così imparai

all’apice della perdizione

che la bellezza delle cose

si riflette nello specchio del dolore.

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