In cucina con Dante (Il medioevo)

Dante visse in un periodo in cui la cucina non era ancora uscita dalla situazione di “oscurità” in cui l’avevano relegata, insieme ad altre espressioni delle umane attività, eventi storici, credenze e consuetudini alto-medievali.
La stragrande maggioranza della popolazione seguiva abitudini alimentari condizionate dall’esiguità dei mezzi finanziari e legate alle sole disponibilità del territorio.
Mentre la nobiltà usava esibire grandi quantità di cibo molto speziate senza una vera cultura della buona cucina.
Anche nelle opere di Dante viene evidenziata l’importanza dell’alimentazione nella vita dell’uomo.
“Grosse lamprede, o ver di gran salmoni/ aporti, lucci senza far sentore./La buona anguilla non è già peggiore;/alose o tinche o buoni storioni./Torte battute o tartere o fiadoni:/queste son cose da acquistar mi’ amore,/o s’e’ mi manda ancor grossi cavretti,/o gran cappon di muda be-nodriti/o paperi novelli o coniglietti”.

Vi è un approccio dantesco alla tavola costituisce buona parte del 125° dei 232 sonetti che compongono il pometto Il fiore, opera che la maggior parte della critica considera una riscrittura compendiosa del Roman de la Rose composta da un Dante ventenne durante un soggiorno in Francia.
Tali versi parrebbero delineare il profilo di una persona che non nasconde un certo compiacimento con i piaceri della tavola. Invece il divino poeta aveva idee molto sobrie riguardo al cibo: “Nel cibo e nel poto fu modestissimo, sì in prenderlo all’ore ordinate e sì in non trapassare il segno della necessità” e biasimava chi non si attenesse alle regole della sobrietà affermando “Questi cotali non mangiare per vivere, ma più tosto vivere per mangiare”.
Si narra che, durante un soggiorno napoletano, venne invitato alla corte di re Roberto d’Angiò e, “Come solean li poeti fare”, si presentò abbigliato con una certa trascuratezza; di conseguenza, “Fu messo in coda di taula” e, al termine del pasto, abbandonò la tavola ostentando il suo disappunto. Il re si rese conto che il trattamento riservato al Poeta era stato inadeguato e lo invitò nuovamente.

Questa volta Dante si presentò con abiti sontuosi e il re lo fece accomodare “In capo della prima mensa”; una volta seduto, il Poeta si strofinò le vesti con i cibi e le bevande che erano state servite e, alla sorpresa del re, replicò: “Santa corona, io cognosco che questo grande onore ch’è ora fatto, avete fatto a’ panni, e pertanto io ho voluto che i panni godano le vivande apparecchiate”.

Il re riconobbe le ragioni di Dante, ordinò che fosse rivestito con indumenti puliti e lo trattenne a corte per trarre altri insegnamenti dalla sua scienza.
Nel poema dantesco il cibo assume un’accezione prevalentemente negativa, oggetto di quella gola che i padri della Chiesa condannavano come vizio capitale e che si esprime in cinque modi: mangiando fuori tempo, molto frequentemente, ricercando cibi prelibati, eccedendo nella quantità, con soverchia avidità, esagerando nei condimenti.

*Eh sì Dante non tradisce il suo rigore nemmeno a tavola. Eppure, soprattutto per l’epoca, aveva ragione a condannare l’ingordigia che di certo non è sinonimo di buona cucina o di salute. Forse un po’ esagera punendo i golosi mandandoli addirittura in un girone dell’Inferno sbranati da Cerbero.

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