Nella poesia italiana, anche nella migliore, in questi ultimi anni gli autori e le autrici sono in bilico tra la scrittura del trauma e il trauma della scrittura. Per quanto riguarda la prima è alquanto difficile dire se poeti e poetesse per essere tali hanno dovuto per forza cercare di cicatrizzare una ferita interiore, mai totalmente rimarginata, oppure se hanno deciso giocoforza di trattare i loro traumi, anche perché considerato più apprezzabile a livello socioculturale e letterario. Può darsi che siano vere entrambe le cose. Un tempo certe cose si tacevano, se ne aveva pudore, il trauma si rimuoveva o nel migliore dei casi si sublimava, mentre oggi tutti ne vogliono scrivere, leggere e certi argomenti fanno vendere di più; d’altronde non va nemmeno messa in dubbio la buona fede di chi lo fa, in quanto è una cosa totalmente legittima. Il problema è che non sempre la terapia della parola è efficace, nemmeno sotto supervisione di esperti terapeuti: figuriamoci se ci si sobbarca il compito di rielaborare il trauma o il lutto da soli/e! Talvolta si chiede troppo alle proprie forze o alla parola poetica stessa. Per quanto riguarda il trauma della scrittura intendo la presa di coscienza degli autori o delle autrici della effettiva marginalità della lirica italiana, che di fatto è una nicchia per i più famosi, mentre a tutti gli altri non resta che accontentarsi di una piccola bolla virtuale. I più realisti e dotati di buon senso si accorgono che possono ben poco, che essere poeti ha più oneri che onori; prendono atto della pochezza della loro arte, della sua risibile incisività/popolarità; si rendono conto che il loro sogno adolescenziale o giovanile si è infranto, è caduto. Non tutti riescono a confessare a sé stessi, né ad accettare socialmente la loro sconfitta. Ecco allora che la comunità dei poeti, degli aspiranti, dei sedicenti è popolata da presenze inquietanti, che si vantano del premio inutile vinto dopo anni di partecipazione a concorsi letterari oppure di quella volta che un critico letterario in privato a voce ha detto loro quanto erano belle le loro poesie. Esistono come in ogni ambito le persone tarate, che hanno vanagloria, narcisismo patologico, autocompiacimento e nevrosi così disturbanti da far passare la voglia di scrivere poesie o di occuparsi di poesia. Ma bisogna innalzarsi sopra queste miserie per contemlare la curvatura dell’orizzonte. Un altro limite della poesia italiana è che la comunità poetica è costituita tutta da persone comuniste o del Partito Democratico. Esiste quindi una poesia comunista e una poesia “democratica”, ma non esiste una poesia anarchica oppure liberale. Esistono ad esempio una sparuta minoranza di anarchici, ma non un’anarcopoesia. Esistono pochi poeti liberali, ma non una poesia liberale. Questo accade perché chi è numericamente superiore detta legge e gli altri non hanno la forza o il coraggio di proporre le loro idee; per quieto vivere alcuni tacciono oppure occultano il loro orientamento politico e una parte della loro visione del mondo. Non mancano poi anche coloro che si lamentano di non avere mai tempo per scrivere, dato che hanno molte incombenze lavorative, sociali, familiari. A queste persone ricordo che avere una moglie, dei figli, avere un lavoro sono cose molto più appaganti della scrittura. Il filosofo Emanuele Severino quando qualcuno si lamentava delle cose che gli erano necessarie scriveva che era come se un quadro che si lamentasse del chiodo a cui era appeso oppure come una colomba che si lamentasse dell’aria. Una moglie, un lavoro, una vita sociale consentono di vivere e realizzarsi pienamente a differenza di una vita di sola scrittura…altrimenti alcuni paradossalmente finirebbero per invidiare chi è disoccupato/a perché ha tanto tempo per scrivere! Avere troppo tempo libero non è un privilegio in alcuni casi: questo bisognerebbe sempre ricordarselo, invece di invidiare situazioni e condizioni esistenziali oggettivamente/onestamente poco o per nulla invidiabili. Diciamocelo francamente: per quanto riguarda la poesia scrivere o non scrivere è la stessa cosa, anzi probabilmente è peggio scrivere perché ci si mette a nudo e ci si espone al pubblico ludibrio. Per non parlare del fatto che certi letterati mai prenderebbero in considerazione un disoccupato che scrive oppure lo considererebbero con paternalismo un privilegiato, un perditempo o al massimo un caso sociologicamente interessante (roba da socioanalisi e niente altro). Concludendo, tra dolore esistenziale e scrittura, tra realismo e illusione, tra privilegi, veri o presunti, ed effettive constatazioni di fatto la giusta misura e il punto di non ritorno dipendono dalla personalità e dalla sensibilità di ognuno e purtroppo non sono riconoscibili a priori.