Forough Farrokhzad (Teheran, 5 gennaio 1934 – Teheran, 13 febbraio 1967), poetessa iraniana, sfidando le autorità religiose e i letterati conservatori, Farrokhzad espresse con fermezza la propria posizione sulla situazione femminile nella società iraniana degli anni cinquanta-sessanta, contribuendo in modo decisivo al rinnovamento della letteratura persiana del ‘900.
Ah se in questo silenzio con questa purezza tu diventassi terra tra le mie braccia, in questo silenzio, con questa purezza tra le mie braccia sotto l’ombrello dei miei capelli quando il terreno del mio giovane corpo ti beve come una pioggia delicata o una carezza di luna.
Jean Nicolas Arthur Rimbaud (1854 – 1891) è stato un poeta francese.
cinque della sera Da otto giorni laceravo i miei stivali Sulle pietre dei sentieri. Entrai a Charleroi. – Al Cabaret-vert: chiesi dei crostini di burro E del prosciutto che fosse mezzo freddo. Beato, distesi le gambe sotto il tavolo verde: Contemplai i soggetti piuttosto ingenui Della tappezzeria. – E fu adorabile, Quando la ragazza dalle enormi tette, gli occhi vispi, – Quella, non era certo un bacio a spaventarla! – Sorridente mi portò i crostini imburrati, E il tiepido prosciutto, in un piatto colorato, Prosciutto bianco e rosa profumato da uno spicchio D’aglio, – e mi riempì un boccale immenso, con la schiuma Che un raggio di sole tardivo indorava.
La poesia nacque per allietare i banchetti,infatti, gli aedi, gli antichi cantautori, durante i banchetti regali cantavano le imprese degli eroi mitici, mentre durante i pasti nuziali intonavano la melica e la satira giambica e nel corso dei banchetti funebri l’elegia. Perciò la cornice conviviale dei piaceri della tavola, scanditi quasi come se fossero su uno spartito musicale dai brindisi dei convitati, è strettamente legata con l’arte della parola. Nonostante questo legame viscerale tra cibo e arte poetica, la letteratura l’ha scelto poche volte come centro di interesse, soprattutto per quanto concerne la preparazione delle pietanze. I riferimenti gastronomici erano considerati impoetici. Il grande poeta simbolista italiano, Giovanni Pascoli, nel suo “romanzo georgico”, i Poemetti, fu tra i primi a sublimare nella poesia i riti della preparazione di pietanze, facendoli assurgere ad opere d’arte in quanto eseguiti con amore e maestria.
NAPOLI
Il cibo nelle opere di Pascoli assume a seconda dei casi ruoli e funzioni assai diversi: la sua scelta quindi, come quella di oggetti e di luoghi, non è casuale ma fatta perché apportatrice di precisi significati che possono essere slegati da una descrizione di un prodotto o di una ricetta e più collegati a quella di un atto di preparare o trasformare una materia alimentare. Il banchetto in particolare, all’interno della poetica pascoliana, è una metafora della vita e della morte. Il momento conviviale, generalmente simbolo di unione e coesione tra persone che condividono tra loro qualcosa o che sono parenti, è per il nostro protagonista fonte di inquietudine, esempio della sua relazione col senso del vivere; la vita è intesa infatti sostanzialmente come un banchetto dal quale si può essere scacciati all’improvviso. Interessanti a tal proposito sono anche le metafore che utilizza per delineare il comportamento del giusto invitato e quindi, per associazione, dell’uomo che deve avere nei confronti della vita. La morte, tema dominante nella poetica pascoliana, emerge inevitabilmente anche nelle metafore conviviali o a tema cibo ma anche nelle credenze dei propri territori alle quali il poeta fa costantemente riferimento. C’è una tradizione di matrice popolare presente in Romagna che vuole che i morti della famiglia assieme ad altre entità possano, in determinate occasioni, avere accesso libero alla casa; Quindi, di sera era opportuno di non lasciare la tovaglia sulla tavola e lasciare del cibo per non attirarli. A questa usanza fa riferimento la poesia “La Tovaglia” facente parte della raccolta “I canti di Castelvecchio” del 1903. In questo componimento il poeta prega la sorella di non seguire la tradizione e far si che i morti amati, quelli dei parenti, possano giungere a casa. Le tradizioni contadine inoltre, unite alla descrizione delle ricette non sono solo descrizioni atte a documentare gli usi di una porzione di territorio italiano ma, attraverso esse, vengono costruiti significati simbolici, metaforici e rituali, che assumono grande valore per il poeta.
LA TOVAGLIA
Le dicevano: ― Bambina! che tu non lasci mai stesa, dalla sera alla mattina, ma porta dove l’hai presa, la tovaglia bianca, appena ch’è terminata la cena! Bada, che vengono i morti! i tristi, i pallidi morti!
Entrano, ansimano muti. Ognuno è tanto mai stanco! E si fermano seduti la notte attorno a quel bianco. Stanno lì sino al domani, col capo tra le due mani, senza che nulla si senta, sotto la lampada spenta.
È già grande la bambina; la casa regge, e lavora: fa il bucato e la cucina, fa tutto al modo d’allora.
Pensa a tutto, ma non pensa a sparecchiare la mensa. Lascia che vengano i morti, i buoni, i poveri morti.
Oh! la notte nera nera, di vento, d’acqua, di neve, lascia ch’entrino da sera, col loro anelito lieve; che alla mensa torno torno riposino fino a giorno, cercando fatti lontani col capo tra le due mani.
Dalla sera alla mattina, cercando cose lontane, stanno fissi, a fronte china, su qualche bricia di pane, e volendo ricordare, bevono lagrime amare. Oh! non ricordano i morti, i cari, i cari suoi morti!
― Pane, sì… pane si chiama, che noi spezzammo concordi: ricordate?… È tela, a dama: ce n’era tanta: ricordi?… Queste?… Queste sono due, come le vostre e le tue, due nostre lagrime amare cadute nel ricordare! ―
*Ancora una poesia profonda e struggente, del grande Pascoli. Come sempre il tema centrale il desco familiare, il nido, il cibo come atto di unione e la morte fine e separazione. È talmente grande la nostalgia dei cari persi così tragicamente che trova spunto da un’antica tradizione che vuole che nel giorno dei morti, hanno il permesso di sedersi alla tavola dei vivi e lì sostare un attimo per mangiare qualcosa se chi è rimasto lì ricorda e li attende. E lui immagina la figura della sorella che contro ogni raccomandazione e paura mette la tovaglia e lascia del pane innaffiato di lacrime, le stesse che i cari estinti verseranno su quel cibo fatto di ricordi di passati pranzi, di passate gioie.
Guido Gustavo Gozzano (Torino, 19 dicembre 1883 – Torino, 9 agosto 1916) è stato un poeta e scrittore italiano. Nato da una famiglia benestante di Agliè, inizialmente si dedicò alla poesia nell’emulazione di Gabriele D’Annunzio e del suo mito del dandy. Successivamente, la scoperta delle liriche di Giovanni Pascoli lo avvicinò alla cerchia di poeti intimisti che, poi, sarebbero stati denominati “crepuscolari”. Guido Gozzano nasce il 19 dicembre 1883 ad Agliè, in provincia di Torino, in una famiglia dell’alta borghesia piemontese. Gli studi del poeta sono piuttosto travagliati: bambino svogliato, ha bisogno di un’insegnante privata per terminare le elementari; al liceo viene prima bocciato, poi trasferito in un collegio e infine torna a Torino, dove consegue la maturità nel 1903, la sua prima poesia nota, è dedicata alla madre: Primavere romantiche. Iscritto a Legge, Gozzano iniziò a frequentare i corsi di letteratura di Arturo Graf e la Società della Cultura, un circolo fondato nel 1898 da alcuni tra i più importanti intellettuali piemontesi, il poeta non apprezza particolarmente il circolo, che si rivela però fondamentale per la sua formazione e la sua carriera. Nel 1906, nella Società di Cultura, conosce Amalia Guglielminetti, con la quale inizia l’anno dopo una tormentata relazione: è un anno avaro di componimenti, dedito com’è al progetto di raccogliere in volume i suoi lavori, Il risultato è il volume La via del rifugio, raccolta di 30 poesie, tra le quali spiccano La via del rifugio, che dà il titolo alla raccolta. Il libro è accolto favorevolmente dalla critica, con l’eccezione di Italo Mario Angeloni. Il 29 agosto Rina Maria Pierazzi, sulla rivista « Il Caffaro », rimproverando il « critico poco sagace » di averlo giudicato « un empio », considera invece la poesia di Gozzano « una pura vena di acqua sorgiva ». Il successo ricevuto è presto turbato dalla diagnosi di una lesione polmonare (che si rivelerà dovuta alla tubercolosi). Nella speranza di guarirla, Gozzano inizierà a spostarsi alla ricerca di climi caldi e marini, in particolare in Liguria. Nel 1911 esce il suo libro più importante: I colloqui (a questa raccolta appartiene la famosa poesia La signorina Felicita ovvero La felicità). Nel 1912, sempre più gravemente ammalato, Gozzano decise di imbarcarsi per l’India alla ricerca di un clima migliore. Da questo viaggio scrive: Verso la cuna del mondo. Lettera dall’India. Muore nel 1916. La triste e precoce consapevolezza della propria morte trapela molto presto nelle poesie di Gozzano, ma è sempre filtrata con distacco ironico. Con questa certezza dolorosa, unita al senso della malattia e alle delusioni amorose è costretto a scontrarsi un altro elemento tipico della produzione del poeta: il suo romantico desiderio di amore e felicità, raggiungibili nelle “cose piccole”, quotidiane e serene.
NAPOLI
È l’ora del crepuscolo per Guido Gozzano. Ha ventisette anni quando scrive questa poesia, ma sa che la morte sta per raggiungerlo. La sua vita finirà cinque anni più tardi, stroncato dalla tisi che lo affliggeva da tempo. Di fronte a questa situazione, per Gozzano c’è solo un modo per sopportare il dolore: quel sopore che lui chiama Salvezza, la giovinezza non c’è più, “non ha ritorno il riso mattutino” e allora non ha importanza vivere cinque età – ovvero infanzia, adolescenza, gioventù, età adulta e vecchiaia – se si è perduta la fase più bella della vita. Non rimane che dormire per risvegliarsi al mattino, il momento migliore non solo della giornata, ma anche della vita, in un giorno qui inteso come metafora dell’esistenza intera.
Salvezza
Vivere cinque ore? Vivere cinque età?… Benedetto il sopore che m’addormenterà….
Ho goduto il risveglio dell’anima leggiera: meglio dormire, meglio prima della mia sera.
Poi che non ha ritorno il riso mattutino. La bellezza del giorno è tutta nel mattino.
*Versi molto diversi dalla giocosità delle “Golose”, la sofferenza e la malattia sono compagne che distruggono il corpo e l’anima di chiunque. Alla fine il poeta “dal sorriso buono” ha un’amara chiusa sarebbe stato meglio addormentarsi subito che vivere le fasi della vita senza poterne godere appieno la gioia.