Terra di Forough Farrokhzad

Poetessa iraniana

almerighi

Forough Farrokhzad (Teheran, 5 gennaio 1934 – Teheran, 13 febbraio 1967), poetessa iraniana, sfidando le autorità religiose e i letterati conservatori, Farrokhzad espresse con fermezza la propria posizione sulla situazione femminile nella società iraniana degli anni cinquanta-sessanta, contribuendo in modo decisivo al rinnovamento della letteratura persiana del ‘900.

Ah se in questo silenzio
con questa purezza
tu diventassi terra tra le mie braccia,
in questo silenzio, con questa purezza
tra le mie braccia
sotto l’ombrello dei miei capelli
quando il terreno del mio giovane corpo
ti beve
come una pioggia delicata
o una carezza di luna.

*

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CUORE DI SILENZIO, di Silvia De Angelis

Ascolto lontano

d’un moto ambiguo

nell’attimo volatile

additato dal vento.

Accalorato l’abbraccio

dentro una sincronia

d’occhi lucenti.

Un accucciarsi rivelato

dal desiderio di bellezza

ove la bocca chiama amore

in un frugar sparpagliato di sensi.

Con la benda accecante

si fa rapace il vuoto

nello sconsolato inganno

d’una sola volta

nel cuore di silenzio….

@Silvia De Angelis

Poeti: Pianura, di Antonia Pozzi, analisi, di Elvio Bombonato

PIANURA

Certe sere vorrei salire
sui campanili della pianura,
veder le grandi nuvole rosa
lente sull’orizzonte
come montagne intessute
di raggi.

Vorrei capire dal cenno dei pioppi
dove passa il fiume
e quale aria trascina;
saper dire dove nascerà il sole
domani
e quale via percorrerà, segnata
sul riso già imbiondito,
sui grani.

Vorrei toccare con le mie dita
l’orlo delle campane, quando cade il giorno
e si leva la brezza:
sentir passare nel bronzo il battito
di grandi voli lontani.

ANTONIA POZZI

Le tre strofe della poesia si fondano sull’ottativo ‘vorrei’; 19 versi piani; ho contato 2 novenari; 2 decasillabi; 5 settenari; 3 ternari; 5 endecasillabi; 1 doppio settenario; 1 ottonario. Antonia descrive un paese di montagna, immerso nella natura, vorrebbe salire sui campanili, per vedere le nuvole rosa all’orizzonte, i pioppi lungo le sponde del fiume, il sorgere del sole che illumina il grano imbiondito. Vorrebbe toccare l’orlo delle campane, e quando verrà il vento, sentire i loro rintocchi come se fossero voli lontani.

Al Cabaret-Vert di Arthur Rimbaud

Poeta maledetto

almerighi

Jean Nicolas Arthur Rimbaud (1854 – 1891) è stato un poeta francese.

cinque della sera
Da otto giorni laceravo i miei stivali
Sulle pietre dei sentieri. Entrai a Charleroi.
– Al Cabaret-vert: chiesi dei crostini di burro
E del prosciutto che fosse mezzo freddo.
Beato, distesi le gambe sotto il tavolo verde:
Contemplai i soggetti piuttosto ingenui
Della tappezzeria. – E fu adorabile,
Quando la ragazza dalle enormi tette, gli occhi vispi,
– Quella, non era certo un bacio a spaventarla! –
Sorridente mi portò i crostini imburrati,
E il tiepido prosciutto, in un piatto colorato,
Prosciutto bianco e rosa profumato da uno spicchio
D’aglio, – e mi riempì un boccale immenso, con la schiuma
Che un raggio di sole tardivo indorava.

*

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Il cibo e i poeti, il banchetto per Pascoli

La poesia nacque per allietare i banchetti,infatti, gli aedi, gli antichi cantautori, durante i banchetti regali cantavano le imprese degli eroi mitici, mentre durante i pasti nuziali intonavano la melica e la satira giambica e nel corso dei banchetti funebri l’elegia. Perciò la cornice conviviale dei piaceri della tavola, scanditi quasi come se fossero su uno spartito musicale dai brindisi dei convitati, è strettamente legata con l’arte della parola. Nonostante questo legame viscerale tra cibo e arte poetica, la letteratura l’ha scelto poche volte come centro di interesse, soprattutto per quanto concerne la preparazione delle pietanze. I riferimenti gastronomici erano considerati impoetici. Il grande poeta simbolista italiano, Giovanni Pascoli, nel suo “romanzo georgico”, i Poemetti, fu tra i primi a sublimare nella poesia i riti della preparazione di pietanze, facendoli assurgere ad opere d’arte in quanto eseguiti con amore e maestria.

NAPOLI

Il cibo nelle opere di Pascoli assume a seconda dei casi ruoli e funzioni assai diversi: la sua scelta quindi, come quella di oggetti e di luoghi, non è casuale ma fatta perché apportatrice di precisi significati che possono essere slegati da una descrizione di un prodotto o di una ricetta e più collegati a quella di un atto di preparare o trasformare una materia alimentare. Il banchetto in particolare, all’interno della poetica pascoliana, è una metafora della vita e della morte. Il momento conviviale, generalmente simbolo di unione e coesione tra persone che condividono tra loro qualcosa o che sono parenti, è per il nostro protagonista fonte di inquietudine, esempio della sua relazione col senso del vivere; la vita è intesa infatti sostanzialmente come un banchetto dal quale si può essere scacciati all’improvviso. Interessanti a tal proposito sono anche le metafore che utilizza per delineare il comportamento del giusto invitato e quindi, per associazione, dell’uomo che deve avere nei confronti della vita. La morte, tema dominante nella poetica pascoliana, emerge inevitabilmente anche nelle metafore conviviali o a tema cibo ma anche nelle credenze dei propri territori alle quali il poeta fa costantemente riferimento. C’è una tradizione di matrice popolare presente in Romagna che vuole che i morti della famiglia assieme ad altre entità possano, in determinate occasioni, avere accesso libero alla casa; Quindi, di sera era opportuno di non lasciare la tovaglia sulla tavola e lasciare del cibo per non attirarli. A questa usanza fa riferimento la poesia “La Tovaglia” facente parte della raccolta “I canti di Castelvecchio” del 1903. In questo componimento il poeta prega la sorella di non seguire la tradizione e far si che i morti amati, quelli dei parenti, possano giungere a casa. Le tradizioni contadine inoltre, unite alla descrizione delle ricette non sono solo descrizioni atte a documentare gli usi di una porzione di territorio italiano ma, attraverso esse, vengono costruiti significati simbolici, metaforici e rituali, che assumono grande valore per il poeta.

LA TOVAGLIA

Le dicevano: ― Bambina!
che tu non lasci mai stesa,
dalla sera alla mattina,
ma porta dove l’hai presa,
la tovaglia bianca, appena
ch’è terminata la cena!
Bada, che vengono i morti!
i tristi, i pallidi morti!

Entrano, ansimano muti.
Ognuno è tanto mai stanco!
E si fermano seduti
la notte attorno a quel bianco.
Stanno lì sino al domani,
col capo tra le due mani,
senza che nulla si senta,
sotto la lampada spenta.

È già grande la bambina;
la casa regge, e lavora:
fa il bucato e la cucina,
fa tutto al modo d’allora.

Pensa a tutto, ma non pensa
a sparecchiare la mensa.
Lascia che vengano i morti,
i buoni, i poveri morti.

Oh! la notte nera nera,
di vento, d’acqua, di neve,
lascia ch’entrino da sera,
col loro anelito lieve;
che alla mensa torno torno
riposino fino a giorno,
cercando fatti lontani
col capo tra le due mani.

Dalla sera alla mattina,
cercando cose lontane,
stanno fissi, a fronte china,
su qualche bricia di pane,
e volendo ricordare,
bevono lagrime amare.
Oh! non ricordano i morti,
i cari, i cari suoi morti!

― Pane, sì… pane si chiama,
che noi spezzammo concordi:
ricordate?… È tela, a dama:
ce n’era tanta: ricordi?…
Queste?… Queste sono due,
come le vostre e le tue,
due nostre lagrime amare
cadute nel ricordare! ―

*Ancora una poesia profonda e struggente, del grande Pascoli. Come sempre il tema centrale il desco familiare, il nido, il cibo come atto di unione e la morte fine e separazione. È talmente grande la nostalgia dei cari persi così tragicamente che trova spunto da un’antica tradizione che vuole che nel giorno dei morti, hanno il permesso di sedersi alla tavola dei vivi e lì sostare un attimo per mangiare qualcosa se chi è rimasto lì ricorda e li attende. E lui immagina la figura della sorella che contro ogni raccomandazione e paura mette la tovaglia e lascia del pane innaffiato di lacrime, le stesse che i cari estinti verseranno su quel cibo fatto di ricordi di passati pranzi, di passate gioie.

“Chanson d’automne ” i lunghi singhiozzi dei violini d’autunno…

“Chanson d’automne ” (“Canzone d’autunno”) è una poesia di Paul Verlaine (1844–1896), uno dei più conosciuti in lingua francese . È incluso nella prima raccolta di Verlaine, Poèmes saturniens , pubblicata nel 1866 (vedi 1866 in poesia ). La poesia fa parte della sezione “Paysages tristes” (“Paesaggi tristi”) della raccolta. Nella seconda guerra mondiale i versi del poema furono usati per inviare messaggi dallo Special Operations Executive (SOE) alla Resistenza francese sui tempi dell’imminente invasione della Normandia . Il poema molto musicale dà l’effetto monotono di un violino. All’età di 22 anni, Verlaine usa il simbolismo dell’autunno nella poesia per descrivere una triste visione dell’invecchiamento. In preparazione per l’operazione Overlord , Radio Londres della BBC aveva segnalato alla Resistenza francese con i versi di apertura del poema di Verlaine del 1866 “Chanson d’Automne” che dovevano indicare l’inizio delle operazioni del D-Day sotto il comando delle Operazioni speciali Esecutivo.

NAPOLI

Canzone d’autunno

I lunghi singhiozzi
Dei violini
Dell’autunno
Feriscono il mio cuore
Di un languore
Monotono.

Tutto soffocante
E livido, quando
Suona l’ora,
Mi ricordo
Dei giorni vecchi
E piango

Ed io me ne vado
Per il vento malvagio
Che mi porta
Di qua, di là,
Simile alla
Foglia morta.

Chanson d’automne
Les sanglots longs
Des violons
De l’automne
Blessent mon coeur
D’une langueur
Monotone.

Tout suffocant
Et blême, quand
Sonne l’heure,
Je me souviens
Des jours anciens
Et je pleure

Et je m’en vais
Au vent mauvais
Qui m’emporte
Deçà, delà,
Pareil à la
Feuille morte.

Paul Verlaine

  • Ed io me ne vado di qua e di là,simile ad una foglia morta. Versi e metafore struggenti. Una poesia particolare,con una storia singolare, di tempi tristi dove l’autunno è sinonimo di morte, di perdita. Temi ricorrenti per i poeti decadenti, con la loro visione noir della vita.

VIVERE 5 ORE? VIVERE 5 ETÀ? Guido Gozzano, la Salvezza sta nel sopore.

Guido Gustavo Gozzano (Torino, 19 dicembre 1883 – Torino, 9 agosto 1916) è stato un poeta e scrittore italiano. Nato da una famiglia benestante di Agliè, inizialmente si dedicò alla poesia nell’emulazione di Gabriele D’Annunzio e del suo mito del dandy. Successivamente, la scoperta delle liriche di Giovanni Pascoli lo avvicinò alla cerchia di poeti intimisti che, poi, sarebbero stati denominati “crepuscolari”. Guido Gozzano nasce il 19 dicembre 1883 ad Agliè, in provincia di Torino, in una famiglia dell’alta borghesia piemontese. Gli studi del poeta sono piuttosto travagliati: bambino svogliato, ha bisogno di un’insegnante privata per terminare le elementari; al liceo viene prima bocciato, poi trasferito in un collegio e infine torna a Torino, dove consegue la maturità nel 1903, la sua prima poesia nota, è dedicata alla madre: Primavere romantiche. Iscritto a Legge, Gozzano iniziò a frequentare i corsi di letteratura di Arturo Graf e la Società della Cultura, un circolo fondato nel 1898 da alcuni tra i più importanti intellettuali piemontesi, il poeta non apprezza particolarmente il circolo, che si rivela però fondamentale per la sua formazione e la sua carriera. Nel 1906, nella Società di Cultura, conosce Amalia Guglielminetti, con la quale inizia l’anno dopo una tormentata relazione: è un anno avaro di componimenti, dedito com’è al progetto di raccogliere in volume i suoi lavori, Il risultato è il volume La via del rifugio, raccolta di 30 poesie, tra le quali spiccano La via del rifugio, che dà il titolo alla raccolta. Il libro è accolto favorevolmente dalla critica, con l’eccezione di Italo Mario Angeloni. Il 29 agosto Rina Maria Pierazzi, sulla rivista « Il Caffaro », rimproverando il « critico poco sagace » di averlo giudicato « un empio », considera invece la poesia di Gozzano « una pura vena di acqua sorgiva ». Il successo ricevuto è presto turbato dalla diagnosi di una lesione polmonare (che si rivelerà dovuta alla tubercolosi). Nella speranza di guarirla, Gozzano inizierà a spostarsi alla ricerca di climi caldi e marini, in particolare in Liguria. Nel 1911 esce il suo libro più importante: I colloqui (a questa raccolta appartiene la famosa poesia La signorina Felicita ovvero La felicità). Nel 1912, sempre più gravemente ammalato, Gozzano decise di imbarcarsi per l’India alla ricerca di un clima migliore. Da questo viaggio scrive: Verso la cuna del mondo. Lettera dall’India.
Muore nel 1916. La triste e precoce consapevolezza della propria morte trapela molto presto nelle poesie di Gozzano, ma è sempre filtrata con distacco ironico. Con questa certezza dolorosa, unita al senso della malattia e alle delusioni amorose è costretto a scontrarsi un altro elemento tipico della produzione del poeta: il suo romantico desiderio di amore e felicità, raggiungibili nelle “cose piccole”, quotidiane e serene.

NAPOLI

È l’ora del crepuscolo per Guido Gozzano. Ha ventisette anni quando scrive questa poesia, ma sa che la morte sta per raggiungerlo. La sua vita finirà cinque anni più tardi, stroncato dalla tisi che lo affliggeva da tempo. Di fronte a questa situazione, per Gozzano c’è solo un modo per sopportare il dolore: quel sopore che lui chiama Salvezza, la giovinezza non c’è più, “non ha ritorno il riso mattutino” e allora non ha importanza vivere cinque età – ovvero infanzia, adolescenza, gioventù, età adulta e vecchiaia – se si è perduta la fase più bella della vita. Non rimane che dormire per risvegliarsi al mattino, il momento migliore non solo della giornata, ma anche della vita, in un giorno qui inteso come metafora dell’esistenza intera.

Salvezza

Vivere cinque ore?
Vivere cinque età?…
Benedetto il sopore
che m’addormenterà….

Ho goduto il risveglio
dell’anima leggiera:
meglio dormire, meglio
prima della mia sera.

Poi che non ha ritorno
il riso mattutino.
La bellezza del giorno
è tutta nel mattino.

*Versi molto diversi dalla giocosità delle “Golose”, la sofferenza e la malattia sono compagne che distruggono il corpo e l’anima di chiunque. Alla fine il poeta “dal sorriso buono” ha un’amara chiusa sarebbe stato meglio addormentarsi subito che vivere le fasi della vita senza poterne godere appieno la gioia.

I poeti e il cibo, a tavola con Ungaretti

Il poeta dice di amare il vino ed il cibo semplice. Il suo pasto preferito prevedeva gli spaghetti burro e formaggio e una bistecca alla fiorentina accompagnata dalla salsina “Allegria”.
Ungaretti, nato nel pittoresco brulicare di Alessandria d’Egitto, profumata d’aglio e di particolarissimi aromi vegetali, passato poi alle raffinatezze della cucina francese, alla popolaresca sapidità di quelle regionali italiane, ed ai piccanti sapori di quella brasiliana, sa evocare colori e gusti, con una magica evidenza, sa liricizzare il ricordo di ogni vivanda, anche la più semplice. Ungaretti è di gusti semplici: predilige gli spaghetti al burro e formaggio, lo stoccafisso alla livornese e la bistecca alla fiorentina. Poco vino, ma buono. Non ha preferenze. Il vino è come la poesia, riassume paesaggi morali ed è anche il frutto delle sostanze che compongono il terreno di cui si nutrono i vitigni, qualcosa del cielo e della terra, del lavoro umano e del sole. Mosto che si fa vino, la poesia della natura in una alchimia ineffabile.
Nel 1963, Marin San Sile incontrò il grande poeta regalando ai lettori un magnifico articolo.
contenente anche le ricette preferite dell’Ermetico Sommo Poeta.

Spaghetti alla Ungaretti
Dose per 4 persone

Spaghetti piuttosto fini – 400 gr
Parmigiano grattugiato – 40 gr
Burro – 80 gr
Un pizzico di cumino
Un pizzico di noce moscata
Un cucchiaio di pan grattato finissimo
Sale

Lessare gli spaghetti in acqua bollente e salata. Far dorare il burro. Mescolare il pan grattato con il cumino, la noce moscata e il formaggio. Scolare gli spaghetti, versarli in una terrina ed unire il formaggio con altri ingredienti. Rimescolare, aggiungere il burro e mescolare ancora. Servire subito gli spaghetti ben caldi.

Salsina Allegria
Per bistecca alla fiorentina

Olio di Lucca – 10 ml
Gherigli di noce tritatissimi – 20 gr
Rapatura di un limone
Succo di mezzo limone
Mollica di pane raffermo
Aceto
Foglioline di erbe aromatiche (raccolte personalmente durante una passeggiata) cioè:
Mentuccia
Nepitella
Bacche di Ginepro o Barbe di finocchietto selvatico
Un pizzico di pepe

Ammorbidire la mollica di pane nell’aceto cotto, ed aggiungervi le foglioline delle erbe aromatiche battute finemente. Mescolare a questo composto tutti gli altri ingredienti e conservare al fresco in una terrina di coccio.

*Anche l’ermetico Ungaretti amava stare ai fornelli…che dire provate le sue ricette e buon appetito