Il poeta ” Il cui nome fu scritto sull’acqua”

“All’Autunno” (To Autumn) è una delle poesie più celebri del poeta romantico John Keats, composta il 19 settembre del 1819 all’alba dei primi mutamenti della natura. Sono stati proprio quest’ultimi ad aver ispirato il poeta tanto da confidare pochi giorni dopo, in una lettera indirizzato al suo amico J. H. Reynolds, “Com’è bella la stagione adesso. Com’è bella l’aria, una temperata nitidezza…”. Il poema è un crescendo di percezioni e riflessioni sulla transizione dell’autunno dalla sua maturazione ai suoi ultimi giorni quando l’inverno è alle porte. L’autunno è un passaggio, un flusso continuo di mutazioni, un momento transitorio che con generosità ci regala colori, panorami e suoni unici. Il nuovo arriva solo attraverso la trasformazione ed è proprio questo che ci ricorda John Keats.

NAPOLI

“All’Autunno” di John Keats

Stagione di nebbie e morbida abbondanza,
Tu, intima amica del sole al suo culmine,
Che con lui cospiri per far grevi e benedette d’uva
Le viti appese alle gronde di paglia dei tetti,
Tu che fai piegare sotto le mele gli alberi muscosi del casolare,
E colmi di maturità fino al torsolo ogni frutto;
Tu che gonfi la zucca e arrotondi con un dolce seme
I gusci di nòcciola e ancora fai sbocciare
Fiori tardivi per le api, illudendole
Che i giorni del caldo non finiranno mai
Perché l’estate ha colmato le loro celle viscose:

Chi non ti ha mai vista, immersa nella tua ricchezza?
Può trovarti, a volte, chi ti cerca,
Seduta senza pensieri sull’aia
Coi capelli sollevati dal vaglio del vento,
O sprofondata nel sonno in un solco solo in parte mietuto,
Intontita dalle esalazioni dei papaveri, mentre il tuo falcetto
Risparmia il fascio vicino coi suoi fiori intrecciati.
A volte, come una spigolatrice, tieni ferma
La testa sotto un pesante fardello attraversando un torrente,
O, vicina a un torchio da sidro, con uno sguardo paziente,
Sorvegli per ore lo stillicidio delle ultime gocce.
E i canti di primavera? Dove sono?
Non pensarci, tu, che una tua musica ce l’hai –
Nubi striate fioriscono il giorno che dolcemente muore,
E toccano con rosea tinta le pianure di stoppia:
Allora i moscerini in coro lamentoso, in alto sollevati
Dal vento lieve, o giù lasciati cadere,
Piangono tra i salici del fiume,
E agnelli già adulti belano forte dal baluardo dei colli,
Le cavallette cantano, e con dolci acuti
Il pettirosso zufola dal chiuso del suo giardino:
Si raccolgono le rondini, trillando nei cieli.

*Immagini e sensazioni e suoni e profumi. Eccolo  Keats che con la singolare sensibilità del suo animo profondamente romantico, dipinge con i versi l’autunno. Non è meno generoso e ricco della primavera, ha i suoi colori, la sua abbondanza e la sua musica.

Il poeta ” Il cui nome fu scritto sull’acqua”

“All’Autunno” (To Autumn) è una delle poesie più celebri del poeta romantico John Keats, composta il 19 settembre del 1819 all’alba dei primi mutamenti della natura. Sono stati proprio quest’ultimi ad aver ispirato il poeta tanto da confidare pochi giorni dopo, in una lettera indirizzato al suo amico J. H. Reynolds, “Com’è bella la stagione adesso. Com’è bella l’aria, una temperata nitidezza…”. Il poema è un crescendo di percezioni e riflessioni sulla transizione dell’autunno dalla sua maturazione ai suoi ultimi giorni quando l’inverno è alle porte. L’autunno è un passaggio, un flusso continuo di mutazioni, un momento transitorio che con generosità ci regala colori, panorami e suoni unici. Il nuovo arriva solo attraverso la trasformazione ed è proprio questo che ci ricorda John Keats.

“All’Autunno” di John Keats

Stagione di nebbie e morbida abbondanza,
Tu, intima amica del sole al suo culmine,
Che con lui cospiri per far grevi e benedette d’uva
Le viti appese alle gronde di paglia dei tetti,
Tu che fai piegare sotto le mele gli alberi muscosi del casolare,
E colmi di maturità fino al torsolo ogni frutto;
Tu che gonfi la zucca e arrotondi con un dolce seme
I gusci di nòcciola e ancora fai sbocciare
Fiori tardivi per le api, illudendole
Che i giorni del caldo non finiranno mai
Perché l’estate ha colmato le loro celle viscose:

Chi non ti ha mai vista, immersa nella tua ricchezza?
Può trovarti, a volte, chi ti cerca,
Seduta senza pensieri sull’aia
Coi capelli sollevati dal vaglio del vento,
O sprofondata nel sonno in un solco solo in parte mietuto,
Intontita dalle esalazioni dei papaveri, mentre il tuo falcetto
Risparmia il fascio vicino coi suoi fiori intrecciati.
A volte, come una spigolatrice, tieni ferma
La testa sotto un pesante fardello attraversando un torrente,
O, vicina a un torchio da sidro, con uno sguardo paziente,
Sorvegli per ore lo stillicidio delle ultime gocce.
E i canti di primavera? Dove sono?
Non pensarci, tu, che una tua musica ce l’hai –
Nubi striate fioriscono il giorno che dolcemente muore,
E toccano con rosea tinta le pianure di stoppia:
Allora i moscerini in coro lamentoso, in alto sollevati
Dal vento lieve, o giù lasciati cadere,
Piangono tra i salici del fiume,
E agnelli già adulti belano forte dal baluardo dei colli,
Le cavallette cantano, e con dolci acuti
Il pettirosso zufola dal chiuso del suo giardino:
Si raccolgono le rondini, trillando nei cieli.

*Immagini e sensazioni e suoni e profumi. Eccolo  Keats che con la singolare sensibilità del suo animo profondamente romantico, dipinge con i versi l’autunno. Non è meno generoso e ricco della primavera, ha i suoi colori, la sua abbondanza e la sua musica.

John Keats, l’angelo del romanticismo inglese

John Keats (Londra, 31 ottobre 1795 – Roma, 23 febbraio 1821) è stato un poeta britannico, unanimemente considerato uno dei più significativi letterati del Romanticismo.Si dice che avesse ereditato dalla madre il bel viso, e dal padre la bassa statura, gli occhi castani e l’onestà.
Trascorse i primi anni di vita prevalentemente nella tenuta amministrata dal padre, fino a quando i genitori (che, essendo d’estrazione piuttosto modesta, non avevano le finanze per educarlo nei prestigiosi college, nell’estate del 1803 lo mandarono alla scuola privata del reverendo John Clarke. Qui respirò infatti un’atmosfera satura di letteratura, stimolata dal figlio del reverendo, Charles Cowden Clarke, un giovane di buona cultura e dal contagioso entusiasmo per la poesia che rimase legato a Keats da un saldo vincolo d’amicizia, anche una volta finito il corso. Dopo la morte del padre i fratelli Keats furono mandati a vivere dai nonni materni, John e Alice Jennings ma, dopo la morte del nonno, Alice nominò tutore dei bambini Richard Abbey, che amministrerà in modo disonestoil loro patrimonio, affossando le finanze dei fratelli. Il primo a pagarne le conseguenze fu ovviamente John, costretto a vivere in ristrettezze economiche fino alla fine dei suoi giorni. Nel 1811 John Keats inizia i suoi studi come apprendista medico e farmacista, ma è proprio nel periodo degli studi al Guy’s Hospital che John, comincia a scrivere i suoi primi versi. Il 5 Maggio 1816 sull'”Examiner” compare la sua prima poesia pubblicata, il sonetto “O Solitude” così decise di abbandonare il Guy’s Hospital per dedicarsi completamente alla poesia, passione che lo divorerà sino alla sua prematura morte.  Nel frattempo, furono molti gli amici che Keats si attirò col fascino irresistibile della sua personalità, e con il suo brillante senso dell’amicizia: oltre al pittore Joseph Severn, cominciò anche l’intimità con Percy Bysshe Shelley, Charles Lamb, Horace Smith e William Hazlitt.In poco tempo Keats apprese pure come, per dare un impulso decisivo alla propria vocazione poetica, dovesse godere della stretta compagnia con tali uomini, affiancandola allo studio serio e metodico di William Shakespeare e William Wordsworth, sviluppando al contempo la parte più autentica e vitale di se stesso. Scrive l'”Iperone” e tutte le grandi odi che lo faranno entrare nella storia, fra le quali “To Psyche”, “On Melancholy”, “To a Nightingale” e “To Autumn”. Vive un lungo e fecondo periodo creativo, coronato dal fidanzamento, questa volta ufficiale, con Fanny Brawne. Nel febbraio 1820 si manifesta il primo serio attacco del male che, ventiseienne, l’avrebbe portato alla morte: la tubercolosi.Tra i due nacque una intensa passione, resa ancora più vivida e disperata dalle condizioni difficili in cui dovette svolgersi. Nonostante tutti i problemi che si abbatterono su Keats, fino all’ultimo, entrambi sperarono di potersi sposare. Sembra tuttavia che il loro rapporto non sia stato mai consumato e che lo struggimento per l’impossibilità di vivere pienamente il suo amore per Fanny sia stato tra le cause principali che deteriorarono la salute di Keats.  Gli attacchi sono gravi e prolungati, tanto che in estate il medico gli ordina di trasferirsi in Italia, sicuro che un clima più mite l’avrebbe aiutato. Morì di tubercolosi il 23 febbraio 1821, nel suo alloggio in piazza di Spagna, a soli venticinque anni; venne sepolto tre giorni dopo nel cimitero acattolico di Roma, presso la piramide di Caio Cestio. La sua poesia fu profondamente influenzata dagli eventi tragici che caratterizzarono la sua vita, quali la morte dei genitori e di suo fratello Tom, egli stesso era malato. Il poeta sentiva la morte incombere su di lui e trovò consolazione nella poesia e nell’arte, infatti, affermò di non poter “esistere senza la poesia” che considerava come “qualcosa di assoluto”, l’unico modo per sconfiggere la morte e vivere eternamente. Secondo Keats, la poesia nasce dal profondo dell’anima, supera la fugacità della vita e diventa immortale.

NAPOLI

Senza di te, testo poetico che esprime una devastante sensazione di dissoluzione, un senso di tristezza e di vuoto provocati dall’allontamento della donna amata, capace di stregare il poeta, di rapire la sua anima con una malia contro la quale la ragione nulla può.

“Senza di te”

Non posso esistere senza di te.
Mi dimentico di tutto tranne che di rivederti:
la mia vita sembra che si arresti lì,
non vedo più avanti.
Mi hai assorbito.
In questo momento ho la sensazione
come di dissolvermi:
sarei estremamente triste
senza la speranza di rivederti presto.
Avrei paura a staccarmi da te.
Mi hai rapito via l’anima con un potere
cui non posso resistere;
eppure potei resistere finché non ti vidi;
e anche dopo averti veduta
mi sforzai spesso di ragionare
contro le ragioni del mio amore.
Ora non ne sono più capace.
Sarebbe una pena troppo grande.
Il mio amore è egoista.
Non posso respirare senza di te.

*Giuseppe Tomasi di Lampedusa lo paragonò ad un angelo, venuto per breve tempo a cantare la bellezza sulla terra. E come dargli torto leggendo l’intensità romantica di questi versi. È una toccante dichiarazione d’amore che davvero toglie il fiato perché non posso respirare senza di te…

Il giorno degli Arcangeli

Michele, (in latino «Quis ut Deus?», “Chi è come Dio?”, che traduce Mîkhā’ēl; in greco antico: Μιχαήλ, letto Mikhaḗl; in latino Michaël; in arabo ميخائيل|, letto Mīkhā’īl) è un arcangelo nell’Ebraismo, nel Cristianesimo (tranne in quello avventista), e nell’Islam. Per la Chiesa cattolica, la solennità liturgica dei tre santi arcangeli ricorre il 29 settembre: in ordine, san Michele Arcangelo, san Gabriele Arcangelo, san Raffaele Arcangelo. Nell’ultimo libro del Nuovo Testamento, l’Apocalisse di Giovanni, dopo la prima guerra in paradiso (menzionata in Ap 12:9, simmetrico a Genesi 3:20-24), l’arcangelo è protagonista nella seconda guerra terrena della donna (Maria, madre di Gesù Cristo) contro il drago.

NAPOLI

San Michele Arcangelo guida di nuovo alla vittoria la milizia celeste degli angeli di Dio contro Lucifero, che fu serafino e perciò fratello degli Arcangeli, e i suoi angeli (un terzo del totale), ribelli e apostati. Secondo la profezia, alla fine dei giorni, san Michele Arcangelo è destinato a squillare la tromba annunziatrice del gran giudizio finale, quando, dopo aver ricapitolato ogni cosa in Cristo, il Regno dei Cieli verrà riconsegnato da Gesù Cristo a Dio Padre per l’eternità. L’Islam accetta come rivelazione la totalità di Antico e Nuovo Testamento. Il nome di Mīkāʾīl (ميخائيل), o Mīkīl (ﻣﻴﻜﻴﻞ), è citato nel testo sacro principale, il Corano, quale angelo di pari rango con Jibrīl (Gabriele), inviati da Allah a istruire il profeta Maometto, dettandogli il Corano.
Il culto dell’arcangelo Michele, il cui nome deriva dall’espressione ebraica Mi-ka-El che significa chi è come Dio e impropriamente ma tradizionalmente equiparato ad un santo, ha origine antichissima. La sua figura radiosa di eroe che combatte il Male discende, secondo alcuni studiosi, dai culti pagani che si svolgevano nell’equinozio autunnale: il babilonese Marduk, poi trasposto in Mitra, dio Sole, analogo al greco Hermes, Mercurio per i latini. Agli albori del Cristianesimo, dall’oriente bizantino il culto dell’Arcangelo si diffuse e si sviluppò nelle regioni mediterranee in particolare in Italia.  L’imperatore Costantino, a partire dal 313 d.C., tributa particolare devozione all’arcangelo con la costruzione a Costantinopoli di un’imponente basilica. Nel tempo il culto di San Michele non si è mai fermato, ha attraversato tutto il mondo occidentale con la cosiddetta Linea sacra dell’Angelo, o anche Strada dell’Angelo, una linea retta perfetta e inspiegabile, un tracciato fisico e ideale dei luoghi noti per le sue apparizioni, dove poi sono sorti imponenti santuari. La linea comincia in Irlanda, su un’isola deserta, dove l’Arcangelo Michele sarebbe apparso a San Patrizio, passa poi in Inghilterra, a St. Michael’s Mount, un isolotto della Cornovaglia dove San Michele avrebbe parlato a un gruppo di pescatori. Prosegue poi in Francia a Mont Saint Michel, in Italia in Piemonte, Val di Susa, in Puglia, con la Sacra di San Michele nel Gargano, in Grecia, sull’isola di Symi, per finire in Israele al Monastero del Monte Carmelo.
Leggenda vuole che la linea sia stata tracciata dalla spada di San Michele nel corso della sua battaglia contro Satana. L’arcangelo Michele in Italia è protettore della Polizia di Stato e il suo culto è diffuso in innumerevoli città e paesi.

ARCANGELO

Arcangelo dal fiero sguardo,
possa la tua anima potente
vegliare sul mondo in bilico.
Sguaina la tua spada di luce
e combatti gli odiati nemici.
Oh, angelo bello come il sole!
Luminoso come la nuova alba
che attendiamo da tempo.
Apri le tue magnifiche ali e coprici!

Imma Paradiso

Opera

L’amore, fatto con amore và al di là del mero atto fisico può diventare un idillio che tocca la trascendenza perfetta di un’opera d’arte.

La tua bocca crea note sublimi
mentre percorre sentieri
che non ti stanchi di esplorare.
Vibro a quel tocco
e la musica assurge a vette
di sublime armonia,
si spezza l’urlo soffocato
potente assolo,
mentre va componendosi
l’Opera di perfetta seduzione
che la tua maestrìa
non si stanca di comporre.

Imma Paradiso

Il Decadentismo in Italia, Giovanni Pascoli

Il Decadentismo è un movimento letterario molto importante della seconda metà dell’Ottocento. Décadent è un termine francese, usato in Francia in quei tempi per definire, in senso dispregiativo, gli artisti che vivevano in modo scandaloso, fra droghe ed altri eccessi. Successivamente, precisamente nel 1886, viene fondata una rivista proprio da questi letterati scandalosi che, in modo provocatorio, scelgono di intitolarla «Le Décadent». Da qui il termine Decadentismo si userà per indicare la decadenza della società che non ha più veri valori e che li sta deludendo così tanto. Insomma, una partita agguerrita fra Società Borghese contro Artisti Ribelli. Dalla Francia, tanto il termine come il movimento si diffondono in tutta Europa. In Italia, poi, questo movimento viene a coincidere con il periodo Risorgimentale e dell’Unità italiana. Dal Decadentismo si diramano altri sottogruppi tra cui il Simbolismo a cui aderisce Giovanni Pascoli. In Francia i primi poeti simbolisti sono quelli che vengono chiamati “Poeti Maledetti”, cioè artisti che fanno uso di droghe, che sono omosessuali, la cui poesia è scandalosa e difficile. I versi di questi artisti cercano di spiegare i tormenti dell’anima e dei sensi attraverso l’analogia e cercando appunto un confronto fra le emozioni interne e la natura che è fuori. Giovanni Pascoli si inserisce in questo movimento in modo più pacato: non conduce una vita sfrenata, tutt’altro! Il suo Simbolismo cerca nella natura un simbolo dell’infanzia perduta: la figura principale della sua poesia è il nido e la sua poetica è definita “del fanciullino”. Pascoli intende con questo il modo in cui il poeta dovrebbe guardare il mondo, come un bambino appunto che per la prima volta si sorprende davanti alle bellezze del mondo naturale. Quelli che si avvicinano di più ai Maledetti sono gli Scapigliati, e questi possono essere considerati in effetti una sorta di “maledetti” italiani. Il movimento della Scapigliatura ha il suo centro soprattutto a Milano o comunque in Lombardia. La loro poesia parla di tutto ciò che di crudo e violento c’è nell’esistenza, e in effetti vivono anche loro al limite della società, fra droga ed eccessi, il Crepuscolarismo invece, prendendo dai Poeti Maledetti soprattutto le tematiche di Paul Verlaine, optano per degli argomenti più pacati. Questi poeti cercano un posto nel mondo in cui rifugiarsi e i posti in cui trovare una pace dell’anima sono soprattutto luoghi familiari e domestici.

NAPOLI

Giovanni Pascoli pensava che la realtà mascherasse sempre un’essenza segreta che non poteva essere svelata con sistemi scientifici. Per questo aveva un rapporto con la vita e il mondo turbolento e ansioso, caratterizzato dalla continua ricerca del mistero. Il “nido” domestico costituisce uno dei simboli più importanti dell’opera del nostro poeta. Tutto ciò che era esterno al nido adorato era da lui considerato pericolo: decise quindi di vivere con le sorelle, alle quali era legato da un morboso rapporto di amore/gelosia. Il nido si presenta anche nella forma della culla, il nido è il grembo materno, ciò che sta prima della vita e prima della morte, in quella condizione limbica in cui il mondo è completamente abolito e di conseguenza la paura non esiste. Il nido è insomma figura dell’”incapacità di vivere”. Pascoli attraverso questa immagine esprime la sua paura del mondo, della vita e degli uomini. Il concetto fondamentale della poesia pascoliana consiste nel concetto secondo cui in ogni uomo vive un “fanciullino musico” che solo il poeta riesce ad ascoltare una volta raggiunta l’età adulta, quando negli altri uomini prevale la voce della ragione.Il poeta è un fanciullino, un sensitivo, un veggente capace di entrare in rapporto con il mistero profondo delle cose.

Lavandare è un madrigale, scritto nel 1891, tratto dalla raccolta poetica Myricae. La lirica descrive le sensazioni del poeta che, mentre i campi sono avvolti dalla nebbia, sente in lontananza i suoni provenienti dal lavatoio e i lunghi canti delle lavandaie. Nella prima strofa viene descritto un campo immerso nella nebbia su cui spicca un aratro abbandonato. Nella terza strofa viene riportata la canzone cantata dalle lavandaie che parla di una giovane donna abbandonata dall’innamorato e che è rimasta sola come l’aratro in mezzo al campo. La lirica è quindi circolare: si apre e si chiude con l’immagine- simbolo dell’aratro abbandonato che rappresenta la solitudine. Questa scena descritta nella poesia serve proprio a trasmettere la sensazione di abbandono e malinconia che rinvia proprio al poeta stesso: egli si sente abbandonato dai suoi cari perché è rimasto orfano del padre e la sua vita è stata funestata da una serie di lutti. Il paesaggio diventa quindi un simbolo per raccontare il proprio stato d’animo.

Lavandare

Nel campo mezzo grigio e mezzo nero
resta un aratro senza buoi, che pare
dimenticato, tra il vapor leggero.

E cadenzato dalla gora viene
lo sciabordare delle lavandare
con tonfi spessi e lunghe cantilene.

Il vento soffia e nevica la frasca,
e tu non torni ancora al tuo paese!
Quando partisti, come son rimasta!
Come l’aratro in mezzo alla maggese.

*Quando partisti, come son rimasta! Come l’aratro in mezzo alla maggese. Meravigliosa, struggente metafora! Quanti di noi ci ritroviamo nella visione della vita amara e decadente di Pascoli. Tutti ci portiamo sulle spalle il nostro fardello di amarezze e solitudini e in un certo modo ci aggrappiamo alle certezze dei nostri nidi per trovare un barlume di coraggio e sicurezza.

Dono d’amore

Amare, solo amare, amare ed essere amati. Solo questo conta davvero in questa vita.

Ho chiesto al sole
” Cosa è necessario in questa vita?”
L’ho chiesto alle nuvole
sfuggenti e ballerine.
Gli uccelli, già dal primo mattino,
allietano con i gioiosi canti
tutto l’azzurro intorno
e i fiori aprono le corolle
alla luce che irrompe.
Ecco la vita
ecco l’inizio
ho interrogato il cielo
e tutto mi ha risposto
in una sinfonia d’amore.
Amare, solo amare,
amare ed essere amati.
Basta aprire gli occhi
e ti accorgerai che
è tutto un dono
fatto per amore.

Imma Paradiso

NAPOLI

Verlaine, il poeta Maledetto.

Paul-Marie Verlaine ( Metz, 30 marzo 1844 – Parigi, 8 gennaio 1896) è stato un poeta francese. Figura del poeta maledetto, Verlaine viene riconosciuto come il maestro dei giovani poeti del suo tempo.  È stato un esponente del Simbolismo francese e del Decadentismo europeo. Poeti come Arthur Rimbaud, Stéphane Mallarmé e, appunto, Verlaine, indagavano l’ignoto scrutando nell’intima essenza delle cose, riuscendo a scoprire realtà nascoste agli uomini comuni. Erano dunque rappresentanti privilegiati dell’umanità che allo stesso tempo, però, non venivano compresi finendo per incarnare la figura dei poeti maledetti. È Rimbaud a parlare del poeta come un vero e proprio veggente capace di vedere oltre la realtà, al fine di comprendere l’abisso dell’ignoto, l’artista doveva infatti perseguire in prima persona lo sregolamento dei sensi, passando attraverso ogni forma d’amore, di eccesso, di sofferenza, di follia. Compì gli studi al liceo Bonaparte di Parigi; impiegatosi al Comune di Parigi, cominciò a frequentare gli ambienti letterari e pubblicò i Poèmes saturniens, dov’è sensibile l’influsso parnassiano, le Fêtes galantes (1869), più libere e fantasiose, e La bonne chanson (1870), raccolta di rime d’amore, rivolte alla fidanzata, Mathilde Manté, che sposò nel 1870, e da cui ebbe un figlio. Ebbe una relazione con A. Rimbaud, col quale fuggì da Parigi e dalla Francia, in completa rottura con la moglie; ma presto cominciarono i dissapori tra i due poeti, e Verlaine., ubriaco, sparò due colpi di rivoltella contro l’amico, riportandone (1873) una condanna, scontata in Belgio, a due anni di prigione durante i quali convertì alla religione. Nonostante una seconda avventura (con un giovane, L. Létinois), proseguì nella sua lirica, venata di pentimenti religiosi, turbata da morbosità decadentistiche, in uno stile che esprime le più segrete e remote vibrazioni dell’anima: Parallèlement (1889), Bonheur (1891), Liturgies intimes (1892). Dopo un periodo di vagabondaggi e di miserie, si stabilì definitivamente a Parigi, godendo solo negli ultimi due anni di un generale riconoscimento come principe dei poeti. Dei suoi scritti in prosa, Les poètes maudits (1884) ebbero una grande eco nella critica militante;

Noi saremo  è una delle poesie più celebri del poeta francese Paul Verlaine, contenuta nella raccolta La Bonne Chanson (1870). Verlaine,  è oggi riconosciuto come uno dei maggiori poeti della letteratura francese. Lo stile crepuscolare delle sue poesie ha fatto sì che la sua opera venisse spesso accostata a quella dei pittori impressionisti. Fu Verlaine stesso a coniare l’espressione di Poètes maudits (poeti maledetti, Ndr) per descrivere se stesso e la sua cerchia di amici artisti che, come lui, respingevano le regole della società e conducevano uno stile di vita provocatorio. Nous serons è una profonda dichiarazione d’amore che il poeta scrisse per la moglie Mathilde Mauté, sua fresca sposa. L’autore in questi versi descrive un amore duraturo capace di resistere alle intemperie della vita e sembra voler consolare la propria sposa, giurandole eterna fedeltà.
Verlaine pare legittimare l’esistenza del suo amore, opponendo la forza di un sentimento puro a un mondo che sempre più spesso respinge, giudica e invidia senza alcuna nobiltà d’animo. La lirica è densa di immagini metaforiche che evocano sensazioni rasserenanti e consolatorie: l’amore avvolge gli amanti come un bosco dalle ampie fronde, i loro cuori cinguettano all’unisono e la loro reciproca fedeltà ricopre i loro corpi come una dura corazza.
Alla crudezza del mondo esterno i due amanti oppongono il sorriso; nulla sembra poter scalfire la sintonia quasi paradisiaca tra due anime. Erroneamente tuttavia spesso i lettori associano questa poesia ad Arthur Rimbaud, grande e folle amore di Verlaine.

Noi saremo, a dispetto di stolti e di cattivi
che certo guarderanno male la nostra gioia,
talvolta, fieri e sempre indulgenti, è vero?

Andremo allegri e lenti sulla strada modesta
che la speranza addita, senza badare affatto
che qualcuno ci ignori o ci veda, è vero?

Nell’amore isolati come in un bosco nero,
i nostri cuori insieme, con quieta tenerezza,
saranno due usignoli che cantan nella sera.

Quanto al mondo, che sia con noi dolce o irascibile,
non ha molta importanza. Se vuole, esso può bene
accarezzarci o prenderci di mira a suo bersaglio.

Uniti dal più forte, dal più caro legame,
e inoltre ricoperti di una dura corazza,
sorrideremo a tutti senza paura alcuna.

Noi ci preoccuperemo di quello che il destino
per noi ha stabilito, cammineremo insieme
la mano nella mano, con l’anima infantile
di quelli che si amano in modo puro, vero?

  • Vero? Anafora che si ripete quasi a autoconvincersi dei suoi stessi pensieri. Versi d’amore gioiosi e idealizzati, in quanto il poeta aveva un’idea molto libera dell’amore. Infatti  scappò poi con Rimbaud, vivendo varie passioni in una continua, costante ricerca di emozioni nello stile eccessivo e sregolato dei poeti maledetti ma scrivendo versi meravigliosi.

La cena

Cosa c’è di meglio per festeggiare l’equinozio d’autunno di una bella cena romantica in giardino? 🍁🍂🍄💓🍁🍂💓🍄

Ho preparato un tavolo,
nell’angolo più bello
del mio giardino.
Al centro, un candelabro
rischiarerà le prime
ombre della sera e i
colori dell’autunno
faranno da cornice
alla nostra cena.
E guardandoci
negli occhi e
bevendo vino,
ruberemo un bacio.
E mentre lasci la
forchetta per
accarezzarmi la mano
tremanti già
pensiamo alla
notte che ci aspetta.

Imma Paradiso


Sergey Sviridov – gardens

Benvenuto autunno

Il 23 settembre, alle tre di notte, l’estate cederà il posto all’autunno, stagione che ci terrà compagnia per i mesi di ottobre, novembre e dicembre, quando meno fino al solstizio d’inverno atteso per il 21 dicembre. Se tradizionalmente l’equinozio d’autunno – il momento del passaggio dalla stagione estiva a quella autunnale – cade il 21 settembre, quest’anno la fatidica data si sposta più in là: sarà il 23 settembre alle 3.03 ora italiana, per una serie di concause astronomiche e anche perché l’anno solare non coincide perfettamente con quello del calendario. Mentre la Terra percorre la sua orbita intorno al Sole, a causa dell’inclinazione dell’asse terrestre il nostro Pianeta si rivolge al Sole in modi diversi nel corso dell’anno, determinando il passaggio da una stagione all’altra. Il termine equinozio, in particolare, viene dal latino e significa “notte uguale”: questo perché, durante gli equinozi, la durata del giorno e della notte è la stessa (12 ore ciascuno) in tutto il mondo, visto che i raggi solari incidono perpendicolarmente all’asse terrestre. È quel momento della rivoluzione terrestre intorno al Sole in cui quest’ultimo si trova allo zenit dell’equatore. Accade due volte l’anno, a sei mesi di distanza, a marzo e settembre del calendario civile. Di solito si fa coincidere l’inizio dell’autunno con il 21 settembre, ma l’equinozio d’autunno, per una serie di concause astronomiche, è previsto per il 23 settembre. Si tratta innanzitutto di una questione di giorni: anche se il nostro anno è composto da 365 giorni, la Terra ci mette 365,256 giorni a compiere un’orbita intorno al sole (365 giorni e 6 ore circa). Questo ritardo viene compensato dall’anno bisestile, che cade ogni quattro anni e che, aggiungendo un giorno al calendario, fa recuperare le 24 ore perse in precedenza. Ma l’equinozio d’autunno c’è tutti gli anni e, su di lui, questo ritardo “pesa”, provocando una variazione dei giorni (nel 2021, ad esempio, è caduto il 22 settembre). Nel corso del mese di settembre le ore di luce diminuiranno quindi progressivamente, fino a dicembre, in concomitanza con il solstizio d’inverno, il giorno più corto dell’anno, previsto nel 2022 per il 21 dicembre. L’Equinozio è dunque davvero un momento particolare della natura che consente la vita sul nostro Pianeta.
Le foglie degli alberi cominciano a ingiallire, la natura si prepara ad andare a riposo, le giornate si accorciano e i progetti personali fervono. Nella tradizione druidica l’Equinozio d’Autunno viene chiamato Alban Elfed (Autunno, o «Elued», Luce dell’Acqua).
Esso rappresenta la seconda festività del raccolto, segnando per parte sua la fine della mietitura, così come Lughnasad ne aveva segnato l’inizio.Nella memoria di queste antiche popolazioni l’Equinozio autunnale veniva festeggiato col nome di Mabon: il giovane dio della vegetazione e dei raccolti. E’ il tempo di raccogliere dagli ultimi frutti ben maturi i semi che serviranno l’anno successivo a darci da mangiare.
E’ il tempo di essiccarli all’aria e all’ombra, di conservarli al buio e all’asciutto in sacchetti di carta con scritto il nome, aspettando la primavera per piantarli.
Per queste valenze simboliche in molte culture del passato l’equinozio assumeva valenze esoteriche e venivano celebrati al suo arrivo riti “misterici” di cui ben poco si sa proprio per il loro carattere di segretezza. La coscienza – conoscenza che se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; ma se muore produce molto frutto (Giovanni, 12, 24) estende il concetto di fertilità al ciclo eterno di Vita – Morte – Vita e alla consapevolezza che solo dalla morte può nascere una nuova esistenza, solo dalla decomposizione può risorgere il nuovo, il cambiamento. Per la tradizione cristiana il simbolo dell’equinozio è invece San Michele Arcangelo che separa l’estate dall’autunno, il bene dal male, purificando la natura ed eliminando le scorie negative accumulatesi nel tempo.

NAPOLI

Mattino d’autunno, Federico García Lorca

Che dolcezza infantile
nella mattinata tranquilla!
C’è il sole tra le foglie gialle
e i ragni tendono fra i rami
le loro strade di seta.

*Un’immagine molto serena come le giornate di questa stagione così particolare. Tempi di transizione, di trasformazione dove tutto rallenta per prepararsi al lungo inverno. Tempi in cui è più facile fermarsi in una riflessiva contemplazione della propria interiorità, magari raccogliendo quello che abbiamo seminato lungo il cammino.

Poesia e cibo, quando i versi cantati durante i convivi elevavano lo spirito.

La più antica tradizione ellenica raffigura il poeta come un essere soprannaturale, in stretto rapporto con la divinità che lo ispira. Tra le genti antiche la poesia fu ricchezza d’immaginazione e canto, e ritmo, e attraeva, e affascinava, e commuoveva, poiché eccitava nello stesso momento la fantasia ed il sentimento. Ed i poeti apparivano circonfusi di un’aureola di sacralità. Per gli antichi la poesia era dono divino ed il vate era profeta-poeta. Egli parlava perché riceveva l’ispirazione, come se una potenza sovrumana lo insufflasse, secondo l’opinione, anzi la convinzione, diffusa di quei tempi. Pertanto, questo termine di uso corrente, “ispirazione” , richiama alla memoria quelle epoche remote in cui si credeva che il poeta ottenesse la sua facoltà poetica da una divinità che gliela infondeva. La poesia antica nasceva dal medesimo stupito fantasticare di un pensiero primitivo e ingenuo, che si lasciava avvincere dalla meraviglia davanti ad una natura incomprensibile e a tutti quei fenomeni, apparentemente inspiegabili, che potevano atterrire o riempire di estatica ammirazione. Così anche per Democrito la poesia è essenzialmente ispirazione. Dice infatti: “tutto ciò che il poeta scrive con entusiasmo e divina ispirazione è certamente molto bello”. Parlando di Omero dice che “ egli poté comporre poemi così magnifici e vari, perché aveva sortito una natura ispirata”.
In latino poesia si dice “Carmen” proprio perché veniva cantata accompagnandosi con degli strumenti nelle funzioni religiose o durante i banchetti.
Questi dieci versi dell’Odissea ci presentano un banchetto. In questo momento è Ulisse che si rivolge ad Alcinoo, re dei Feaci, e gli dice che questo è per lui il momento più bello, il momento in cui gli sembra di raggiungere la felicità: cioè ora che si è riuniti in un convito mentre il popolo è in pace e con il vino e con il canto di un aedo ci si ricrea lo spirito che, non più legato alla preoccupazione del sostentamento del corpo, può dedicarsi ad altro. Il vino e la musica dell’aedo hanno qui un significato quasi simbolico, di elevazione spirituale, appunto, dell’uomo. La poesia cantata dall’aedo assume una connotazione quasi soprannaturale attraverso le parole di Ulisse: “simile nella voce agl’immortali”

NAPOLI

A lui rispose il paziente Ulisse:
“Possente Alcinoo, fra i mortali insigne,
cosa bella è ascoltare un gran cantore,
simile, nella voce, agl’immortali;
non v’è, per me, più amabile diletto
d’allor che tutto il popolo s’allieta
e i convitati, nella sala assisi
un presso all’altro, ascoltano l’aedo
e le mense si stendono dinanzi
ben ricolme di pani e di vivande
e il coppiere dall’urne attinge il vino
e lo viene mescendo entro le coppe:
non v’è, per me, più amabile diletto”.

*Ecco che nell’antica Grecia tutto assume un altro significato rispetto ai tempi medioevali. La poesia accompagnava il cibo mettendo pace e gioia negli animi. La ricchezza del banchetto e la melodia dei versi erano un mezzo per elevare lo spirito, non certo un peccato da condannare.

Autunno

Sembra un autunno lontano, un tempo perso nelle favole, con il bosco ammantato di rosso e di oro, i primi venti freddi che fanno stormire le fronde e le serate davanti al fuoco di un camino arrostendo le castagne. Buon autunno 🍂🍂🍄

NAPOLI

Le nuvole giocano
a rimpiattino con il sole,
che si fa trovare
e le abbraccia con calore.
Il vento s’insinua tra le foglie
e si sussurrano
segreti noti solo a loro.
L’aria odora di pioggia
e di favole lontane,
la pioggerella sottile
evoca caldarroste
e fiamme di camino.
Il rosso di un tramonto,
si riflette nell’arancio
di un sogno che la
natura non si stanca
di raccontare.

Imma Paradiso

La poesia di denuncia, “Per la mia gente che mi fa desiderare di capire ciò che io non capisco”.

Susan Nalugwa Kiguli (nata il 24 giugno 1969 nel distretto di Luweero , Uganda ) è una poetessa e studiosa letteraria ugandese.  È professore associato di letteratura presso la Makerere University .  Ha conseguito un dottorato di ricerca in inglese presso l’Università di Leeds (Regno Unito) sponsorizzato dal Commonwealth Scholarship Scheme. Kiguli è stato un sostenitore della scrittura creativa in Africa, incluso il servizio come membro fondatore di FEMRITE , un giudice per il Commonwealth Writers’ Prize (Regione africana, 1999) e un membro del comitato consultivo per l’ African Writers Trust . È l’African Studies Association Presidential Fellow, 2011 e questo le ha offerto l’opportunità di leggere le sue poesie presso la Library of Congress, Washington DC nel novembre 2011. I suoi interessi di ricerca ricadono principalmente nell’area della poesia africana orale e scritta, della canzone popolare e della teoria della performance.  Come poetessa, Kiguli è meglio conosciuta per la sua raccolta del 1998 The African Saga ,  la colloca tra i poeti più emozionanti dell’Africa orientale e meridionale. Il volume ha vinto il National Book Trust of Uganda Poetry Award (1999) e ha fatto la storia della letteratura in Uganda andando esaurito in meno di un anno. La sua poesia è apparsa ampiamente in riviste e antologie sia a livello nazionale che internazionale.

NAPOLI

La poesia è un correre verso e un correre dentro allo stesso tempo. Un’immersione nelle cose, nei fatti. Dopodiché diventa una corsa per afferrare le parole, quelle giuste, quelle più sincere, per raccontare prima che le sensazioni si sfilaccino e lascino il posto alla successiva esperienza. Giovani poetesse africane,  donne che usano la parola per esprimere situazioni di disagio, per denunciare condizioni di violenze (fisiche e psicologiche), per aprire varchi nel cambiamento che la nuova generazione di giovani africane sta portando avanti. Le violenze domestiche sono un altro argomento tabù che sta ora emergendo come l’acqua sporca da una fogna troppo colma. E infine ci sono le parole di gioia e di ringraziamento a quegli africani che non si arrendono a nulla, “che rendono la tristezza parte della felicità” e che usano la risata (quella che nasce dal profondo del cuore) per riempire di speranza gli altri e il loro ambiente. Sono le parole di una delle più grandi poetesse ugandesi contemporanee, Susan Kigali. La poesia è “Amo la mia casa” dove il termine “casa” è esteso alla terra d’Africa e a chi la abita. Uomini e donne.

Per coloro che trovano le risate
così di compagnia
ridono come se andassero in pezzi
o si sciogliessero
con le lacrime che gli scorrono sulle guance
e al giorno d’oggi tutto ciò
su un cellulare.

Per le risate che si librano
rimbombando in ogni angolo
Per le risate disseminate
sui cespugli in fiore
Per le risate che sfuggono da ogni anfratto
e si innalzano per salutare il sole
Per le risate da cellulare a cellulare.

Per coloro che hanno preso lezioni di danza
già nell’utero
che toccano il pavimento
facendosi da esso venerare
che si girano di qua e creano la magia
si girano di là
e inviano miliardi di angeli
a implorarli di non smettere mai
Per coloro che fischiettano una canzone
e ti incastrano a canticchiarla con loro
tuo malgrado.

Per coloro che vivono il lutto
invocando mille nomi
ricordando nome su nome
ripercorrendo la storia di ogni vita
che è a loro cara
ogni volto dell’amore.
Per coloro che sentono il loro dolore
dall’interno verso l’esterno
che strisciano e raschiano la terra
come se potesse rispondere alle loro domande
Per coloro che ogni giorno alzano gli occhi al cielo
e supplicano Dio
continuando ad amare
a sperare
a vivere come se la vita fosse per sempre.
Per coloro che non lasciano mai andare se stessi
né le persone che colorano la loro vita
Per coloro che rendono la tristezza parte della felicità
un elemento di pace
per vedere il prima, l’adesso e il per sempre.

Per la mia gente che mi fa
Desiderare di capire ciò che io non capisco.


Amo la mia casa [I Love Home, di Susan Kiguli]

*Un canto d’amore verso la propria terra e la propria gente, che malgrado la miseria, la fame, le guerre e le ingiustizie che da secoli sopportano, sanno ridere, ballare e sperare. La poesia può essere forma di lotta e riscatto morale contro tutti i sorprusi ed ora anche le giovani poetesse africane la stanno finalmente scoprendo.

La poesia di denuncia, un grido per la pace, per non dimenticare…

Nell’ambito artistico, la poesia è la disciplina più delicata e più chirurgica di tutte, con la sua capacità di utilizzare in maniera esatta le parole, curvandole con quello che i latini chiamavano «labor limae», vale a dire dedicandosi a quella limatura e a quell’attenzione necessarie per una comunicazione esatta, conchiusa. In ogni epoca, con ogni lingua. È così quando l’uomo si è trovato a fare i conti con un conflitto, la poesia ha dato sempre il suo contributo per la comprensione di quella realtà, tra denuncia e tentativi di trovare una via d’uscita. Il poeta Giuseppe Ungaretti, una fra le principali voci dell’Ermetismo italiano, forse, ha risentito più di ogni altro intellettuale del suo tempo del dramma della Grande Guerra: della carneficina immane e senza precedenti che ha apportato, della sofferenza che ha causato, degli aspri combattimenti su passi di montagna e cime innevate che l’hanno caratterizzata, per la prima volta si fece uso in guerra di armi nuove e potenti, frutto del progresso e della scienza applicata alla pratica che, seppur ancora agli inizi di un’età che li avrebbe visti quali indiscussi protagonisti e detentori del destino di milioni di uomini. Il conflitto tra Ucraina e Russia che dura ormai da 8 anni non è da meno: la storia non ha insegnato niente ma la poesia continua a fare sentire la sua voce attraverso i poeti della nuova generazione. E’ questo il caso della giovane poetessa ucraina Lyudmila Legostaeva.

NAPOLI

Protagonista di questa poesia contro la guerra è il “viburnum”, una specie di pianta fiorita nel famiglia Adoxaceae nativo in Europa, Nord Africa e Asia centrale, diventata uno dei simboli dell’Ucraina: le sue bacche simboleggiano la casa e la terra natale, il sangue e le radici familiari.

Viburnum ha scritto lettere dall’Ucraina
Alle bianche betulle russe,
E caddero grosse gocce rosse
O sangue, o lacrime.
Ha scritto: “Portate via i vostri ragazzi,
Che gli ospiti non fossero stati invitati,
Perché gli estranei muoiono in qualcun altro?
I combattimenti qui sono terribili.
Sei sfacciatamente mentito sul fatto che i ragazzi stanno “vagando”,
Furono gettati nella gola della guerra ..
La guerra non è addestramento… qui uccidono davvero,
Questi sono i tuoi fratelli e figli.
Verrà insegnato loro a sparare alle persone con un cannone,
Insidioso dare l’ordine.
I figli dovrebbero nascere per questo?
Per fermare il loro tempo qui?
Metti croci al collo dei ragazzi,
Ora prendono di mira le persone
Uno di questi è sia la lingua che la fede
Per il bene di idee bizzarre.
Alcuni non torneranno mai a casa,
I campi sono pieni di tombe,
I vivi sono storpi, il loro destino è bizzarro,
Uccelli senza ali.”
Viburnum ha scritto lettere e inviato
Con stormi di sangue nero…
Intorno al viburno bruciava e bruciava,
E le ceneri sono volate a terra.
Anche se gli scatti di “Gradiv” hanno spaventato il viburno
E i fuochi si chiusero in un anello,
Ha scritto, urlando a morte
Ed era una vera combattente…
costole rotte, tempie tagliate,
Tutti i rami sono danneggiati,
E caddero gocce di rosso e di sale,
Le candele bruciavano come una chiesa.
Perché tutta questa terra non è bagnata di rugiada,
E sangue umano senza limiti,
Non era dolcemente scaldata dal sole,
E le ceneri dopo l’incendio…
Viburnum ha scritto lettere dall’Ucraina
In diverse parti del mondo:
“Non dormire, aiuto. Ci sparano alle spalle
E voglio distruggere al Cremlino … ”
È difficile accettare guerre e perdite,
Il popolo prese questa croce e la portò…
E ci inchineremmo alla terra di quel viburno,
Manca una lettera scritta,
Per la sua sincerità, coscienza non corrotta,
Che anche nel fuoco non bruci…
E lascia che la coscienza dorma ancora nel paese delle betulle,
Ma presto tutto il boschetto sarà rumoroso!

*Dove tuonano le bombe e l’uomo fallisce facendo vincere la follia…ancora risuona l’eco delle parole, le speranze, la denuncia nei versi, l’unica voce rimasta a questi giovani circondati solo da sangue e morte, miseria e la terribile sensazione di essere lasciati soli.

La poesia di denuncia quando le parole varcano ogni muro.

Il grande poeta turco Nazim Hikmet morì il 3 giugno 1963, a soli sessantun anni, stroncato da un arresto cardiaco mentre usciva dalla porta di casa, al numero 6 di via Pesciànaya, a Mosca. Hikmet era consapevole dei suoi problemi di cuore, che da anni cercava di domare e curare tramite visite specialistiche. Nazim Hikmet ne aveva parlato in un’altra poesia che nel titolo suggeriva un’idea di rinascita, Primavera, in cui diceva enigmaticamente:

NAPOLI

“Quel che si attende arriverà in un’ora inattesa”.

E così fu. Il cuore ribelle tradì il poeta sulla soglia di casa, mentre si apprestava a uscire per un’incombenza o un appuntamento al quale non arrivò mai. La vita se ne andava in un soffio, ma le parole restavano. Hikmet scrisse questa poesia nel 1948, rinchiuso nel buio di una cella in una prigione dell’Anatolia. Il regime turco lo considerava un personaggio scomodo per le sue idee politiche troppo libertarie, in aperto contrasto con la dittatura di Kemal Ataturk. Persino nella notte più oscura, disumana, crocifisso nel buio di una cella Hikmet non aveva tradito la sua natura di poeta, di scrittore: le parole erano rimaste con lui, gli avevano indicato la via, ricordandogli il significato della libertà. Le parole lo avevano strappato dal tempo della prigionia che doveva apparire eterno, confortandolo in quell’antro buio e maleodorante.

In questa notte d’autunno

In questa notte d’autunno
sono pieno delle tue parole
parole eterne come il tempo
come la materia
parole pesanti come la mano
scintillanti come le stelle.

Dalla tua testa dalla tua carne
dal tuo cuore
mi sono giunte le tue parole
le tue parole cariche di te
le tue parole, madre
le tue parole, amore
le tue parole, amica.

Erano tristi, amare
erano allegre, piene di speranza
erano coraggiose, eroiche
le tue parole
erano uomini.

  • Parole, parole. Quelle che salvano, che danno speranza, quelle che consolano. Parole che possono cambiare il mondo e illuminare la strada perché niente può fermarle neanche il tempo.

Cibo e poeti, in cucina con Dante

Dal Convivio alla Divina Commedia, il sommo poeta Dante ha imbandito delle tavolate molto particolari per i suoi lettori di ieri e di oggi, confermando la fama della buona cucina italiana. Nel periodo in cui Dante Alighieri visse a Firenze, verso la fine del XIII secolo, la città stava raggiungendo un ottimo tenore di vita civile e culturale. Il benessere economico aveva creato i presupposti per uno sviluppo della città in senso artistico e culturale. Infatti anche la cucina divenne, in questo periodo, più ricca e raffinata: dalla Sicilia arrivavano le mandorle, la frutta candita e lo zucchero di canna; dall’Oriente le profumatissime spezie. I mercati fiorentini, ben organizzati e controllati dalle autorità, erano ricchi di prodotti, che ogni giorno arrivavano freschi dal “contado”: in particolare ortaggi, uova, pollame e formaggi.
E noi, commensali affamati, ci sediamo ardenti di desiderio alle sue mense, pur consapevoli che forse non riusciremo a gustare fino in fondo alcune prelibatezze, e soprattutto per nulla timorosi di incorrere in quel peccato della gola punito nell’Inferno perchè vizio capitale e da espiare come tendenza peccaminosa nel Purgatorio. Gregorio Magno lo definiva vizio carnale già nei Moralia: mangiare con avidità o fuori pasto frequentemente, eccedere nelle quantità, scegliere cibi prelibati, esagerare nei condimenti. Bastava rientrare in una di queste situazioni e personaggi come Ciacco, Forese Donati o Bonaggiunta Orbicciani venivano immediatamente tacciati di questo peccato.
Quello che Aristotele nella sua Etica indicò come una sorta di schiavitù perché è un desiderio naturale, seppur di cibo, ma smodato e portato all’eccesso, nella religione cattolica diventava un peccato grave: un impulso naturale, il nutrimento fondamentale per la vita, si trasforma in un desiderio disordinato d’appagamento immediato del corpo fino al compiacimento, perciò da condannare sia in quanto mancanza di autocontrollo e diretto verso un bene terreno e non verso Dio, sia come forma di disuguaglianza sociale in un momento storico in cui fame e povertà erano la quotidianità per molti. Le indicazioni della Chiesa erano molto puntuali e Dante non vi si sottrasse; un uomo sobrio, amante del cibo semplice e consapevole della gravità del peccato della gola: forse per questo il sommo poeta nelle sue opere non introduce mai riferimenti diretti al cibo, se non generici o in forma di metafora, a cominciare dal banchetto per eccellenza che allestisce per i suoi lettori, quello del Convivio. Passando alla Divina Commedia, Dante non tralascia il tema del mangiare, sia come metafora sia come peccato: sono state rilevate ben 17 ricorrenze per la parola fame e 16 attestazioni del termine cibo. Il desiderio smisurato di cibo viene condannato e punito nel terzo cerchio: qui Dante, dopo aver placato Cerbero gettando pugni di terra nelle sue “bramose canne”, presenta ai lettori il più famoso goloso della letteratura, quel Ciacco (Ciacco da Buoninsegna o Ciacco dell’Anguillara), che sarà anche protagonista di una novella del Decameron: si rivolta nel fango, battuto da una pioggia immutabile. L’immagine della cucina ritorna nella quinta bolgia, nella scena dei diavoli chef che fanno lessare la carne dei barattieri, qui puniti, in una sorta di pentolone da brodo: la pece bollente. “Non altrimenti i cuochi a lor vassalli fanno attuffare in mezzo la caldaia, la carne con li uncin, perché non galli…” Infine è San Bernardo a sottolinearlo a Dante nel XXXII canto; solo il pan de li angeli (Paradiso II, v. 11), cioè il nutrimento della contemplazione mistica, dei misteri divini di cui si può finalmente essere ghiotti, potrà saziare, culminando nell’ultimo canto nella pienezza della visione di Dio: è la ricompensa finale per una vita condotta con purezza e rettitudine.

NAPOLI

[Convivio, I, cap. 1]

Oh beati quelli pochi che seggiono a quella mensa dove lo pane de li angeli si manuca! E miseri quelli che con le pecore hanno comune cibo! […] Coloro che a così alta mensa sono cibati non sanza misericordia sono inver di quelli che in bestiale pastura veggiono erba e ghiande sen gire mangiando”.

*Come sempre nella storia, ecco che la Chiesa minacciava, condannava in un marasma di ipocrisia. I preti imponevano il digiuno, ritenendo il cibo un peccato di gola mentre le cucine dei monasteri traboccavano e la maggior parte del popolo soffriva la fame.

Funambolo, di Imma Paradiso

Napoli: Spesso, molto spesso, così ci sentiamo, sospesi nel vuoto, sempre con la paura di perdere questo fragile equilibrio che manteniamo a stento. E lì, il mondo con il suo peso di doveri, di cose da fare e il tempo che ci tormenta e lì il mondo che sembra stia quasi a giudicarci aspettando quel fatale passo falso.

Sentirsi,
come un funambolo,
che gioca,
in bilico su una corda…
E il mondo che guarda.

Imma Paradiso

NAPOLI

La poesia di denuncia, Nazim Hikmet

Nâzım Hikmet , in italiano spesso scritto Nazim Hikmet, all’anagrafe Nâzım Hikmet Ran (Salonicco, 15 gennaio 1902 – Mosca, 3 giugno 1963) è stato un poeta, drammaturgo e scrittore turco naturalizzato polacco. Definito “comunista romantico” o “rivoluzionario romantico”, è considerato uno dei più importanti poeti turchi dell’epoca moderna.
Nâzım Hikmet nacque a Salonicco, nell’allora Grecia ottomana, il 15 gennaio del 1902 da un’agiata famiglia aristocratica. Hikmet, da bambino, era un credente musulmano, come la sua famiglia; scrisse i suoi primi testi all’età di quattordici anni: le prime poesie ebbero per argomento un incendio della casa di fronte alla sua e il gatto della sorella; la prima pubblicazione avvenne a diciassette anni su una rivista.Nel 1938 un suo poema venne accusato di incitare i marinai alla rivolta; arrestato e processato, fu condannato a 28 anni e 4 mesi di prigione per le sue attività contro il regime, le sue idee comuniste e le sue iniziative internazionali anti-naziste e anti-franchiste. Alcune sue poesie di argomento politico furono proibite poiché considerate sovversive e lesive dell’onore dell’esercito, e per questo fu anche torturato e costretto a una dura detenzione, la quale culminò nel suo sciopero della fame di 18 giorni, che gli provocò i problemi cardiaci che l’avrebbero portato alla morte. Fu l’intervento di una commissione internazionale composta tra gli altri da Tristan Tzara, Pablo Picasso, Paul Robeson, Pablo Neruda e Jean-Paul Sartre nel 1949, a favorirne la scarcerazione nel 1950, in seguito ad una nuova amnistia.Nel 1951 chiese asilo politico in Polonia e, dopo aver rinunciato alla sua cittadinanza turca, divenne cittadino polacco nel 1959, facendo valere le origini familiari della madre, ma fissò la sua residenza nell’Unione Sovietica.Morì il 3 giugno 1963, a 61 anni, in seguito a una nuova crisi cardiaca incorsa mentre usciva dalla porta di casa.Premio World peace Council – 1950.

NAPOLI

Nazim Hikmet è ricordato principalmente per il suo capolavoro, la raccolta Poesie d’amore, che testimonia il suo grande impegno sociale e il suo profondo sentimento poetico. Sulla composizione dei versi tratti dalla poesia Ho sognato la mia bella, pubblicata nel ’64 nella raccolta Poesie d’amore non abbiamo notizie certe, possiamo però dedurre che il poeta li abbia scritti durante gli anni dell’esilio, molto probabilmente per sua moglie, rimasta bloccata in Turchia e che il poeta non rivedrà mai più a causa del clima politico della sua patria.

“Ho sognato la mia bella”

Ho sognato della mia bella
Ho sognato della mia bella
m’è apparsa sopra i rami
passava sopra la luna
tra una nuvola e l’altra
andava e io la seguivi
mi fermavo e lei si fermava
la guardavo e lei mi guardava
e tutto è finito qui.

*Un poeta profondo, che ha creduto nell’efficacia della poesia come “arma” per combattere il potere e le ingiustizie e ne ha pagato di persona le conseguenze. Un uomo che ha amato con passione come si evince da questi meravigliosi versi

Poesia satirica”ridendo castigavit mores”

La satira è una Composizione poetica che rivela e colpisce con lo scherno o con il ridicolo concezioni, passioni, modi di vita e atteggiamenti comuni a tutta l’umanità, o caratteristici di una categoria di persone o anche di un solo individuo, che contrastano o discordano dalla morale comune (e sono perciò considerati vizi o difetti) o dall’ideale etico dello scrittore. La satira mira a far ridere criticando i personaggi e deridendoli in argomenti politici, sociali e morali.

NAPOLI

Sin dall’Antica Grecia la satira ha sempre avuto una fortissima impronta politica, occupandosi degli eventi di stretta attualità per la città (la polis), e avendo una notevole influenza sull’opinione pubblica ateniese, proprio a ridosso delle elezioni.
È nell’antica Roma che nasce e si afferma, consapevolmente, la satira: Quintiliano, nel suo libro Institutio oratoria, afferma «satura tota nostra est», la satira è tutta nostra, è un’invenzione nostra.
Il termine satura da cui il nome del genere ha origine, fa riferimento all’espressione “lanx satura” che indica dei piatti colmi di varie offerte donati alle divinità. La satira, quindi, era un “miscuglio” di argomenti diversi che potevano essere esposti sia in poesia che in prosa e che all’inizio non avevano necessariamente un intento polemico.
Il poeta latino Quinto Orazio Flacco, nelle sue Satire, affronta diversi temi, come la società romana e i suoi vizi, la propria vita quotidiana, quella degli amici del cosiddetto “Circolo di Mecenate”, del quale facevano parte i più illustri poeti e intellettuali dell’epoca augustea ed altri semplici aneddoti, molti dei quali presi da esperienze personali. Come molti altri elementi culturali del mondo latino, anche la satira passa al sistema culturale medievale ma risulta camuffata rispetto a quanto avveniva nella letteratura antica,una figura retorica molto usata nel Medioevo era l’Allegoria: consiste nella rappresentazione di un significato nascosto ravvisabile sotto il significato letterale del testo. Gli scritti satirici medievali tendono ad attaccare la classe politica e quella ecclesiastica ma ci sono anche componimenti che polemizzano contro i costumi della società.
La satira oggi, si trova maggiormente a livello televisivo o su internet e, in quantità minore, sui giornali. Gli argomenti principali sono la politica e la società: possiamo vedere, quindi, che non c’è stato un grande cambiamento rispetto all’epoca oraziana e che chi si occupa di questo genere continua a trovare spunti, in tutti i periodi storici, per far divertire, ma allo stesso tempo riflettere, il pubblico. La satira condivide molti aspetti della comicità, del carnevalesco, dell’umorismo, dell’ironia e del sarcasmo: dalla ricerca del ridicolo e del paradossale fino alla messa in discussione dell’autorità ma, a differenze delle altre categorie sopra citate, il diritto di fare satira è garantito dalla Costituzione Italiana, in particolare dagli articoli 21 e 33. Nel 2006 la Corte di Cassazione ha redatto una definizione giuridica per la satira. Ecco quale: “La satira è quella manifestazione di pensiero talora di altissimo livello che nei tempi si è addossata il compito di castigare ridendo mores (corregge i costumi ridendo, ndr) ovvero di indicare alla pubblica opinione aspetti criticabili o esecrabili di persone, al fine di ottenere, mediante il riso suscitato, un esito finale di carattere etico, correttivo cioè verso il bene”.

Carlo Alberto Salu­stri, questo mattacchione, «scapolo impenitente» meglio noto in Arte come TRILUSSA.
Egli … “ridendo castigavit mores” e sempre ridendo – con eleganza e con garbo – seppe por­gere anche le realtà più scabrose, risul­tando sempre attuale, che è, poi, la caratteri­stica dei gran­di Scrittori.

Una acutissima poesia di Trilussa: “La politica Italiana”

Ner modo de pensa’ c’è un gran divario;

Mi’ padre è democratico cristiano

E siccome è impiegato ar Vaticano

Tutte le sere recita er rosario;

De tre fratelli, Giggi eh’è er più anziano

È socialista rivoluzionario,

Io invece so’ monarchico, ar contrario

De Ludovico eh’è repubblicano.

Prima de cena liticamo spesso

Pe’ via de ’sti principii benedetti:

Chi vò qua, chi vò là…Pare un congresso!

Famo l’ira de Dio! Ma appena mamma

Ce dice che so’ cotti li spaghetti

Semo tutti d’accordo ner programma.

*Niente da aggiungere…chestè, sembra che nulla cambi, negli anni si alternano vari simboli, vari nomi, partiti su partiti. Polemiche, litigi ma quando c’è da mangiare tutti d’accordo.

MADAME

Donna, quando vedi il tuo viso stanco allo specchio con qualche ruga…sono segni del tempo, di una vita vissuta, gioie, dolori, delusioni e rimpianti…leggi sul volto la tua storia e sei tu sempre bellissima, a qualsiasi età

Ti guardavi in quello
specchio, smarrita,
nella stanza in
penombra…
Seguivi la linea sensuale
di quelle labbra piene,
forse stanche,
dei troppi baci rubati e persi.
Oh gli occhi! Quegli occhi,
che rubavano l’anima,
da tempo ti apparivano
oscurati da ombre,
che inseguivano
giorni lontani. E mentre,
ti passavi il rossetto scarlatto,
un raggio di sole
moriva sulle rose appassite,
nel vaso di ceramica antica.

Imma Paradiso

NAPOLI

Poesia satirica nel Medioevo…”Se fossi Cecco terrei le donne giovani e belle…”

Francesco Angiolieri, detto Cecco (Siena, 1260 circa – Siena, 1311/1313), è stato un poeta e scrittore italiano. Contemporaneo di Dante Alighieri e appartenente alla storica casata nobiliare degli Angiolieri, non si hanno però molte notizie certe sulla sua biografia. Si sa che ebbe una vita molto avventurosa, fu dedito al gioco e a vizi, subì processi per disturbo della quiete pubblica e dilapidò il patrimonio che gli aveva lasciato il padre. Nelle sue poesie  si accanisce contro la miseria e la sfortuna. Con i suoi modi sarcastici e dissacranti si prende gioco del Dolce stil novo;  in altre poesie, più originali, esalta goliardicamente il gioco, il vino e maledice la famiglia, il mondo e la gente. Celebri sono i sonetti S’i’ fosse foco, Tre cose solamente mi so ‘n grado e La mia malinconia è tanta e tale.

NAPOLI

Tre cose soltanto mi piacciono: le donne, la taverna
(cioè, il vino) e il dado (cioè, il gioco)”.
Nel vasto mondo della poesia un posto non secondario
ce l’ha la poesia dissacrante, controcorrente, originale, sorprendente di Cecco Angiolieri,
contemporaneo di Dante.
Della poesia che cantava la donna, la taverna e il dado Cecco Angiolieri dovette sentire un fascino profondo, la scelta comica o giocosa da parte del poeta indica una condizione interiore e una precisa visione del mondo. La psicologia di Cecco Angiolieri è sempre volta al gioco, alla beffa e alla parodia. . È lontano da problemi morali o escatologici, che sono guardati con una punta di sottile ironia. Si abbandona ad una visione del mondo antiplatonica, concreta, terrestre; appartiene a quella schiera di poeti che presero con gioia il vivere terreno, una gioia che è quindi fisica, fugace, come la vita quotidiana, e perciò non priva di una dissimulata malinconia.
Nel volersi distaccare dalla poetica stilnovista, Cecco Angiolieri la riprende in modo parodico. Il suo amore per Becchina è cantato molto spesso secondo  tematiche e moduli stilistici tipici dello Stilnovo, l’oggetto dell’amore cantato non è però una donna angelica e cortese, umile e raffinata. Becchina è un’energica popolana dai comportamenti grossolani e sguaiati. Quella di Cecco Angiolieri è una letteratura altissima, sorretta da un’intuizione acuta ed originale, quasi come un disegno caricaturale.

S’i’ fosse foco, arderei ‘l mondo

S’i’ fosse foco, arderei’ il mondo;
s’i’ fosse vento, lo tempestarei;
s’i’ fosse acqua, i’ l’annegherei;
s’i’ fosse Dio, mandereil en profondo;
s’i’ fosse papa, serei allor giocondo,
ché tutti ‘ cristiani embrigarei;
s’i’ fosse ‘mperator, sa’ che farei?
a tutti mozzarei lo capo a tondo.
S’i’ fosse morte, andarei da mio padre;
s’i’ fosse vita, fuggirei da lui:
similemente faria da mi’ madre.
S’i’ fosse Cecco com’i’ sono e fui,
torrei le donne giovani e leggiadre:
le vecchie e laide lasserei altrui

Se fossi fuoco, brucerei il mondo;
se fossi vento, lo sconvolgerei con tempeste;
se fossi acqua, lo annegherei;
se fossi Dio, lo farei sprofondare.
Se fossi papa, allora sarei allegro,
perché potrei mettere nei guai tutti i cristiani;
se fossi imperatore, lo saprei fare proprio bene;
taglierei la testa di netto a tutti quanti.
Se fossi morte, andrei da mio padre;
se fossi vita, non rimarrei con lui;
lo stesso farei con mia madre.
Se fossi Cecco, come sono e sono sempre stato,
terrei le donne giovani e belle,
e lascerei quelle sporche e vecchie agli altri.

*Ecco un esempio di satira medioevale, Angiolieri, così mordace e moderno nello stile. Chissà quanti ne avrà fatti arrabbiare a suo tempo  questo poeta buontempone. Un modo allegro,originale e indiretto per dire tante verità.

I POETI E LA PACE, CRISTO NON SARÀ NATO, MAHATMA GANDHI

La domanda che si pone Mahatma Gandhi in questa sua poesia è una domanda importante. Infatti c’è sempre da chiedersi “dov’è la pace” che poi in sostanza significa “che cos’è la pace”. “La pace, infatti, non è una condizione di vita tra le altre, ma quella che più si adegua alla forma umana della vita che è fatta, come direbbe Hanna Arendt, per vivere e non per morire”. Tuttavia, la storia umana appare come una successione terribile e con poche tregue di guerre atroci. Per Freud gli esseri umani sono nel loro fondo una «masnada di assassini». E’ un fatto: esiste un desiderio umano che è contro il Diritto, criminogeno, feroce e crudele e che non trova alcun corrispettiva nemmeno nel mondo animale che, non a caso, non conosce né la brutalità del crimine, né quella della guerra. Tuttavia, anche la fratellanza tra gli uomini è un sogno che ha una sua forza. La guerra dunque “contenuto immorale dei nostri sogni “ che si oppone alla fratellanza che oggi sembra ritornare nella forma di invocazione al pacifismo . La guerra in Ucraina si trascina ormai da tempo e, con essa, le ombre di un mondo che sembra aver detto addio al pacifismo. Per rendersene conto basta fare un confronto con il 2003, quando gli Stati Uniti invasero l’Iraq. In quell’occasione le manifestazioni portarono in strada milioni di persone in tutto il mondo in una delle più grandi proteste contro la guerra di sempre. Nei mesi scorsi, invece, quando i movimenti per la pace hanno organizzato mobilitazioni contro l’invasione russa e l’invio di armi a Kiev, in piazza è sceso un numero minore di persone. La Rete italiana pace e disarmo (Ripd) e le organizzazioni promotrici hanno ribadito la condanna dell’azione militare in Ucraina da parte della Federazione Russa, e hanno espresso la massima solidarietà alle popolazioni coinvolte al fine di sostenere tutti gli sforzi della società civile pacifista e dei lavoratori e lavoratrici in Ucraina e Russia che si oppongono alla guerra con la nonviolenza. A livello mondiale va detto che,malgrado appunto una minore incidenza rispetto ad altri scenari del passato, comunque secondo il Sole 24 ore in un articolo di Emilio Calabrese in una treemap costruita con i dati derivanti “dal database di ACLED, che raccoglie in tempo reale informazioni relative ai luoghi, agli attori dei conflitti, alle vittime e ad altre fattispecie come alle proteste politiche e sociali, si evidenzia che in tutto sono state quasi duemila le manifestazioni pacifiste e che tra tutti i Paesi oltre all’Ucraina stessa, a cui fanno riferimento quasi la metà di queste sono gli Stati Uniti a detenere il primato di iniziative contro l’invasione pilotata dal Cremlino a discapito del popolo ucraino.

NAPOLI

Mohāndās Karamchand Gāndhi, comunemente noto con l’appellativo onorifico di Mahatma (in sanscrito: महात्मा, letteralmente “grande anima”, ma traducibile anche come “venerabile”, e per certi versi correlabile al termine occidentale “santo”) (Porbandar, 2 ottobre 1869 – Nuova Delhi, 30 gennaio 1948) è stato un politico, filosofo e avvocato indiano. Gandhi è stato uno dei pionieri e dei teorici del satyagraha, un termine coniato da lui stesso, cioè la resistenza all’oppressione tramite la disobbedienza civile di massa che ha portato l’India all’indipendenza. Con le sue azioni, Gandhi ha ispirato movimenti di difesa dei diritti civili e personalità quali Martin Luther King, Nelson Mandela e Aung San Suu Kyi. In India, Gandhi è stato riconosciuto come “Padre della nazione” e il giorno della sua nascita (2 ottobre) è un giorno festivo. Questa data è stata anche dichiarata Giornata internazionale della nonviolenza dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite.

Dov’è la pace Mahatma Gandhi

Quando sento cantare:
“Gloria a Dio e Pace sulla terra”
mi domando dove oggi
sia resa gloria a Dio
e dove sia pace sulla terra.
Finché la pace
sarà una fame insaziata
a finché non avremo sradicato
dalla nostra civiltà la violenza,
il Cristo non sarà nato.

*Versi forti, che incidono come pietre e non hanno bisogno di chissà quali interpretazioni. È inutile cantare inni, festeggiare la fratellanza nelle chiese, a Natale, Pasqua…non c’è nessuna pace sulla terra finché verrà versato sangue e Cristo non nascerà.

VORREI

Essere pensiero di luce, essere piccola voce che sappia con un verso, una parola far nascere un sorriso.

Vorrei essere sale della terra,
da essa trarre forza e diventare frutto.
Vorrei essere stella del mattino,
per condurre i marinai persi
al sicuro delle loro case.
Vorrei essere quercia dalle radici forti,
per non piegarmi alla furia dei venti
e proteggere i nuovi nati nei loro nidi.
Vorrei essere sole del giorno,
riscaldare il mondo e portare luce.
Vorrei essere quella voce,
capace di penetrare in ogni cuore
e cancellare un po’ di pena.

NAPOLI

Imma Paradiso

I POETI E LA PACE, “AHIMSĀ” MAHATMA GANDHI, ESISTE ANCORA UNA CULTURA “NON VIOLENTA” NEL MONDO?

La nonviolenza (dal sanscrito ahimṣā «non violenza», «assenza del desiderio di nuocere o uccidere o fare male») è un metodo di lotta politica che consiste nel rifiuto di ogni atto di violenza (in primo luogo proprio contro i rappresentanti e i sostenitori del potere cui ci si oppone), ma anche disobbedendo a determinati ordini militari (obiezione di coscienza) o altre norme e codici, articolando la propria azione nelle forme della disobbedienza, del boicottaggio e della non-collaborazione (resistenza nonviolenta).Il principio venne teorizzato formalmente negli anni Venti del Novecento dal Mahatma Gandhi e applicato dal movimento anticoloniale indiano, che lo ricollegava al principio di origine induista e buddhista dell’ahimṣā, ed ebbe un peso notevole per il successo del movimento indipendentistico indiano. All’esempio di Gandhi si sono richiamati esplicitamente Martin Luther King e diversi movimenti pacifisti. La nonviolenza risulta dall’insoddisfazione verso cio’ che, nella natura, nella societa’, nell’umanita’, si costituisce o si e’ costituito con la violenza; e dall’impegno a stabilire dal nostro intimo, unita’ amore con gli esseri umani e non umani, vicini e lontani. La manifestazione piu’ concreta ed anche piu’ evidente di questa unita’ amore e’ l’atto di non uccidere questi esseri e di non operare su di loro mediante l’oppressione e la tortura.La nonviolenza è il buon uso del conflitto. Non è l’astensione, la neutralità assente. Non è assolutamente l’indifferenza tra l’aggressore e l’aggredito; né il semplice non-fare-violenza (la gandhiana “a-himsa”). La nonviolenza sta nel conflitto, non lo elude, non lo nasconde, anzi lo mette in luce quando è pericolosamente occultato. Di più, solleva e apre il conflitto, quando c’è un’ingiustizia, una violenza tacita e statica, incarnata nelle strutture sociali. La nonviolenza sta dentro il conflitto e lo gestisce con la forza della sincerità, in modo tale da condurlo ad essere un atto di vita e di verità.
Sta nel conflitto per trasformarlo da mortale in vitale, da eliminatorio in costruttivo.
Il conflitto, in se stesso, non significa scontro violento. Nonostante la confusione del linguaggio corrente, non è sinonimo di guerra. Il conflitto nasce da una differenza. L’incapacità di accettarla porta alla violenza, che vuole sradicare la differenza. L’intelligenza della vita, invece, riconosce la differenza e il conflitto come “un’occasione di verità” (Gandhi).

NAPOLI

Oggi la resistenza non violenta è una dottrina filosofica e politica a cui si richiamano non solo movimenti di
opposizione alla guerra, ma anche gruppi che mirano, più in generale, al cambiamento sociale.Per fermare la guerra bisogna non farla, non prepararla: con questo assunto il movimento nonviolento italiano si schiera contro il conflitto in Ucraina, ricordando le opposizioni che provengono dai territori coinvolti. Come già aveva avuto modo di scrivere Piero Pinna allo scoppio della Guerra del Golfo: “Da tempo veniamo segnalando, nel dilagante superficiale uso attuale del termine nonviolenza (da parte persino di Capi di Stato, detentori e fautori di violenza bellica!), tutta l’improprietà e stortura dei modi di intenderla”. La conseguenza pratica della nonviolenza politica, da Gandhi a Capitini, infatti, è l’azione diretta antimilitarista, cioè il rifiuto di collaborare a tutto ciò che tiene in piedi gli eserciti e che prepara le guerre.Ciò che caratterizza la nonviolenza è l’uso di mezzi nonviolenti anche quando le teorie tradizionali giustificano l’uso della guerra. Ovvero l’uso di mezzi nonviolenti in sostituzione dei mezzi violenti, anche nel caso in cui sembra che di questi non si possa assolutamente fare a meno, e pertanto siano moralmente giustificati.

Mohāndās Karamchand Gāndhi, comunemente noto con l’appellativo onorifico di Mahatma (in sanscrito: महात्मा, letteralmente “grande anima”, ma traducibile anche come “venerabile”, e per certi versi correlabile al termine occidentale “santo”) (Porbandar, 2 ottobre 1869 – Nuova Delhi, 30 gennaio 1948) è stato un politico, filosofo e avvocato indiano. Gandhi è stato uno dei pionieri e dei teorici del satyagraha, un termine coniato da lui stesso, cioè la resistenza all’oppressione tramite la disobbedienza civile di massa che ha portato l’India all’indipendenza. Con le sue azioni, Gandhi ha ispirato movimenti di difesa dei diritti civili e personalità quali Martin Luther King, Nelson Mandela e Aung San Suu Kyi. In India, Gandhi è stato riconosciuto come “Padre della nazione” e il giorno della sua nascita (2 ottobre) è un giorno festivo. Questa data è stata anche dichiarata Giornata internazionale della nonviolenza dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Mohandas Karamchand Gandhi nacque a Porbandar, una città costiera situata nella penisola del Kathiawar, capoluogo dell’omonimo principato, nell’allora Raj britannico (attualmente parte dello stato indiano del Gujarat), il 2 ottobre 1869 da una benestante famiglia indù vaishnava modh facente parte della casta dei Bania, composta da mercanti, commercianti, banchieri. Nel 1882, all’età di 13 anni, Gandhi si sposa, con un matrimonio combinato secondo la tradizione indù, con Kastürbā Gāndhi, anch’ella di soli 13 anni, figlia del ricco uomo d’affari Gokuladas Makharji, di Porbandar. Gandhi in seguito condannerà più volte “la crudele usanza dei matrimoni infantili”. Nel 1886, all’età di diciotto anni, l’anno dopo la tragica morte del padre, parte per studiare da avvocato presso lo University College di Londra. Gandhi parte nonostante le discordie e per questo viene dichiarato paria, ovvero “fuori casta” dal capo della sua stessa comunità. Due giorni dopo aver superato gli esami finali di Giurisprudenza parte dall’Inghilterra il 12 giugno del 1891 per far ritorno nella sua terra, in Sudafrica entra in contatto con il fenomeno dell’apartheid, ma anche con il pregiudizio razziale e le condizioni di quasi schiavitù nelle quali vivono i suoi 150.000 connazionali. Questa situazione lo porterà a un’evoluzione interiore profonda. In quanto testimone diretto dell’intolleranza, del razzismo, dei pregiudizi e dell’ingiustizia verso gli indiani in Sudafrica, Gandhi comincia a riflettere sullo stato del suo popolo e sul proprio posto nella società. Dalla lettura dei vari testi religiosi, egli deduce che la rinuncia è la più alta forma di religiosità, infatti a 37 anni decise di prendere voto di castità, d’accordo con la moglie ma contro la sua religione. Nello stesso periodo inizia quella che verrà poi identificata come la sua attività distintiva: il digiuno, come mezzo di purificazione e di autodominio. Con queste pratiche di purificazione si inaugura la satyagraha, la forza della verità che possiede l’unica arma la non violenza, l’arma dei deboli secondo alcuni, ma egli soleva dire: “La non violenza è fatta di materia solida, è l’arma dei cuori più forti.” Fu arrestato diverse volte, la prima per aver invitato alla disobbedienza civile, nel settembre 1906, tutti gli asiatici che la polizia aveva proposto di schedare, venne rinchiuso per sette anni, altri due dal 1921 al 1923, sempre per aver fomentato la ribellione civile e un’altra volta, per un anno, nel 1930 per aver simbolicamente prodotto alcuni grammi di sale per protestare contro il monopolio
e in prigionia perse nel 1944 l’adorata moglie Kasturba, morta di infarto dopo 18 mesi di arresti domiciliari. Gandhi era ormai diventato un simbolo del movimento pacifista mondiale, dopo essere stato, fin dagli Anni ’20, il perno della lotta per l’indipendenza indiana. Ma quando la sua terra fu finalmente libera, il Mahatma scoprì che con la partenza degli inglesi gli indiani avevano accettato (e voluto) anche la mela avvelenata, la “partizione” del Paese in due Stati sovrani: l’India induista e il Pakistan islamico. Quando le differenze religiose interne si trasformarono in lotta fratricida e tra i due confini si assistette al più grande esodo di massa della Storia, il Mahatma si ritirò a pregare e digiunare. Il 30 gennaio del 1948, alle cinque della sera, Nathuram Godse, un estremista indù lo avvicinò, piegandosi davanti a lui come in omaggio, e gli sparò tre colpi a bruciapelo. Gandhi mormorò “He Ram” (Oh Dio) prima di morire. Aveva 78 anni.

Dovremmo staccarci dai beni materiali, dai bisogni terreni. Dovremmo saperci elevare e portare avanti una vita dedita alle piccole cose. La natura, la bellezza che ci circonda come una sorgente, un raggio di sole. E pensare al prossimo, regalare un sorriso, regalare emozioni e condividerle con gli altri, diventano una luce che ci guida per tutta la vita. L’uomo più grande di sempre, l’animo più nobile che possiamo ricordare, ci ha lasciato così un testamento di amore.

Prendi un sorriso
(Mahatma Gandhi)
Prendi un sorriso,
Regalalo a chi non l’ha mai avuto.
Prendi un raggio di sole,
Fallo volare là dove regna la notte.
Scopri una sorgente,
fai bagnare chi vive nel fango.
Prendi una lacrima,
Posala sul volto di chi non ha pianto.
Prendi il coraggio,
Mettilo nell’animo di chi non sa lottare.
Scopri la vita,
Raccontala a chi non sa capirla.
Prendi la speranza
E vivi nella sua luce.
Prendi la bontà
E donala a chi non sa donare.
Scopri l’amore
e fallo conoscere al mondo.

*Una “grande Anima”, un uomo che ha scritto la storia come un fulgido esempio, mettendo in atto una “guerra rivoluzionaria” sovvertire imperi e governi senza usare le armi…la non violenza…digiuno, sciopero, resistenza, la forza delle idee, della dignità contro la repressione aggressiva. E questa luce mirabile e generosa splende con forza in questi versi, donare a chi non ha, amare il mondo. Oggi come non mai servono le sue sagge parole in un mondo sempre più lontano dall’idea stessa di una convivenza civile e pacifica.

FAME DI TE

L’amore, quello vero, profondo è fame di baci…

Il bacio di Francesco Hayez

Ho fame della tua bocca
passerei la vita ad affondarci
a gustare il tuo sapore
a sentire quel fuoco
che il gioco della
tua lingua accende.
Ho fame di te
al ricordo delle tue mani
che esplorano la mia pelle
che è impronta di te
e mai sazia di carezze.
Oh cuore, caro mio,
morire vorrei fra le
tue braccia e rinascere
ogni volta che mi stringi.

Imma Paradiso

Poeti per la pace, Zhadan una voce per l’Ucraina.

In Ucraina si combatte sostanzialmente per l’unità territoriale e per i valori europei. Paradossalmente qui in Europa sembra quasi una retorica, mentre per gli Ucraini questi valori, in primo luogo la democrazia, la libertà civile e la dignità umana rappresentano oggi un vero punto di riferimento e vengono difesi anche a costo della vita. L’avvicinamento politico ed economico con l’Europa e la futura integrazione nelle istituzioni dell’Unione europea da un astratto obiettivo ‘strategico’inserito nella legislazione ucraina nel lontano 1993, nell’ultimo anno è divenuto un sentimento generale, l’espressione di un’autentica volontà popolare.Questa volontà e determinazione del popolo ucraino (confermata alle ultime elezioni politiche della fine di ottobre dove oltre il 70% degli elettori ha sostenuto i partiti di orientamento pro-europeo) ha scatenato una violenta reazione da parte della Russia, tradottasi inizialmente nell’annessione della Crimea e nella destabilizzazione delle regioni orientali dell’Ucraina, con l’infiltrazione sul territorio ucraino dei militari e paramilitari dalla Russia (compresi i terroristi ceceni, osezi e altri elementi sovversivi) e, successivamente, a partire di agosto scorso, nell’invasione delle truppe regolari dell’esercito russo.

NAPOLI

Serhiy Viktorovych Zhadan (Starobil’s’k, 23 agosto 1974) è uno scrittore ucraino. Zhadan è nato a Starobilsk, Luhansk Oblast in Ucraina. Si è laureato presso l’Università Pedagogica Nazionale di Charkiv nel 1996. Ha iniziato a scrivere nel 1990 rivoluzionando la poesia ucraina: i suoi versi erano meno sentimentali, facendo rivivere lo stile degli scrittori d’avanguardia ucraini degli anni ’20 come Semenko o Johanssen. È uno scrittore ucraino di fama internazionale, con 12 libri di poesia e 7 romanzi e vincitore di più di una dozzina di premi letterari. Nel marzo 2008, la traduzione russa del suo romanzo Anarchy in the UKR è entrata nella rosa dei candidati del National Bestseller Prize. . Le sue poesie selezionate Dynamo Kharkiv hanno vinto il “Libro dell’anno” ucraino. Il coinvolgimento attivo di Zhadan nell’indipendenza ucraina è iniziato da studente ed è continuato durante le varie crisi politiche in Ucraina. Nel 2013 è stato membro del consiglio di coordinamento di Euromaidan Kharkiv, nell’ambito delle proteste a livello nazionale e dei violenti scontri con la polizia. Nel 2014 Zhadan è stato aggredito all’esterno dell’edificio amministrativo a Kharkiv.  Nel febbraio 2017 ha co-fondato la Serhiy Zhadan Charitable Foundation per fornire aiuti umanitari alle città sulla linea del fronte.

In Italia lo si conosce per il romanzo Depeche Mode, pubblicato qualche anno fa da Castelvecchi. E per il pestaggio di cui lui, ucraino, è stato oggetto a Kiev,  durante una manifestazione da parte di un gruppo di filorussi.
Sergej Zhadan, ha all’attivo otto raccolte di poesie (è stato soprannominato  il “Rimbaud dell’Ucraina”) e una decina tra romanzi e racconti, tradotti in diverse lingue. In Germania, per esempio, è autore acclamato e ricercatissimo, invitato a molti festival e fiere: piacciono il suo stile scanzonato e anarchico, il senso dell’assurdo, la sua poesia “punk” dalla “malinconia postproletaria”. Poeta, romanziere, autore teatrale, è una delle voci più note della cultura del suo paese. Oggi è rimasto a Kharkiv
” Qui mi sento più tranquillo, perché lasciare la città in macchina è molto stressante. In campagna guidi e sai che in qualsiasi momento da un cespuglio può centrarti un missile.
L’attività logistica mi assorbe da mattina a sera. Chiama sempre chi ha bisogno di un’automobile, o chi vuole trasmettere i numeri di telefono dei medici, chi sta cercando medicine. Molti dei miei amici dell’ambiente artistico hanno scelto di rimanere. Fino allo scoppio della guerra non avevano mai fatto neppure un po’ di volontariato,
la politica non li interessava. Ma quando è iniziata la guerra molti hanno scelto di rimanere e di aiutare.”

Rinoceronti

L’aveva sopportato per sei mesi
per sei mesi aveva fissato la morte,
come i rinoceronti dello Zoo –
pieghe scure,
respiro pesante.
Aveva paura, ma non smetteva di guardare,
non chiudeva gli occhi.

È spaventoso, molto spaventoso.
Così dovrebbe essere.
La morte è spaventosa, ti atterrisce.
È spaventoso sentire il tanfo di sangue della luna.
È spaventoso vedere la storia come è fatta.

Sei mesi fa era tutto differente.
Sei mesi fa erano tutti diversi.
Nessuno aveva paura delle stelle cadenti
sopra il serbatoio.
Nessuno stava attento al fumo
che saliva dalle fessure della terra scura.

Di notte, in mezzo alla strade,
nel rumore, nel traffico,
tra l’amore e la morte,
lei nasconde la testa nelle spalle,
colpisce disperatamente con i pugni,
urla e grida nelle tenebre.
Non voglio vedere tutto questo, dice,
non riesco a sopportarlo, dentro.
Perché ho bisogno di tutta questa morte?
Dove dovrei metterla?

Dove mettere tutta questa morte?
Sulle spalle
come gli zingari con i bambini:
non piace a nessuno
e non gli piace nessuno.
C’è così poco amore,
e l’amore è fragilissimo.

Grida e fa a pezzi l’oscurità con le tue mani.
Grida ma non allontanarti da lui nemmeno di un passo.
Il mondo non sarai mai come era prima.
Non lasceremo che sia
come era un tempo.

Ci sono sempre meno finestre accese nella strada desolata.
Sempre meno persone che passeggiano
vicino alle vetrine dei negozi.
Campi e fiumi s’ingrossano nell’inferno di questa nebbia d’autunno.
I fuochi si spengono con la pioggia.
Le citta congelano di notte.

  • Versi molto crudi come la crudezza di una guerra. La paura della morte, il repentino cambiamento di vita che ha sottratto ogni elementare libertà con l’ansia costante delle micidiali stelle cadenti che in questo caso non hanno niente di bello. Un poeta combattente che usa la parola come arma di denuncia e lotta politica per l’indipendenza della sua terra. I missili potranno fermare le persone ma niente fermerà l’eco delle parole.

«Terza guerra mondiale a pezzi»papa Francesco.

*La stima del numero totale di vittime della PRIMA GUERRA MONDIALE non è determinabile con certezza e varia molto: il totale delle perdite causate dal conflitto si può stimare a più di 37 milioni, contando più di 16 milioni di morti e più di 20 milioni di feriti e mutilati, sia militari che civili, cifra che fa della “Grande Guerra” uno dei più sanguinosi conflitti della storia umana.

NAPOLI

*La stima del numero totale di vittime della seconda guerra mondiale non è determinabile con certezza e varia molto, ma le cifre più accertate e per cui tutti vanno più o meno d’accordo parlano di un totale, tra militari e civili, compreso tra 60 milioni e più di 68 milioni di morti.

Il paese con più morti in valore assoluto fu l’Unione Sovietica, mentre in rapporto alla popolazione fu Singapore con più di 28 abitanti su cento.

*Gli attentati dell’11 settembre 2001 furono una serie di quattro attacchi suicidi coordinati compiuti contro obiettivi civili e militari degli Stati Uniti d’America da un gruppo di terroristi appartenenti all’organizzazione terroristica Al Qaida. Gli attacchi causarono la morte di 2 977 persone (più 19 dirottatori) e il ferimento di oltre 6 000. Negli anni successivi si verificarono ulteriori decessi a causa di tumori e malattie respiratorie legate alle conseguenze degli attacchi. Per questi motivi, e per gli ingenti danni infrastrutturali causati, tali eventi sono spesso considerati dall’opinione pubblica come i più gravi attentati terroristici dell’età contemporanea.

*Guerra in Ucraina, 70mila soldati russi morti o feriti secondo il Pentagono. Secondo le stime fatte dagli Stati Uniti, sarebbero tra i 70.000 e gli 80.000 soldati russi morti o feriti, nella guerra contro l’Ucraina, cominciata il 27 febbraio scorso.

Sono oltre un milione i bambini in fuga dalle bombe russe in Ucraina. Bambini soli, spesso affidati ad amici, parenti ma anche a sconosciuti, come i soldati alla frontiera. Ma il nostro pianeta è ancora “infettato” da decine di conflitti aperti che continuano a uccidere e affamare milioni di persone di cui nessuno parla, probabilmente 59 conflitti dimenticati. Una delle prime che vengono in mente è la sanguinosa contesa dello stesso pezzo di terra tra Israele e Palestina, che va avanti ormai da decenni con milioni di morti e senza che mai si sia riusciti ad arrivare ad una negoziazione risolutiva. Poi c’è sicuramente la guerra in Afghanistan dove i talebani hanno riconquistato il potere quest’estate con il ritiro improvviso degli Stati Uniti dal Paese, in Nigeria, l’insieme di circa 250 gruppi etnici ha dato inizio, nel periodo post-coloniale, a decine di conflitti e guerriglie per il controllo di territori contesi, Siria, Etiopia e Yemen e tante altre. I motivi alla base dei conflitti possono essere i più svariati, ma sono perlopiù riconducibili ad alcuni fattori chiave:
possesso delle risorse e dell’energia
economia fiorente
pressione demografica
aspetti culturali
cambiamenti nel contesto e crisi

Un mondo senza pace…senza MEMORIA sebbene rispettiamo gli anniversari.

NON UCCIDETE!

È un grido si levò
dalla piena del sangue versato…
“Non uccidete!”
E un pianto
si levò dalla terra inzuppata…
” Pace, pietà…pace”
Il silenzio
calò dappertutto grigio sudario.

Imma Paradiso

C’ERA UNA VOLTA

Un tempo pioveva gocce benedette dal cielo, tanto aspettate e ben accolte da chi lavorava una terra ricca. Un tempo tutto sembrava più semplice e la vita era cadenzata dal naturale avvicendarsi delle stagioni. Un tempo tutti sembravano più tranquilli, sereni, pazienti verso sé stessi e gli altri e l’autunno erano i primi freddi, il ritorno a scuola, la vendemmia…un tempo.

Gocce di pioggia
bagnano l’anima,
inumidiscono il cuore,
inzuppano i pensieri…
È il cielo che piange
non sa dove guardare.
Un tempo accarezzava
campi coltivati con un
raggio di sole, faceva
risplendere il grano
e innaffiava il lavoro
dell’uomo, gocce benedette,
accolte con un sorriso stanco.
Un tempo razzolavano
nei cortili le galline
e i bambini si rincorrevano
con le cartelle sulle spalle.
E il cielo era libero
e i visi senz’ombra.
Un tempo quando
pioveva era solo
l’autunno e c’era
la zuppa calda in tavola.
E le braccia di chi
non c’è più…

Imma Paradiso

Francesco Gioli, Ritornando dalla Vendemmia, 1908 NAPOLI

Addio a sua maestà Elisabetta II d’Inghilterra

È ufficiale Regina Elisabetta II è deceduta oggi, giovedì 8 settembre 2022. Da questo pomeriggio le condizioni erano gravissime e adesso è arrivata la notizia.

NAPOLI

Si trovava nella sua residenza a Balmoral, l’annuncio ha colpito i sudditi come un fulmine a ciel sereno e ora, dopo momento drammatici che hanno tenuto il mondo con il fiato sospeso, abbiamo avuto la conferma. Addio alla sovrana che ha regnato per 70 anni, amata in tutto il mondo. Accanto a lei tutta la sua famiglia, i figli e i nipoti. Le condizioni di Elisabetta II si erano aggravate nelle ultime 48 ore, si è spenta nel castello di Balmoral, in Scozia. Migliaia i messaggi di cordoglio sui social. Il figlio Carlo diventa così Re. «London Bridge-Ponte di Londra» è il nome del piano che il Regno Unito mette in atto nel giorno della morte della regina Elisabetta II. Il premier britannico, in questo caso Liz Truss, appena entrata in carica, viene avvisato da un funzionario (Sir Christopher Geidt, suo segretario privato) attraverso una linea telefonica con queste parole: «London Bridge is down», «Il ponte di Londra è caduto». È il segnale in codice che la regina Elisabetta è morta. La camera ardente sarà a Holyroodhouse e la bara sarà successivamente portata nella cattedrale seguendo il percorso dell’antica via Royal Mile, nel cuore di Edimburgo. La bara della sovrana verrà poi trasportata a Londra a bordo del Royal Train. Dal Centro di risposta globale del Foreign Office, l’unità di crisi del ministero degli Esteri britannico, partirà un messaggio per i governi del Commonwealth, di cui la regina è capo di Stato. Poi saranno informati ambasciatori e primi ministri stranieri. Infine toccherà al resto del mondo essere messo al corrente. Nello stesso istante, un inserviente uscirà da una porta di Buckingham Palace, attraverserà il cortile e affiggerà sul cancello un avviso listato a lutto. Contemporaneamente, il sito web reale si trasformerà in un’unica pagina con quello stesso avviso su uno sfondo nero.

I poeti e la pace, l’uomo universo, cittadino del mondo.

Articolo 28

NAPOLI

Ogni individuo ha diritto ad un ordine sociale e internazionale nel quale i diritti e le libertà enunciati in questa Dichiarazione possono essere pienamente realizzati.

E’ il diritto umano alla pace: pace interna e pace internazionale, pace nella giustizia (opus iustitiae pax). La giustizia è quella dei diritti umani, cioè è anche giustizia sociale ed economica. La pace proclamata dall’Articolo 28 è, per seguire Norberto Bobbio, pace positiva, intesa come la costruzione di un sistema di istituzioni, di relazioni e di politiche di cooperazione all’insegna di: “se vuoi la pace, prepara la pace”. Il contrario della pace negativa, cioè della mera assenza di guerre guerreggiate, come parentesi tra una guerra e la successiva, da vivere preparandosi alla prossima guerra potenziando gli arsenali militari e coltivando sentimenti nazionalistici a difesa dell’interesse nazionale, da perseguire ovunque nel mondo e con ogni strumento, compresa appunto la guerra. Il ‘nuovo’ Diritto internazionale basato sulla Carta delle Nazioni Unite definisce la guerra come ‘flagello’, la ripudia e la interdice. L’uso della forza militare, per fini diversi da quelli tipici della guerra, dunque per fini di giustizia (difendere la vita delle popolazioni, salvaguardare l’ambiente e le infrastrutture vitali, acciuffare i presunti criminali e consegnarli ai tribunali internazionali, ecc.) è avocato all’ONU quale autorità sopranazionale, deputata a gestire il sistema di sicurezza internazionale. Ma la Carta, a quasi sette decenni dalla sua entrata in vigore, rimane inattuata per le parti più delicate: gli stati hanno l’obbligo di conferire parte delle loro forze militari, in via permanente, alle Nazioni Unite, ma finora nessuo di essi ha adempiuto a tale obbligo. Il cosmopolitismo è un indirizzo di pensiero che attribuisce a ciascun individuo la cittadinanza del mondo, ritenendo irrilevanti le distinzioni politiche, etniche, culturali o religiose tra le nazioni. Alla base del concetto vi è l’idea che tutti gli esseri umani sono uguali e godono degli stessi diritti, indipendentemente dallo Stato cui appartengono. Il cosmopolita riconosce come sua patria il mondo intero. Ormai la comunicazione globale ha avvicinato i popoli di tutta la terra, con scambio di tradizioni, usi e costumi, quindi l’idea cosmopolita dell’uomo cittadino del mondo è una realtà che dovrebbe rafforzare l’idea del diritto alla pace e alla convivenza civile ripudiando la guerra come soluzione di problemi.

Questa poesia di Jorge è la somma dell’intera sua vita e un alto messaggio di fratellanza e di umiltà.

Sono l’uomo universo, Jorge Carrera Andrade

Sono l’uomo universo
Io sono l’abitante delle pietre senza memoria, sete d’ombra verde;
il popolano di tutti i villaggi e delle prodigiose capitali;
sono l’uomo universo, marinaio di tutte le finestre della terra stordita dai motori.
Sono l’uomo di Tokyo che si nutre di pesciolini e bambù,
il minatore d’Europa, fratello della notte;
l’operaio del Congo e della spiaggia, il pescatore della Polinesia,
sono l’indio d’America, il meticcio, il giallo, il nero:
io sono tutti gli uomini.
Sopra il mio cuore firmano le genti un patto eterno
di vera pace e fraternità.

*Io sono tutti gli uomini, quelli semplici, umili che vogliono lavorare e vivere in armonia con la loro terra. È una realtà, quello che fa paura è l’ignoranza ma basta avere una mente aperta e vedere nella diversità solo l’opportunità di conoscere e imparare. Forse questa è la strada verso la pace universale così ben espressa nei bellissimi versi di Andrade.