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Ha suscitato critiche positive e qualche altra (ma in sordina) negative il quindicesimo film del regista turco Ferzan “Diamanti” .Già il titolo è “fuorviante” perché non ci sono le note pietre preziose ma “Donne” ad essere appellate con questo nome. Sono donne degli anni 70 che costituiscono un gruppo o meglio “una comunità” alle dipendenze delle titolari, della sartoria Canova, Alberta e Gabriella. Altro espediente di curiosità è il vedere ,a inizio film, il regista che dialoga con le attrici scelte per le varie parti ,spiegando loro le sue motivazioni per la realizzazione della storia. Un espediente che già Pirandello con il suo Metateatro “o prima di lui Shakespeare o Goldoni aveva sperimentato per smascherare l’artificio che si nasconde dietro una rappresentazione.
trama elementi convincenti e difetti
La storia narrata tratta appunto di due sorelle proprietarie della sartoria Canova di Roma caratterizzate dal diverso temperamento; Alberta (alias Luisa Ranieri), forte e determinata che rivela per un momento la sua fragilità quando rivede dopo molti anni il suo grande amore ,dal quale è stata abbandonata senza una valida motivazione e che le ha lasciato una profonda ferita e Gabriella (alias Jasmine Trinca) che appare indecisa, più incline a dare spazio alle dipendenti e depressa , tanto da essere diventata una alcolizzata : una tristezza che scopriremo nasconde il dolore mai superato della morte della figlioletta.
A dare uno scossone al lavoro della sartoria sarà l’arrivo di Bianca Vega ,premiata costumista che chiede la realizzazione di un costume per la protagonista di un film che subito appare essere un lavoro di ingegno, di sensibilità femminile, di interpretazione. Bianca non è mai soddisfatta perché (lo scopriremo poi) non è in fondo soddisfatta e sicura di se stessa.
Ad intrecciarsi a volte con le due titolari sono le storie, mai svincolate dalla comunità sartoriale, di alcune dipendenti ,alle prese con la violenza maschile, con l’abbandono, le difficoltà economiche, la voglia di relazioni amorose, la ribellione…in modo da fornire una rapida panoramica dell’universo femminile che tuttavia, a prescindere dalle delusioni e dalle difficoltà ,non appare mai perdente, in quanto ognuna saprà mettere in campo ,magari con l’aiuto delle altre, strategie volte al superamento degli ostacoli.
Una trama ,quella di Diamanti, che può ricordare fiction televisive come “Il paradiso delle signore “o “il bello delle donne” ma che sembra qui aver trovato una chiave vincente forse anche grazie ad interpretazioni degne di plauso come quella di Luisa Ranieri ,di Jasmine Trinca ma anche di Mara Venier ( artista decaduta che fa la cuoca nell’atelier) o di Kasia Smutniak (boriosa attrice di cinema ) in contrasto con un’altra cliente attrice di teatro, la convincente Carla Signoris( Alida Borghese) di Vanessa Scalera(Bianca Vega) e di tutte le altre , che hanno saputo ben calibrare e rendere credibili i loro personaggi .
L’espediente iniziale di Ferzan Özpetek di introdurci in qualità di spettatori e farci incontrar e le attrici ritorna in mezzo al film e,a nostro parere, rompe la continuità della storia ,riportandoci alla consapevolezza della “finzione/realtà della proiezione cinematografica, anche se Elena Ricci,che si era autoesonerata dalla partecipazione al cast ,per impegni improrogabili, ci ricorda nella sua apparizione in finale che “ La magia del Cinema non sta in quello che si vede, ma in quello che si sente”.
Proprio per questo ,a nostro avviso, la presenza del regista doveva essere nascosta piuttosto che palesata ,come quella delle attrici interpreti ma come detto , Pirandello ha fatto scuola ed è stato grande anche per la rottura degli schemi.
La conoscenza dell’animo femminile e il suo prendere le parti delle donne sono stati senza dubbio cavalli vincenti, unitamente alla magistrale Luisa Ranieri
Spettacolare poi la realizzazione finale ,a sorpresa della stessa stilista ,dell’abito rosso ,foderato di crinolina nera; un capolavoro della sartoria italiana.
La critica ufficiale del resto ha tributato al film riconoscimenti come;
Claudio Amendola è il patriarca nella serie televisiva omonima dela quale è anche regista e che consta di 12 puntate divise in due serie andate in onda nel 2023 e nel dicembre 2024 .
E’ la storia di un narcotrafficante, Nemo Banderas, conosciuto come “Il patriarca “ che detiene il potere a Levante, fantomatica città salentina e che nasconde i suoi trafic dietro l’azienda ittica “Deep sea” ereditata dal suocero. Vive con la moglie Serena e i figli Carlo e Nina, entrambi ,per motivi diversi, disinteressati all’azienda ittica e ai traffici del padre: Nemo .verso i 60 anni,si accorge di essere affetto da Alzheimer e si trova a dover trovare un degno erede a cui lasciare tutto: oltre ai figli legittimi c’è Lara, figlia avuta da una relazione prematrimoniale ma che è del tutto contraria ai loschi traffici paterni e Mario, aitante vvocato e figlioccio di Nemo che, vedendosi tagliato fuori,non esiterà a uccidere Carlo e a sposare Nina per avvicinarsi all’agognata eredità.
Oltre alla malattia,c’è un nemico che insidia il potere del Patriarca che è un altro boss mafioso: Raoul Morabito,marito della cognata e che tenderà tranelli vari sfruttando anche la simpatia sorta tra Nina e il figlio di lui Daniel o l’amore di Nemo per Lara per metter in scacco il rivale che benchè uomo di pochi scrupoli ,nutre un grande amore per i suoi familiari che riuscirà a mettere in salvo.
La storia familiare di Nemo si intreccia con quella di alcuni componenti delle forze dell’ordine ,che non sempre appaiono dalla parte della giustizia e che come in tante occasioni ,superano il limite del loro dovere.
Quello che colpisce in questa storia,oltre all’apprezzabile interpretazione di Claudio Amendola e degli altri personaggi ,che risultano essere veritieri e credibili, è l’essere una storia d’azione verosimile in quanto purtroppo dietro apparenze più che rispettabili si celano spesso personaggi della malavita,supportati anche da forze dell’ordine come Monterosso o da politici.Anzi,gli stessi politici come nella storia accade per il sindaco di Levante,l’avvocatessa Elisa Giorgi,ex amante di Mario sono dei malavitosi.
Una storia dunque che si articola tra amori ,passioni, colpi di scena ,traffici, politica, affari… in un intreccio che intriga e che ci rende partecipi e sostenitori di questo o di quel personaggio di cui si apprezza il lato più vicino al nostro sentire.Nessuno di loro è infatti monocorde:s ono tutti o quasi deprecabili ma al tempo stesso vulnerabili negli affetti come la ribelle Nina quando si sente trascurata dal padre a vantaggio della sorellastra Lara o dal marito Mario,innamorato di Lara, o lo stesso Mario,spietato ma teneramente innamorato di Lara per la quale mette a rischio la vita…Lo stesso ispettore Monterosso che cede alla lusinga del successo nella cattura di Nemo ma che si “allea” poi con lui riconoscendone la capacità e che si innamora di Lara o ancora lo stesso Nemo, pronto a tutto pur di salvaguardare la propria famiglia e reso tanto fragile da una malattia che rende tutti vittime di se stessi prima che degli altri
Colpisce ancora una volta,se possibile, la duplicità del male che fa dei suoi protagonisti personaggi da “giustificare” e da “tifare” per la loro salvezza.Fa riflettere
Montale è poeta del “male di vivere “ che spesso ci attanaglia e la cui cura è costituita forse davvero dalla “divina indifferenza” come lo stesso poeta ebbe a suggerire nella sua celebre lirica “Spesso il male di vivere..”
Nella lirica che segue abbiamo trovato molti degli elementi che caratterizzano la sua produzione poetica,una delle più significative del 900.
Sul muro grafito
Sul muro grafito che adombra i sedili rari l’arco del cielo appare finito. Chi si ricorda più del fuoco ch’arse impetuoso nelle vene del mondo; in un riposo freddo le forme, opache, sono sparse.
Rivedrò domani le banchine se la muraglia e l’usata strada nel futuro che s’apre le mattine sono ancorate come barche in rada.
In questa breve lirica contenuta nella raccolta “Ossi di seppia”torna,come correlativo oggettivo, già noto ad esempio nella famosa poesia “Meriggiare pallido e assorto ”il muro , chiamato qui “muraglia” ad accentuarne la funzione di ostacolo, di chiusura nemica, quasi un dispregiativo del sostantivo muro.
Ci suggerisce dunque il senso del contrasto, della guerra,della minaccia.E’ un muro che si presenta inciso,graffiato,scarificato:forse intenzionalmente o forse solo per spregio .In qualunque modo crea la suggestione di un muro “umanizzato” a simbolo del tentativo di superare quel muro, renderlo assoggettato a sé o cercare di dimostrare la propria capacità di trasformarlo :esso può dunque diventare correlativo anche dell’animo umano ,delle sue ferite e incisioni lasciate dal tempo e dagli eventi. Quel muro è il tentativo puerile di superare certe situazioni di angoscia e limitatezza che Montale ha ben delineato nella sua poetica.
Al riparo del muro ,qualche rara panca e al di sopra di esso, l’arco del cielo che appare limitato, come lo è tutto al di sotto come una chiusura ancora anche all’idea dell’eterno e dell’infinito che il cielo dovrebbe rappresentare.
La negatività di questi primi versi si accentua nel grido, esclamazione /domanda di quando era animato lui e il mondo intorno dalla passione, dalla voglia di vita che si è spenta oramai e la prospettiva prossima, il futuro, è solo quella della quiete spenta ed incolore delle cose e del suo sentire senza più vitalità ed ecco perché l’arco del cielo pare finito. Esso stesso era simbolo di speranza,di futuro, di orizzonte lontano :”era” ma non lo è più.
Il futuro(domani) sarà la ripresa stanca delle abitudini : e come le banchine del porto dove si caricano e scaricano merci e sostano i passeggeri egli sarà lì seduto, “ancorato” come le barche in rada: fatte per viaggiare ma ora obbligate all’immobilità :anche Montale ,ostacolato dal muro è destinato a sostare, restando seduto, ad osservare la vita senza viverla davvero.
Il muro dunque come già nella lirica “Limen” o limite potrebbe anche significare soglia e dunque,passaggio ma in Montale la ricerca di una via di fuga o di scavalcamento o aggiramento del muro è fallimentare a meno che uno sbaglio di natura come dirà nella lirica “i limoni” ci permetterà di trovare una “maglia rotta” ma sarà solo un’epifania perché come poi dirà in “Non chiederci parola” ,l’ombra sul muro ci riporta al senso negativo ,fors’anche di morte, del
Subito quei versi asciutti,privi di qualunque retorica o virtuosismo linguistico colpiscono come
Sentenze capaci di dare pena senza aver commesso colpa e per questo ,ancora più terribili perché ingiuste.
Ci chiediamo ,quando capita un evento doloroso:” perché io ?” rifiutando irrazionalmente il destino che spesso razionale non è e che ci colpisce senza alcun preavviso e ci toglie qualcosa che “di Diritto “ sentivamo già nostro possesso: è quanto accade a chi ha in grembo una parte del proprio Io e non ne accetta la perdita. O meglio: la accetta ma rimane come tramortito da un qualcosa che appare fuori natura. E allora quasi l’abulia a tutto “possiedo giorni che non sono giorni/piuttosto un ventaglio con cui fare /i conti; tane per nascondersi/buchi da riempire…” e quel martellare di versi franti, come un diario ,un quaderno di appunti dove scrivere i pensieri che transitano per la mente,senza dar loro un titolo e, dunque ,una collocazione mentale ordinata . Ma del resto, l’ordine è raziocinio, inquadratura di qualcosa che si metabolizza e Baglione si sente invece spezzata, disorganizzata perché rimasta nell’animo quella che in realtà non è più pur essendo “Madre “.
Si è madri infatti pur non avendo un figlio o non avendolo più avendolo avuto nel grembo e perduto come è accaduto a lei,che già aveva nel cuore e negli occhi il suo bambino, come parte integrante e completiva del suo Io. Un Io che fatica ora a riconoscersi ,perché in qualche modo mutilato, cambiato e allora il suo dolore ha bisogno di esternarsi nella poesia per farne cosa “altra” da se stessa e materializzandolo, renderlo accettabile e stemperarlo…”voglio adottarmi intera,/imparare a tremare/vedermi unita,mai più separata/un pezzo a destra,l’altro/ a sinistra-combattuta/pure di me stessa.Accogliere la paura/,fiorire in trasparenza /voglio smettere di morire/ un po’ alla volta.
Forse un figlio significa per l’autrice anche un vedersi vivere attraverso una vita nuova ,incontaminata eppure derivante e connessa con la sua: sensazioni che molte donne, nate madri ,provano: già perché come detto, madri si diventa, certo, ma lo si è già prima di diventarlo davvero perché è un tuo modo di essere, di sentirti donna, alveo e grembo di vita. E se poi nutri dentro di te un essere destinato a diventare occhi,mani,piedi e carne, questa vocazione diventa concreta e segna il percorso esistenziale ,tanto da far dire all’autrice;”Madre che resta”.
Colpisce dei suoi versi,anche quel concretizzarsi in porzioni ,parti anatomiche; ti immagini,figlio caro,/con quali braccia,occhi/gambe ,cuore ,io lo sarei stata(madre)perché amare significa anche corpo:quel corpo che prima è culla e che poi si fa parte integrante del rapporto madre-figlio per esternare tutta quella tenerezza che si ha dentro.
Ogni poesia è legame con la natura e con una presenza mai dimenticata e che si fa emblema stesso di tutte le perdite; ogni poesia,breve ma incisiva, è lacrima che sorge dentro e che si fa portavoce di un dolore “tutto femminile” per come è qui cantato e che non può non colpire,come uno schiaffo, ogni donna che legga i versi di Patrizia che conclude e dice”abiteremo il pianto /noi mai più divisi / vivremo sotto alberi /di cedro…
Una silloge particolare,sia nel filo conduttore ,sia nella scelta linguistica con frasi che dicono oltre la parola scritta perché sottintendono molto altro lasciato alla sensibilità di chi legge
La raccolta di poesie “Sillabe antiche sottratte al silenzio” edizioni Luoghinteriori di Nicola Caldarone si pone come pregevole testimonianza di vita di un poeta che sa guardare con l’esperienza acquisita nel tempo di educatore e di uomo di cultura gli aspetti comuni della quotidianità e del proprio io assurgendoli a poesia: ne derivano liriche che vogliono essere consigli, riflessioni, descrizioni ma anche domande irrisolte, dubbi e lacerazioni proprie di chi vive con la sensibilità estrema che la vera poesia comporta. La poesia è infatti scavo interiore, sguardo profondo e mai pago della realtà e della contemporanea vita convulsa che appare sempre più distante da certi ideali e principi e dove le nuove generazioni sembrano essere poco inclini a rispettare gli insegnamenti impartiti loro.
Ecco allora poesie come “il mestiere di padre “( Pg 30 ) dove c’è l’amarezza per un affetto filiale sentito come fragile e debole rispetto ad un agire improntato alla trasmissione di amore e di insegnamenti, anche attraverso il sacrificio di certe scelte tanto difficili da far attribuire al ruolo genitoriale il termine di “mestiere” ;A cose fatte/ non credo/ di riuscire più a dare anima / a parole di filiale affetto/per colorare i ricordi /legati al mestiere di padre…o “Consigli per chi medita scelleratezze (pg 31) dove lapoesia si fa invito accorato a meditare sulle proprie intenzioni malevole ”Se vai meditando scelleratezze/ se progetti di dover uccidere o rapire/osserva negli occhi chiari di tuo figlio…/oppure ..”osserva gli occhi del primo bambino …” o ancora ;osserva il cielo ..considera le tue mani e il loro tendere naturale/ a sfiorare teneramente la fragile corolla “o “in fretta e furia”( Pag 17) ° ancora “L’uomo”( Pag 23) dove la disillusione per aver creduto l’uomo un essere superiore si fa dolente constatazione “Io sento di dover concludere che quest’uomo (di cui sono state ampiamente illustrate le prerogative e potenzialità) /ultima sortita di un atto divino/ignora di essere l’ultimo di tutti gli esseri creati /di essere dietro a quel verme che striscia e divora polvere e rifiuti .
In questa prima sezione delle tre in cui viene suddivisa la silloge dunque, che si apre con poesie sul ruolo stesso della poesia, ritenuta mezzo capace di dare ascolto e voce alla più nascosta meraviglia della natura ma anche all’indecifrabile anima umana, si nota l’avvicendarsi di temi legati perlopiù all’amarezza di certe situazioni e stili di vita che non corrispondono a valori in cui si è cresciuti e si crede tuttora. Continua, Nicola Caldarone, con uno stile a volte prosastico a volte quasi ermetico la sua disamina sulla vita, sulle cose e le persone che cambiano, sulla difficile situazione di guerra e sopraffazione, quando le stesse regole astronomiche o climatiche paiono impazzire nel caos totale del mondo. Ecco allora liriche “Come rondine “ ( pg 37)dove l’amarezza è la chiusa di una poesia fatta di respiri e di voglia di volo “Storia passata anche tu sarai/e solo ricordo per i sopravvissuti” o la lunga lirica “Questa vita “ dove la conclusione della vita diventa per il poeta fuga da una realtà invivibile pur manifestando l’attaccamento alla terra che si conosce, seppure nel suo stravolgimento, anche se in”Requiem per il big bang” c’era la fede in Dio, come unico punto fermo di tanta instabilità di opinioni e pareri anche scientifici. Sembra rifarsi a Pirandello ,il poeta, nella variabilità di ogni certezza ma anche a Montale, nel suo guardare smarrito una vita che appare senza svolta, senza approdi senza “varchi” di salvezza.
Nella terza parte, riservata alle dediche, si celebra l’amore, come elemento salvifico (e qui ritorna un eco montaliano) idealizzato in una figura femminile forse reale o forse solo vagheggiata(“Prodigi della natura “ e “Dichiarazione demodèè Pag 54 e 56 o” Nostalgia”) e l’amore per la sua città”,A Cortona1”(pg 59)”dove ..ogni cosa in tua presenza/può vantare leggiadrie;/il sole il vento la pioggia/la tua pietra serena e cenerina o ancora in” A Cortona 2” (pag 60) “contempla il tramonto/con la sua valle profondissima/rapita nel mistero di un miracolo…Dove la sua città ,posta sulla sommità di una collina domina una vallata che si veste di colori e genera la sensazione di un paesaggio fiabesco, capace di apparire quasi un miracolo. Qui come nelle liriche “A Cortona 3 da piazzale Garibaldi (pg 61 )o “Alla Valdichiana “ si raggiunge un alto livello di poeticità nelle metafore e nelle sinestesie e in pochi versi nasce un rimando e una suggestione che ci fa pensare ai poeti francesi del primo 900.
Altre liriche vengono dedicate ad un attore come Vittorio Mezzogiorno o al pittore Primo Conti per celebrarne la scomparsa o meglio il lascito morale o ancora a figure storiche come Teognide o Filemone dove si colgono massime di vita, come a ribadire un senso civile ed etico del vivere ed infine “C’era una volta il tempo” Pg 71 che chiude la silloge dove c’è il rammarico per un tempo in cui si riusciva ad organizzare il da farsi ,mentre ora è tutto affidato alla fretta e tutto appare provvisorio “oggi manca il tempo per la programmazione / e può l’ordine del giorno incepparsi all’improvviso / e sacrificare nelle migliori delle ipotesi/le immancabili “varie ed eventuali”.
Una silloge dunque che può essere considerata ,come si evince dal titolo :”Sillabe antiche sottratte al silenzio” la confessione di un poeta la cui umanità e il cui senso etico e morale della vita si è scontrato con una realtà troppo rumorosa e caotica per sentirsi a proprio agio e il cui rimpianto per il tempo passato è causato sia dal consumarsi della vita ma anche dal cambiamento a cui si assiste, alla perdita di valori e di affetti e alla negazione, attraverso la poesia ,del silenzio che rischia di farci perdere la cognizione del bene e del male.
Caldarone scrive senza preamboli o giri di parole ; la sua è una poesia, per dirla con il termine di Saba, “onesta”, sia perché denuncia i mali del secolo sia perché canta i sentimenti più intimi e segreti dell’animo umano e lo fa in modo schietto e sincero senza trascurare la scelta di termini a volte precisi e a volte evocativi ma sempre capaci di comunicare la lettore riflessioni ,visioni, giudizi .
Concludendo una silloge che riflette lo spessore culturale e linguistico del suo autore, esimio letterato, insegnante, ,saggista ,critico , autore di numerosi saggi ,romanzi e raccolte di poesie e insignito di prestigiosi riconoscimenti.
L’emancipazione femminile ha affrontato sfide e superato spesso gli stereotipi che vedevano la donna atta al focolare domestico o dedita all’insegnamento o ad un impiego e ancora oggi certe riserve non sono state del tutto superate .Di certo nel 1901 la posizione della donna nella società era quella dell’emarginazione o al massimo della intrattenitrice di salotto o dell’addetta a lavori di riserva. Ma la protagonista di “Le formidabile donne del Grand Hotel” Wilhelmina Skogh fa cambiare radicalmente il punto di vista riuscendo con altre coraggiose compagne di lotta, a ristabilire l’equilibrio del Gran Hotel, caduto ,prima del suo intervento , irrimediabilmente in rovina. Siamo a Oslo ,in una fredda sera d’inverno e ai piani bassi del grand Hotel si celebra l’assegnazione del premio Nobel, del tutto ignari della situazione economica della location, vanto della corona svedese e simbolo stesso della città.
Wilhelmina Skogh è già nota per le sue doti imprenditoriali ,essendo riuscita con le sue sole forze a dare vita da una catena di hotel di successo nel paese Ma è una donna e questo la rende agli occhi di molti inadatta ,tanto che seguono alla sua direzione una serie di licenziamenti da parte del personale maschile che reputa intollerabile essere diretto da una donna .Lei non si scoraggia e assume un gruppo donne “formidabili” per voglia di farsi strada e cerarsi un’indipendenza economica e farà così risorgere a nuova vita l’Hotel
Interessante riscoprire la vita e gli stili della società del periodo e la storia delle donne che entrano a far parte del personale dell’hotel, ognuna con le sue peculiarità; pregi e difetti ma che sono accomunate dalla volontà di fare qualcosa di importante che supera le discordie e le inimicizie.Accanto a loro altre donne e nobildonne arroganti e saccenti ,in un alternarsi di sfaccetature e di tipologie femminili
Un romanzo di quasi 500 pagine che è epopea di un sodalizio tra donne destinato a essere un esempio di resilienza e fiducia nel futuro che fa bene alle donne di tutte le generazioni,anche perché è ispirato ad una storia realmente accaduta
Cosa può far uscire dal gorgo dell’abbrutimento e dell’estraneità al mondo “civile”? Per l’autrice di “Cuore nero” Silvia Avallone è in primo luogo la cultura e poi l’amore.
La sua protagonista Emilia,è una giovane donna che ha trascorso quasi metà dei suoi anni in un carcere minorile per aver commesso un reato che fino all’ultimo non sarà delineato. Se in carcere era riuscita a farsi amicizie e in qualche modo ad adattarsi alla vita scandita da regole tra detenute e quelle istituzionali ,tra orari e addirittura a studiare, grazie all’aiuto di una dirigente dell’Istituto ,fuori si sente davvero un’’emarginata che porta addosso il marchio della sua infamia. Eppure Emilia ha avuto una famiglia regolare con un padre amorevole che ,nonostante tutto, le vuole bene e ha fiducia in lei ; ne accetta anche la decisione di andare a vivere a Sassaia ,una sperduta frazione in una casa fuori del nucleo abitato che una zia defunta ha lasciato in eredità. Sola e in un posto isolato potrà leccarsi le ferite e ricomporre forse la sua identità. Qui fa un incontro inaspettato: quello con Bruno ,un insegnante elementare che vive nell’unica casa vicina e che ha un passato tragico da dimenticare seppure per motivi indipendenti dalle sue azioni. Due anime inquiete e disperate che si incontrano e si piacciono al punto tale di innamorarsi. Emilia poi ,trova da fare l’unica cosa che le è sempre piaciuta : restaurare un affresco della chiesetta di Sassaia .
Ma quel passato torna a spezzare quel nuovo cammino dato alla vita e il rapporto tra i due si interrompe bruscamente: Bruno che non ha mai chiesto niente alla donna viene a sapere il suo segreto e si sente tradito e incapace di accettarlo. Quale sarà l’epilogo? La cultura e l’amore saranno collanti sufficienti a ricomporre l’esistenza di Emilia?
Il racconto si snoda con sequenze descrittive,dialogiche e narrative attraverso una duplice narrazione :quella di Bruno e di Emilia per cui non è facile per il lettore mettersi dalla parte dell’uno o dell’altra e solo la propria esperienza personale e i propri punti di vista possono essere il timone per decidere da che parte stare. Anche il tipo di linguaggio utilizzato è in linea con i personaggi ;Emilia si esprime in modo crudo, sguaiato, irriverente ;Bruno è più moderato e corretto ,come si addice da un insegnante anche se non ci parla più di tanto del suo lavoro.
In questa breve poesia c’è racchiuso lo smarrimento di un’anima che si sente in sintonia con la natura la cui inquietudine (sussultante cielo) è umanizzata tanto che il cielo sussulta come in un singhiozzo represso; è malato (e anche l’amore infelice è la malattia del cuore) e le nuvole nere non sono certo previsione di un ritorno alla quiete( si profila il timore di una mancata soluzione alla pena). Gli spazzi di luce che lampeggiano vividi interrompendo il buio acuiscono il senso angoscioso e sono simili alla lama ,un qualcosa che ferisce, che colpisce (lama d’acciaio sul desiderio insoddisfatto che non si placa) sul desiderio che non ha mai riposo.
Qui possiamo trovare analogie con Saffo ,quando la poetessa ci parla della sua veglia infelice sognando l’amante …
Scuote l’anima mia Eros, come vento sul monte che irrompe entro le querce; e scioglie le membra e le agita, dolce amara indomabile belva.
Ma a me non ape, non miele; e soffro e desidero
Ma anche con Pascoli,quando nel”lampo ”crea una visione drammatica in un climax crescente e disegna un bozzetto di suoni e colori per esplicitare il suo stato d’animo angosciato …
E cielo e terra si mostrò qual era:
la terra ansante, livida, in sussulto; il cielo ingombro, tragico, disfatto: bianca bianca nel tacito tumulto una casa apparì sparì d’un tratto; come un occhio, che, largo, esterrefatto, s’aprì si chiuse, nella notte nera.
Antonia Pozzi è fanciulla che fa dell’amore il suo filo conduttore,la sua stessa ragione d’esistere e quando questo amore mancato è troppo per lei che non trova ragione valida d’esistere,deciderà di suicidarsi.
Fin dai primi anni del liceo la giovane subisce il fascino del suo professore di greco e latino Antonio Maria Cervi che, non bello né particolare ,ha tuttavia una grande cultura e un modo coinvolgente di spiegare: il suo amore per la cultura ,l’arte, la poesia lo rendono straordinariamente vicino ad Antonia ,il cui animo sensibilissimo avverte altresì il dolore che si cela dietro il suo sguardo. Lei si innamorerà perdutamente di quest’uomo che tuttavia non avrà il coraggio di difendere il loro amore quando il padre di lei si opporrà fermamente a questa relazione. Nonostante apparentemente riprenda un iter di vita normale, dopo il trauma della separazione, Antonia porterà per sempre la ferita di quest’amore troppo grande e sofferto per diventare cicatrice e deciderà di togliersi la vita a soli 26 anni .
Ci restano di lei poesie struggenti dove la natura, specie quella di Pasturo (Lecco) si fa voce dell’anima nel rappresentare i suoi sentimenti e pensieri
“Satura” è la raccolta poetica di Montale il cui titolo deriva dal latino “Satura lanx” ovvero piatto pieno di cibo che spesso era dono votivo per gli dei in cui si trova la sezione “Xenia” parola che significa le offerte ai defunti. Qui compare la poesia “Ho sceso,dandoti il braccio,almeno unmilione di scale “il cui titolo è riconducibile dunque a due motivazioni che sono l’invocazione al divino e l’offerta poetica alla deceduta.moglie, Drusilla Tanzi .
La poesia di Montale è davvero una lirica che vuol essere ,con un linguaggio semplice eppure altamente evocativo, un ‘offerta ,un dono che celebri la figura della donna amata ,anch’essa un dono, senza tuttavia delinearla in modo concreto.
Versi che raccontano la quotidianità
Già nell’incipit della poesia , si trova una qualità imprescindibile della donna: quella di far scendere e dunque riportare alla realtà un sognatore, un uomo che non sa o non vuole ancorarsi alla realtà e che ha sempre quel senso di vuoto che lo caratterizza.
Quel braccio offerto in sostegno alla moglie sarà in realtà un appoggio per le fragilità del poeta e quell’iperbole “almeno un milione di scale “vuol da subito sottolineare una ripetitività di occasioni di vita che necessitano di un sostegno, di un amore che lo aiuti nel suo percorso esistenziale.
Un viaggio a due che ,come dice con un ossimoro, forse è stato lungo ma il tempo è relativo e può essere breve se lo si vive con il piacere e la necessità della condivisione
Il vuoto esistenziale
La fragilità del poeta si rivela nella sua interezza ora che è più che mai consapevole che la realtà non è fatta di impegni , di lavoro, di orari e di sconfitte perché c’è una realtà interiore che sfugge alle prenotazioni e allo scandire degli incarichi da svolgere che, comunque, la donna gli ricordava ,tenendolo ancorato alla concretezza .
E’ quel vuoto ,quel male di vivere che riaffiora in Montale ora che è privo della sua ancora di salvezza a cui si stava aggrappato .E lo scendere ora, appare un miraggio che il poeta ripete, quasi a creare un’invocazione o un grido di dolore per quella quotidianità così banale eppure così essenziale.
Il saper guardare della donna
In questi endecasillabi liberi il poeta ci ricorda che non è il “vedere la realtà “ che è importante ma il saper guardare a fondo ,tanto è vero che non era poi così importante che lui guardasse gli scalini dove posare i piedi per aiutare la donna, quanto fosse lei, benchè assai debole di vista, a vedere oltre quello che appare e a costituire quindi la sua luce e la sua vista.
Conclusione
Questa lirica,diventata una delle più celebri del poeta premio Nobel, ci fa capire il ruolo evocativo della poesia dove oltre alla concretezza di oggetti, luoghi o persone, il messaggio simbolico ci porta ad ampliare la situazione descritta diventando paradigma del percorso esistenziale, spesso apparentemente dipendente dagli impegni lavorativi e da smanie di successo mentre in realtà dovremmo interrogarci sul senso della vita vera e sulla morte, che nella nostra società laica finisce per assumere la connotazione di un evento senza risvolti.
Il fatto che Montale chiami la sua raccolta Xenia ci ricorda la fiducia degli antichi nell’esistenza ultraterrena e sul fatto che il dono possa in qualche modo rappresentare un elemento di continuità tra i vivi e i morti.
E’altresì una delle più belle dichiarazioni d’amore in poesia che .pur non ricorrendo a frasi e a temi usuali, ci fa capire quanto la presenza di una donna. di cui non si presentano lusinghe estetiche, sia stata fondamentale per il poeta e il gesto di scendere insieme le scale nasconde una potente intimità elettiva e un amore oltre, appunto, la fisicità che può ,con il tempo, venire a mancare.
Ho sceso,dandoti il braccio,almeno un milione di scale
Ho sceso,dandoti il braccio, almeno un milione di scale e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino. Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio. Il mio dura tuttora, né più mi occorrono le coincidenze, le prenotazioni, le trappole, gli scorni di chi crede che la realtà sia quella che si vede. Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio non già perché con quattr’occhi forse si vede di più. Con te le ho scese perché sapevo che di noi due le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate, erano le tue.
“Amato Mare” di Alma Bigonzoni è una poesia che trasuda l’amore e la connessione profonda con il mare, portando i lettori in un viaggio emozionale attraverso la bellezza e la magia dell’oceano.
Recensione: ”Amato Mare” di Alma Bigonzoni, a cura di Alessandria today
La poesia si apre con un’immagine maestosa dell’infinito, dove il cielo e il mare si fondono all’orizzonte. L’autrice invita i lettori a osservare questo spettacolo affascinante, dove i pensieri vagano in perfetta sintonia con le onde che si infrangono sulla spiaggia silenziosa. L’atmosfera è rilassante e coinvolgente, e il mare diventa un’entità viva, in grado di accogliere i sogni dei viaggiatori e le emozioni di chiunque si avvicini alla sua maestosità.
La poesia è intrisa di immagini suggestive che catturano i sensi. Il vento sussurra tra i capelli dell’autrice, avvolgendola in una coccola di brezza marina. Le descrizioni dei colori accesi e sfumati del tramonto evocano una sensazione di magia e promessa di un “infinito ritorno”, dando vita a un’atmosfera di speranza e rinnovamento.
L’uso del senso del gusto, con il “sapore del sale che penetra nella pelle”, aggiunge una dimensione sensoriale alla poesia, invitando i lettori a immergersi ancora di più nell’esperienza marina.
Il cuore dell’autrice sembra vibrare in armonia con l’oceano, e i suoi sentimenti si esprimono attraverso un “melodico canto” che rivela un amore profondo e silente per il mare. La poesia si conclude con questa dichiarazione di affetto, un tributo poetico all’infinita bellezza e ispirazione che il mare dona.
Il linguaggio poetico utilizzato da Alma Bigonzoni è delicato e melodico, e le parole si susseguono con grazia e fluidità. La poesia è ricca di immagini evocative e metafore ben collocate, che aggiungono profondità e significato al testo.
In conclusione, “Amato Mare” è una poesia che abbraccia l’anima dei lettori, immergendoli nella poesia del mare e della natura. L’autrice dipinge un quadro di bellezza e serenità, comunicando l’amore e l’affinità con questo elemento primordiale. Una lettura che nutre l’animo e lascia un’eco di meraviglia e contemplazione.
Amato mare, di Alma Bigonzoni Osservo l’infinito in lontananza, dove cielo sfiora il mare e si fonde, lascio che i pensieri vaghino in sintonia con le onde. Si infrangono sulla spiaggia silenziosa i sogni e la bianca sabbia li accoglie. Il vento sussurra tra i miei capelli e mi avvolge cullandomi con la sua brezza. Lo sguardo si posa sulla diversità dei colori accesi, sfumati del tramonto, al profumo di una promessa di un infinito ritorno. Il sapore del sale penetra nella pelle, scoprendo sensazioni profonde come l’oceano. Dalle labbra fuoriesce un melodico canto che tocca il mio cuore, non posso fare a meno di cantare al mio amato mare il mio silente amore.
Antonio Padovano, autore prolifico e di rara qualità, con questa commedia ci riporta magistralmente in un mondo contadino di primo acchito meridionale, ma in realtà appartenente a ogni angolo d’Italia decenni e decenni fa. È un tuffo nel passato che fa bene al cuore e alla mente. È la testimonianza di come eravamo noi tutti, di come erano tutti gli italiani, sfruttati e sfruttatori, schiavi e signori. Questo mio commento potrà sembrare ad alcuni celebrativo ed elogiativo, ma queste mie parole sono state tutte soppesate e non sono altro che un semplice atto di stima nei confronti di un autore, che non si è mai venduto, che è sempre riuscito a mantenere fedele a sé stesso, pur rinnovandosi sempre e non esaurendo mai la sua vena creativa. La scena è unica. Tutto inizia con nove zappatori, ma non tutti prenderanno la parola. Padovano con quest’opera dà parola agli umili, agli umiliati e gli offesi. Non si perde in preamboli. I dialoghi sono fitti e si leggono tutti d’un fiato. L’opera è emozionante, coinvolgente, scatena empatia e risonanze interiori, seppur l’autore non indugi mai in facili nostalgie e/o sentimentalismi strappalacrime e ricattatori. Il libro non è mai noioso, non è un concione per così dire, ma è sempre pregnante, significativo. Il microcosmo descritto è una realtà lontana nel tempo, appartiene a una concezione della vita assai diversa da quella odierna, eppure quanta partecipazione umana c’è in questo libro per i poveri zappatori! Il grande punto di forza di Padovano è che mette in scena senza alcuna ombra di opportunismo ma facendo una scelta controcorrente il dramma nudo e crudo delle classi subalterne quando molti altri rappresentano la borghesia o si perdono nell’insensatezza della vita, nell’inquietudine esistenziale, nel teatro dell’assurdo, avulso dai veri problemi della vita. Ciò dimostra quanto lo scrittore sia alieno da ogni compromesso col potere e dalle mode culturali. Lo scrittore ci ricorda quando i nostri avi emigravano in America, si imbarcavano sulle navi, andavano a cercare fortuna anche in Germania, quando prendevano le terre in affitto e guadagnavano una miseria, quando i sindacalisti erano visti come ruffiani e i preti come ladri, quando gli zappatori davano sempre la colpa al loro capetto (l’antiere), che era un povero cristo come loro, messo in mezzo tra l’incudine degli altri lavoratori e il martello dei padroni. Allora c’era una netta suddivisione tra cafoni e galantuomini. I contadini faticavano tutti i giorni e vivevano di stenti. Come riassume egregiamente Padovano: “Stanziano aiuti, fanno riforme, ma non approvano mai la legge che dà le terre a chi le fatica”. La regia di Padovano è davvero sapiente. Lo studio del linguaggio è attentissimo e molto scrupoloso. Ogni parola è ponderata. La nominazione ha una precisione chirurgica. Il dosaggio per imbastire una commedia come si deve è quello giusto: una diglossia ben calibrata, un uso di vocaboli dialettali parsimonioso, mai eccessivo e comprensibile ai più perché intuibili dal contesto, una dialettica mai improvvisata e nemmeno mai artefatta. È un’opera questa da leggere a poco a poco e con calma, da gustarsi a piccole dosi perché dietro un’apparente semplicità (mai lasciarsi ingannare dalle apparenze) si celano un lavoro paziente, certosino e un grande talento autentico, cristallino.
L’ingegnere Achille Vitale fa un lavoro difficile, con la sua squadra recupera le navi in difficoltà per conto di una impresa di Cagliari che ha in dotazione una flotta di rimorchiatori, sempre pronti a tutte le ore del giorno e della notte ad entrare in azione. Soccorrere le navi è un business, si guadagnano soldi, mentre per Achille e la sua squadra andare per mare è la passione più grande. La notte di Natale del 1981 la nave turca Izmir va in difficoltà e lancia l’allarme. L’equipaggio viene tratto in salvo e la nave va alla deriva, diventando una grande occasione per la squadra di Vitale, che senza esitazioni entra in servizio per recuperare l’imbarcazione. L’operazione è tutt’altro che agevole, il tempo è pessimo, la nave è una montagna di ruggine che si tiene in piedi per miracolo. Ma il lavoro è lavoro e non si butta via una occasione così a portata di mano. Il carico della nave è composto da pesce surgelato, ma c’è anche qualcosa d’altro, a cui sono interessate persone molto pericolose.
Una storia avvincente che si svolge in una notte, le cui conseguenze sconvolgeranno la vita di Achille Vitale, ingegnere navale, mancato ufficiale di marina, espulso dall’accademia militare dove era stato ammesso con grandi sogni e speranze. Achille è un uomo coraggioso, padre di Nina e marito di Brigitta, grandi competenze tecniche e doti umane e capacità di comando uniche. Una storia che esalta l’amicizia tra uomini abituati a vivere nel pericolo e nella fatica, ma c’è un uomo misterioso che insidia la squadra di Achille Vitale e che deve protegge i traffici loschi in cui è coinvolto. Una storia notturna, un vero noir per ambientazione e temi trattati, una scrittura avvincente e molto marinara, che affascina e drammatizza la forza del mare e la potenza della natura, contro cui poco può fare l’uomo senza la tecnologia.
Il Commissario Innocenti continua nella sua vita in salita. La promozione a Commissario e il conseguente trasferimento, lo hanno reso inquieto e nervoso, lui è un uomo di azione e si trova in difficoltà a gestire gli uomini. Anche la vita privata è sempre più complessa, i rapporti con la ex moglie sono ridotti al minimo ed anche con la fidanzata il rapporto è ormai arrivato alla fine. Solo con la adorata figlia riesce ad avere un rapporto positivo, anche se saltuario. Una sera, mentre era al supermercato per i soliti acquisti frettolosi per la cena, si imbatte in una ragazza stupenda, una battuta e poi l’altra, l’invito a casa seguito da una notte fantastica. La mattina dopo la ragazza sparisce prima che Innocenti si sia alzato. All’arrivo al commissariato, la notizia di un incidente, una persona è morta investita da un vagone della metropolitana. Innocenti si precipita e scopre che la vittima è proprio la ragazza con cui ha passato la notte. Di lei conosce solo il nome, Eva, che si rivelerà falso. Chi era veramente Eva? E in che pasticcio si è cacciato il commissario? Innocenti è un grande pasticcione e questa volta l’ha combinata grossa, mettendo a rischio sia la carriera in polizia che la sua vita privata. L’indagine scoprirà i molti volti di Eva ed una amara verità. Questo è il quinto libro di Fabio Rennani, sempre con Innocenti come protagonista, che segna una decisa crescita del personaggio, sempre più inguaiato ed alle prese con una vita che non è proprio prodiga di soddisfazioni. Anche Fabio Rennani è cresciuto molto come scrittore, con una svolta Noir apprezzabile, con una maggiore consapevolezza delle sue doti di scrittore e di inventore di trame sempre più complesse, interessanti, con contenuti sociali sempre più marcati e di spessore. Il finale del libro lascia intendere che ci sarà un seguito che sarà atteso dagli ormai numerosi fan di Fabio Rennani, l’ingegnere scrittore di gialli.
Titolo: L’angelo custode Autore: Leo Giorda Editore: Ponte alle Grazie
Spesso persone innocenti vengono accusate di crimini che non hanno commesso, così come spesso per mancanza di difensori adeguati, si ritrovano vittime di errori giudiziari a cui nessuno vuole porre rimedio. E così che inizia la storia di questo “L’angelo custode”, un giallo ambientato a Roma, in buona parte tra i quartieri San Lorenzo e San Giovanni, quartieri di persone normali, lontani dai fasti delle strade dello shopping e dei più eleganti quartieri della zona Nord. Il ritrovamento di un cadavere in un cassonetto, un indiziato che suona il piano in un locale e che in passato è stato sospettato di pedofilia senza essere stato condannato, ora come allora nessuna prova lo collega al crimine di cui è accusato, se non il fatto di abitare di fronte al cassonetto del ritrovamento. Un investigatore privato che in realtà è un maestro elementare, un matrimonio da dimenticare ed una figlia quasi sconosciuta, che sente il bisogno di indagare solo per aiutare casi umani in difficoltà. Si fa chiamare Woodstock ed è un tipo che fuma volentieri le canne, che lo ispirano soprattutto quando deve risolvere un caso. Le canne faranno l’effetto sperato e il caso sarà risolto, anche se non sarà facile convincere il vicequestore Chiesa della bontà delle intuizioni di Woodstock, soprattutto alla luce delle conseguenze investigative che coinvolgono personaggi molto in alto, quasi intoccabili. Un libro che si stacca dalla media della produzione di gialli/noir/thriller nazionali per l’originalità del protagonista, per la sua straripante simpatia dovuta al suo essere irregolare e fuori dagli schemi. Una scrittura lineare, efficace, piena di umorismo, che cattura l’attenzione da subito. Woodstock è un personaggio apparentemente debole, in balia degli eventi, sensibile ma capace di trasformarsi in coraggioso paladino dei deboli quando si tratta di combattere un sopruso, di andare contro l’autorità costituita, contro i poteri forti definiti tali per il potere che hanno a prescindere dell’autorevolezza invece dimostrano di non avere. Ottimo esordio per Leo Giorda.
Il prete di Carloforte, Don Antonio Moresco, viene trovato morto nella sua abitazione, tutto lascia pensare ad una caduta dalle scale, come afferma la relazione del medico legale. Il commissario Alvise Terranova, da poco tempo rientrato a Carloforte, non è convinto che si tratti di un incidente. Il giorno prima era stata trovata una scritta “la chiesa è in pericolo” sul muro della chiesa e in paese molti fedeli non erano contenti di Don Antonio, al punto che era stata organizzata una petizione per allontanarlo. Molte cose non quadrano ed il commissario Terranova è convinto che la morte del prete non sia stata una disgrazia. Il ricevimento di una lettera anonima, con l’indicazione del presunto colpevole, lo convince che i suoi sospetti sono giustificati e che l’indagine deve proseguire perché si tratta di omicidio. Ma non crede che il colpevole sia quello indicato nella lettera, crede che la verità sia ben diversa.
Un libro con una trama complessa, ben costruita, un finale inaspettato che affronta temi molto delicati e purtroppo molto comuni. Il testo prevede continui inserti della lingua reale parlata a Carloforte, che caratterizzano il racconto e amplificano l’efficacia dell’ambientazione. Il racconto del giallo vero e proprio include tutte le trame politiche, tradimenti, storie segrete che in realtà sono di dominio pubblico, un vulcano in eruzione di fatti e misfatti imprevedibile per quello che è da tutti considerato come un paese tranquillo dove non succede mai niente. E proprio tra queste storie segrete che sarà possibile per il commissario Terranova trovare quei piccoli appigli su cui fondare le sue ricerche che lo porteranno alla soluzione del caso. Terranova è un personaggio dalle intuizioni brillanti, appassionato di Jazz, di Tom Waits e delle buone letture, un poliziotto sensibile che sa quando affidarsi al cuore e mettere da parte la razionalità.
“Un must assoluto per gli amanti del legal thriller.” Kirkus Review
Sola contro le istituzioni. Perché ha scoperto la verità. Due giudici della Corte Suprema assassinati in una sola notte. Il paese è sotto shock, FBI e CIA brancolano nel buio. Chi poteva volere la loro morte? Darby Shaw, una brillante studentessa di legge, è convinta di aver trovato la risposta e l’ha scritta in un rapporto. Ma chiunque viene a conoscenza del “rapporto Pelican” è destinato a morire.
RECENSIONE
Oggi voglio parlarvi del libro: “Il Rapporto Pelican” di John Grisham. Una storia stupenda: sono un’autentica appassionata del genere legal thriller, lo scrittore riesce a catturare il lettura con la sua semplicità, rendendo la trama scorrevole e intrigante.
Due giudici della Corte Suprema assassinati in una sola notte. Il paese è sotto shock, FBI e CIA brancolano nel buio. Chi poteva volere la loro morte? Darby Shaw, una brillante studentessa di legge, è convinta di aver trovato la risposta e l’ha scritta in un rapporto. Ma chiunque viene a conoscenza del “rapporto Pelican” è destinato a morire.
Il rapporto Pelican è uno dei miei libri preferiti. Una storia ricca di colpi di scena e appassionante. Da questo romanzo è stato girato anche un film, veramente molto bello che consiglio a tutti!
John Grisham (Jonesboro, Arkansas, 1955) laureandosi in legge nel 1981, per nove anni è stato avvocato penalista ed è l’inventore del legal thriller. Ha ricoperto incarichi politici come membro della “Mississipi House of Representatives”. È l’autore di numerosi romanzi: Il momento di uccidere, Il socio, Il Rapporto Pellican, Il Cliente, L’appello, L’uomo della pioggia, La Giuria, Il Partner, L’avvocato di strada, Il testamento, I Confratelli, La casa dipinta, La convocazione, Fuga dal Natale, il re dei torti, L’allenatore, L’ultimo giuramento e il Broker.
Trama Per uno strano scherzo del destino, Lia, una dei protagonisti della storia, si ritrova a venire al mondo due volte. È convinta di essere sopravvissuta al crollo delle torri gemelle, di aver superato il periodo di cura nella clinica per disturbi alimentari, di aver fatto l’amore con Costanzo. Ignora che tutto questo è stato soltanto un sogno, che vegeta in un letto d’ospedale da quasi un anno. Risvegliarsi equivale a vivere un’altra vita, che non le appartiene più. Fino all’ultimo sguardo è un viaggio fatto a tappe, nei sentieri di una mente scomoda, affollata di voci e di immagini che incitano a non fermarsi, a ricercare a tutti i costi la verità; è un inno all’amicizia vera che non diventerà mai cenere.
Autrice Valentina Mattia è nata a Caltagirone (CT) e vive a Cuneo con la sua famiglia. È scrittrice di romanzi e poesie. Nel 2014 esordisce nella narrativa con Intimo ritratto – edizioni Araba Fenice Libri. A Cuneo ha frequentato una scuola di teatro e di dizione, e il corso completo di Nati per Leggere (NpL) a cura di Sillabaria – Semi di Libro. Si è classificata terza nella sezione Prosa dell’Antologia di narrativa e poesia edita da Primalpe Cuneo (2017), e nell’anno successivo (2018) la stessa casa editrice ha pubblicato il suo secondo romanzo, Alice Schanzer l’alambicco dei ricordi. Nel 2020 con Golem edizioni ha pubblicato Complici senza destino.. Ha seguito un laboratorio di scrittura. Fa parte del comitato di lettura degli adulti per il Premio Primo Romanzo città di Cuneo.
Casa Editrice Golem Edizioni è una casa editrice di Torino. Fondata nel 2016 da Giancarlo Caselli, grazie alla sua dedizione e passione, raggruppa autori, autrici e libri di vari generi, con predilezione per i saggi, i thriller e i gialli. I libri del catalogo sono presenti in tutte le librerie e negli store online.
Trama Marco Pavan un tempo era un poliziotto. Uno di quelli bravi fino a quando la storia, con la S maiuscola, non si è messa di traverso sulla sua strada sotto forma della scuola Diaz e dei fatti del G8 di Genova. Costretto ad andarsene dal Corpo per avere agito secondo “coscienza” e scaricato dalla moglie, oggi è un investigatore privato senza arte né parte. In una sonnolenta e nebbiosa Rovigo, con l’incarico di vicequestore, viene trasferito il sanguigno e ambizioso Cesare Baldini: la sua non è una promozione, ma l’ultima tappa di una carriera condita da violenze e abusi. La fama di “città nella quale non succede mai niente” viene improvvisamente interrotta dall’assassinio dell’onorevole Balzan, ex parlamentare DC. L’uomo viene ucciso in casa sua in modo efferato, con molti colpi alla schiena inferti da un oggetto non identificato. Baldini, chiamato a indagare, sospetta subito di Okigbo, il vicino di casa nigeriano. Pavan che si interessa al caso per aiutare un’amica della figlia, si convince che il nigeriano non può essere l’assassino, e inizia a indagare scavando nel passato della vittima e, con l’aiuto di un giovane poliziotto e di un’abile informatica, scopre un inaspettato legame con l’ex ospedale psichiatrico delle Granzette da cui, tra mille reticenze e difficoltà legate all’età dei testimoni, emerge un quadro di orrori e crudeltà. Pavan, un tassello per volta, inizia a ricostruire le vicende ma l’epilogo è ancora lontano e, in un susseguirsi di colpi di scena, tutti i protagonisti della vicenda si troveranno ad affrontare situazioni imprevedibili e, potenzialmente, mortali.
Autori Antani & Mascetti, entrambi di Rovigo e amici di infanzia, coltivano da sempre la passione per la letteratura e i romanzi, in particolare per il genere Giallo nel senso più ampio del termine. Lettori onnivori, amano confrontarsi da decenni sulle letture reciproche in un continuo gioco di contaminazione, suggerendosi libri e autori. Nel tempo hanno maturato esperienze diverse nel campo della scrittura. Antani ha una lunga esperienza di autore teatrale, essendosi cimentato per anni nella direzione di una compagnia amatoriale di cui curava testi e regia degli spettacoli, mentre Mascetti è un raccoglitore ossessivo di storie, personaggi e immagini sui suoi taccuini.
Leon De Donno, scrittore ebreo americano, autore di romanzi storici ambientati a Venezia, viene assassinato apparentemente senza un perché. Conquistato dal fascino della città lagunare, De Donno aveva deciso di prendervi casa acquistando un lussuoso palazzo sul Canal Grande. Il commissario Enzo Fellini, debilitato sul piano fisico e psichico, si ostina a indagare, a ricercare, a vivere. Riuscirà a scopri- re l’identità del Mostro che sovraintende a una perfida trama intessuta di morte? È Kippur, il “Giorno dell’espiazione”. La comunità ebraica di Venezia, chiusa nei suoi spazi sacri, celebra la festività più importante. Al mondo della morale, della preghiera e della fede, fanno da contraltare gli istinti e le pulsioni che scaturiscono dal lato buio dell’essere umano. Con sublime ironia, Morte di un ebreo a Venezia apre gli occhi a una visione inedita dell’ebraismo, del dramma della Shoah, della vita stessa. Offre prospettive e metafore che vanno oltre le consuete tautologie alla Schindler’s List.
Nathan Marchetti ha maturato esperienza più che ventennale nell’editoria italiana. Ha studiato moltissimo ma non per collezionare pezzi di carta (custodisce l’agognata laurea in garage). Dopo Giallo Venezia, Requiem Veneziano eUltimo Carnevale a Venezia, ecco Morte di un ebreo a Venezia: la nuova indagine del commissario Fellini. Nathan Marchetti pubblica tutti i suoi romanzi e racconti, nessuno escluso, con Fratelli Frilli Editori (Genova).
Me lo aveva prestato mia zia, che lo aveva abbandonato per la mancanza di linearità.
Non mi è piaciuto per due motivi principali: uno che riguarda lo stile e l’altro la trama. Proverò a spiegare entrambi con dei riferimenti alla cultura pop.
1) Lo stile di Cannarsi nella scrittura.
Il romanzo è narrato in prima persona dalla protagonista senza nome e alcune descrizioni sia sensoriali che degli stati d’animo mi sono piaciute molto. Non solo davano colore ma erano vere, nel senso che una persona poteva davvero rispechiarsi in esperienze simili, e se tutto il resto del libro fosse stato scritto in quel modo sono certa che l’avrei adorato.
Il problema di questo punto, però, è che diverse frasi sembrano delle traduzioni di Gualtiero Cannarsi.
(Per chi non lo conoscesse, è un dialoghista e adattatore di film giapponesi che ci ha regalato “perle” come queste:
“Nessuna recalcitranza! Abbattete l’obiettivo a qualsiasi costo”
“Gli uomini della ditta Junker sono micragnosi”).
In sostanza abbiamo delle frasi che si perdono in barocchismi inutili, un lessico forzatamente aulico cacciato in bocca a una normale ragazza di provincia (non una cresciuta a pane e Dante Alighieri, per dire).
Qualche esempio:
“Sapeva trasformare ogni cosa in set, manipolava la sua vita come uno sfondo per blandire la desolazione”
“Per andare da Giuseppino, ha scelto dei fuseaux stampati lucidi, a squame di serpente, incollati alla pelle, ma i fiumi di depravazione che fa presagire alle tombe in realtà nascondono principalmente quelli di coca cola che beve” ?????
Della seconda metà della frase io non capisco sinceramente il significato. Voi?
E ancora: “Quando le vie sono evaporate di suoni perché tutti sono al mare”. Casomai “quando i suoni evaporavano dalle vie” perché se la via evapora vuol dire che cammini nel nulla. Comunque tutti questi arzigogoli per dire che c’è silenzio.
“L’acqua sembra fatta di coltelli tanto è dura e picchia sui vetri” Che vuol dire? Sta grandinando? Oppure sono solo dei goccioloni che cadono fitti? Boh!
2) Il gusto di “13 reasons why”
Se vi ricordate la serie Netflix sulle cassette della ragazzina vittima di bullismo, probabilmente saprete già di cosa sto parlando. A chi non l’ha vista la sconsiglio fortemente.
Sia nella prima stagione, e ancora di più in quelle successive, c’è un gusto a tratti malato per l’orrido, per il trauma, gli abusi e l’autolesionismo.
Anche le sequenze più truculente degli episodi non servono quasi mai per reali spunti di crescita per i personaggi: allungano solo la storia e aggiungono dramma inutile.
Stessa cosa accade in questo libro. Non c’è una reale storia, ogni capitolo è quasi una sequenza a sé stante in cui si scava sempre di più nelle disgrazie e nei traumi dei personaggi, senza mai cavarne fuori niente. Non c’è una direzione, mai un momento in cui la protagonista, o qualunque altro personaggio, provi concretamente a fare qualcosa per risolvere i suoi problemi interiori (e quindi anche quelli esteriori) e tutto scade in una disgustosa celebrazione del malessere.
Dunque la protagonista, e quindi anche il lettore, che cosa trae alla fine da questo libro? Un fico secco dato il finale!
Questa è la mia personalissima opinione. Se il libro vi è piaciuto sono contenta per voi, ma per me è un grandissimo NO.
Recensito migliaia di volte, quindi non porto nulla di nuovo se non sensazioni strettamente personali.
Ipnotico, non vorresti mai finire di leggerlo. Siamo un po’ tutti Giovanni Drogo, bloccati in un ufficio o in una fabbrica, davanti un televisore o a fianco della persona sbagliata, con un telefonino in mano pieno di luce e di nulla, fermi ad aspettare la fine consumando le ore e i giorni, gli anni e le stagioni bruciate nel forno famelico del tempo che passa.
Inesorabile, corre verso una fine incognita solo nelle modalità, peraltro sempre drammatiche. Così il finale del romanzo. Quando sembra arrivato il momento atteso da una vita, arriva l’infamia dell’impossibilità, l’ingiustizia rappresentata dai nuovi arrivati, la presa di coscienza della sconfitta e infine della resa. Sul volto un sorriso, forse non troppo amaro.
Mi piace quando scopro dei “tesori” nascosti nei romanzi. In questo caso “Le regole della casa del sidro” è il romanzo che Violette, la protagonista di “Cambiare l’ acqua ai fiori” di Valerie Perrin legge e rilegge in continuazione e da cui trae ispirazione. Io non lo avevo letto ed ho recuperato.
L’ ho trovato di una bellezza mozzafiato, uno dei più bei romanzi che abbia mai letto!
All’ inizio sembra noioso, scritto con un linguaggio troppo ricercato e particolareggiato, che ti fa soffermare più a lungo sulle pagine e si può essere tratti in inganno e abbandonare, ma superato questo ostacolo si capisce qual’è la vera difficoltà: è un romanzo scritto con un linguaggio poetico, una favola incantata da raccontare ai bambini, una poesia raccontata da un romanzo, a voi la scelta.
Il romanzo è ambientato nel Maine, negli anni trenta del 1900, e in particolare nell’ isolato paesino di St.Cloud, dove la ferrovia è l’unica via di collegamento tra il suo orfanotrofio e il resto del mondo. A St.Cloud infatti non ci si arriva per caso ma ci vanno solo quelle donne che devono sgravarsi di un figlio indesiderato e farne un orfano, oppure decidere di liberarsene con un aborto. A gestire l’ orfanotrofio è il dr. Larch, un ginecologo all’avanguardia che antepone sempre il bene di un orfano davanti a tutto ed è solo inseguendo questo fine che ha deciso di procurare aborti, anche se all’ epoca ancora illegali, a chi altrimenti se lo sarebbe procurato comunque in un altro modo mettendo a rischio la propria vita.
E poi c’è Homer Wells, nato a St.Cloud, rifiutato da quattro famiglie e che quindi sceglie di rimanere a St.Cloud, rendendosi utile e divenendo l’ allievo prediletto del dr.Larch, sebbene le sue idee sull’ aborto sono in opposizione a quelle del dottore.
Ma un giorno l’arrivo di una giovane coppia che ha bisogno di un aborto, Wally e Candy, smuove qualcosa in lui e decide di seguirli lasciando l’ orfanotrofio. Homer non conosce nulla del mondo fuori da St.Cloud e ogni nuova esperienza per lui è magica e incantata, come quella di imparare l’ arte della fruttificazione, la vita dei braccianti stagionali, l’amicizia, nuotare, guidare, amare.
Ma il dr. Larch che per Homer prova un amore quanto più simile possibile ad un padre, tesse una vita alternativa, un progetto ambizioso, dalla cui riuscita spera di poter ricondurre Homer a St. Cloud per continuare il suo lavoro dopo di lui.
Questo romanzo parla di molte tematiche sempre attuali: di aborto, di desiderio di paternità disgiunto dalla famiglia, di amicizia, di sogni, di violenza domestica, di disabilità.
È un romanzo che mi si è tatuato nel cuore!
E a chi pensa che averne visto l’adattamento cinematografico gli ha tolto il gusto di leggere il romanzo dico: leggete il libro perché due terzi del romanzo non sono trattati nel film, e sono i due terzi che fanno del romanzo una vera poesia!
Recensione a “IDENTITA PERDUTE “Narrativa interessante
Recensito in Italia il 23 settembre 2020
Carlo Bonfiglio
Leggere ciò che hai scritto mi ha affascinato molto, dandomi la possibilità di entrare nella tua anima e capire con certezza la ricchezza che possiedi dentro, non puoi immaginare la gioia che ho provato nel leggere chiaramente la ricchezza interiore che possiedi. Ti posso assicurare che tale e tanta completezza in un’unica persona non l’ho mai riscontrato, quindi in considerazione che a questo mondo conosco una miriade di persone, ti affermo che fai la differenza. Quanto sopra precisato, non vuole essere un complimento fatto da uomo a donna, ma è solo e semplicemente una constatazione di fatto, che sicuramente da grande donna non mi consideri un fantasioso e/o presuntuoso invasore del tuo privato, ti assicuro che tutto ciò parte dal cuore e con nobiltà d’animo, sento doveroso ringraziarti di esistere e ne sono felice che il mondo non si privi della presenza di una vera donna quale tu sei. perdonami, ma sentivo di notificartelo.
L’arte è l’incontro inatteso di forme e spazi e colori che prima si ignoravano. Fabrizio Caramagna. Un altra citazione che mi piace sempre di Fabrizio Caramagna dice che l’arte è un arco teso che lancia la sua freccia più in là dell’infinito. Tutto ciò che crea emozione è arte, poesia, danza, musica, pittura, scultura. Mario Banella, direi che lui ascolta il mondo e poi fiorisce la sua poesia. Una poesia curata, frutto di uno studio illuminato che in lui ha creato il ”suo modo di fare poesia” Quando lo leggi, pensi che starebbe bene nei libri di scuola, nelle librerie vorresti vedere i suoi libri in un intero scaffale. Pura poesia in ogni cosa che scrive, lui li ha letti tutti, Leopardi, come può mancare! Baudelaire, Eluard, Valery, Lorca, Machado, i greci, Antonia Pozzi. tanti altri ancora, direi ”il naufragar mi è dolce in questo mare di parole ”parafrasando il Leopardi. Annegare in un mare di parole che poi ti salvano, e le sue parole si sentono, ti invadono, ti entrano. Un vero artista della parola, ma anche uno studioso di letteratura. Chi scrive sa che la poesia salva, ma può anche farti morire, sono due estremi che generano molto emotività.
Quelle poche nuvole su un cielo appena celeste, fanno il paesaggio d’un autunno imminente, manca il vento, un po’ di pioggia.
Forse tutto verrà nel venire del giorno.
e le nuvole diverranno scure. e il cielo s’ingrigera’.
Porteremo i nostri corpi da un giardino spoglio ad una stanza fiorita. La sera sarà tenue come una fiamma di candela, la tua mano sul mio viso si rivela. Mario Banella
Federico ZandomenighiChiara e le altre
La struttura è quella del romanzo breve. La vicenda è ambientata nella periferia romana alla fine degli anni ’80. Le protagoniste sono quattro. Chiara è la principale figura che s’intreccia con le altre. In una città ormai in decadenza, le quattro ragazze si lasciano trasportare dai loro stessi destini, fatti d’amore, di solitudine, droga, angoscia. Tutte finiranno nell’impossibilita’ di risolvere i propri problemi. Chiara rinuncerà, attraverso un amore stralunato e traditore, ad un futuro possibile, intravedendo un vuoto incolmabile. L’amica Nerina si suicidera’, dopo aver percorso strade fatte di amori impossibili e tossicodipendenze. Le altre si accontenteranno di una vita sotto le righe. Il libro vuole essere un quadro di una realtà in disfacimento, scritto con un distacco da osservatore. Prendendo a lezione l’idea Cechoviana di descrivere senza giudicare. Mario Banella
Al passar della luna
“Al Passar della luna” Il libro è un un’esperimento. Formato da sei poesie e sei racconti. Un lavoro eterogeneo, in cui la poesia entra nei racconti per la sua formalismo. Le sei poesie, tutte in verso libero, possono richiamarsi al concetto simbolico, fatto di stati d’animo che richiamano la poesia francese dell’ottocento e dei nostri poeti del novecento non ermetici, con richiami ad contemporaneità tutta da interpretare. I sei racconti si dipanano tra un narratore quasi autobiografico e un viaggio nei piccoli sentimenti umani. La vita. La morte, viaggiano parallele. In una gioia scontrosa. Una tristezza consapevole. A differenza del primo libro, in queste pagine si cerca di dare profondità a temi già sviluppati altrove. Si pensi al racconto “Un Inverno”, ambientato nell’Umbria orvietana, con i suoi protagonisti giovani, sognanti. E al racconto che chiude il libro “Il signor Nabella”. Breve storia di un vecchio professore, la cui morte improvvisa, fa scoprire poesie nascoste nel cassetto per decenni. Poesia e narrativa, in un fluire tra arte e arte. Mario Banella
E dolore confuso a gioia, vaga illuminato nello splendore assorto a lacrime, a sorrisi. Mattini di visi attoniti, presto stupiti da un sole estivo a dissodare gesti sepolti con amore raccolti, d’amore accolti. Mario Banella
Voltolino Fontani
Una vita tranquilla sotto la pioggia d’estate, la cammino la strada, le foglie tra le mani con i rami a marcarmi il passo. Ho una casa che mi aspetta, una brutta finestra su un bel cortile per impugnare in fretta una penna scarognata con cui scrivere del tuo cuore rosso immoto, sarà che amo la pioggia, te e tutto questo malinconico vuoto. Mario Banella
Da piccola Chandra Candiani faceva un gioco: vedere quante piú cose insignificanti ci fossero in una stanza, sul tram, in una via e accoglierle tutte in uno sguardo, sorridendogli. Si trattava di oggetti, animali, bambini senza niente di speciale, considerati dagli altri insignificanti. Cosí Candiani, divenuta grande, ha deciso di invitarli nelle sue fiabe e li ha lasciati parlare. Soprattutto ha dato una storia a chi di solito una storia non ce l’ha. Una bambina talmente innamorata di un fiume da desiderare soltanto di corrergli accanto fino al mare. Un usignolo malinconico che nessuno vuole, perché nessuno vuole conoscere la tristezza del cuore. Una rosa che non credeva piú nel vento, ma che proprio grazie al vento riesce a risorgere. Una musica felice scesa sulla terra per un bambino troppo strano. Una pattumiera che racconta ai suoi ospiti, nòccioli di frutta, cartacce, lische di pesce, quanto la loro vita sia stata importante. È la solitudine il filo rosso che lega insieme queste quindici storie, eppure in ciascun personaggio echeggia fortissimo il desiderio vivido di essere parte del tutto, di costruire un legame seppure sottile con gli altri, di gridare in silenzio la fame d’amore che li attraversa. Un amore semplice, intrecciato ai piccoli dettagli, alla minimalità dell’esistenza, ai suoni che popolano le campagne, le città; un amore per una vita minima che chiede timidamente di essere vista, ascoltata, osservata nella sua linfa intima.
Salve lettori, siete ancora in vacanza oppure avete ripreso la routine quotidiana? Ancora per qualche appuntamento torna la rubrica “Letture sotto l’ombrellone”.
Libera per usi commerciali. Attribuzione non richiesta.
Questa mattina sono qui per parlarvi di un retelling estivo de “Il Grande Gatsby”. Mi riferisco a “L’estate del primo amore” di Joanne Bonny (Pubblicazione indipendente).
La vita di Giulia, giovane interior design, va a gonfie vele: la sua carriera sta procedendo in ascesa e Alberto, il suo fidanzato di professione scrittore, le ha fatto la proposta di matrimonio. Giulia è al settimo cielo, è pronta per compiere il grande passo, tuttavia, all’improvviso, un particolare turba la sua felicità: lei è già sposata da ben nove anni. A soli diciannove anni, mentre studiava a Parigi, Giulia ha conosciuto Tommaso, se ne è innamorata perdutamente e lo ha sposato senza informare la famiglia. Ora che il suo matrimonio “ufficiale” sta per essere celebrato deve necessariamente ritrovare Tommaso, dal quale è fuggita una notte senza lasciare nemmeno un biglietto, per chiedergli il divorzio, ma, dopo una ricerca, scopre che l’uomo in questione è deceduto. Giulia torna a respirare, il suo segreto è al sicuro. Tuttavia le sorprese non sono finite. Un certo Rick Blaine, imprenditore americano dal passato misterioso, la contatta per chiederle di occuparsi della sua villa a Capri che vorrebbe trasformare in un hotel di lusso. Giulia accetta di recarsi sul posto per fare un sopralluogo e allo stesso tempo per concedersi una vacanza, ma la sorpresa sarà enorme quando si renderà conto che dietro Rick Blaine si nasconde proprio Tommaso, suo marito.
“Credere in se stessi è il più grande potere che un essere umano possa possedere. In cos’altro dovremmo credere, del resto, se non in noi stessi? Gli altri non fanno altro che deluderci e spezzarci il cuore.”
Tutti conosciamo la trama de “Il Grande Gatsby” di Fitzgerald e tutti abbiamo sperimentato, leggendolo, il senso di stupore che pervade l’opera. In questa rivisitazione contemporanea ritroviamo, appunto, la figura di un uomo tanto ricco quanto avvolto nel mistero, organizzatore di feste alle quali partecipano tante persone, solo, circondato dai suoi segreti.
Giulia ha una vita perfetta. È pienamente realizzata sotto tutti i punti di vista, ha una bella famiglia, amici, una bellissima casa e un fidanzato che l’adora al punto da chiederle di diventare sua moglie. Eppure, dietro il suo essere apparentemente spontanea e trasparente vi è un grande segreto che ha tenuto celato per tantissimo tempo. Sembra assurdo che lei, che appare tanto equilibrata e razionale, sia stata in grado di lanciarsi a capofitto in un qualcosa più grande di lei. Le esperienze non restano mai fine a loro stesse e, a distanza di anni, per Giulia è arrivato il momento di sperimentarne le conseguenze e di tornare nel passato, quello stesso passato dal quale è fuggita.
Tommy è il classico cattivo ragazzo in grado di far perdere la testa alla giovane di buona famiglia. I due si abbandonano a una storia d’amore da romanzo, sullo sfondo di una magica Parigi, ma il giovane napoletano, trapiantato in Francia, ha una vita dominata dall’illegalità e ben presto Giulia si renderà conto del peso che ha avuto diventare sua moglie.
Quando il destino li farà rincontrare tra i due aleggiano sentimenti di rabbia e ricordi tristi. Giulia, resasi conto di essere caduta in una trappola, si ritrova costantemente in bilico tra la fuga e l’attrazione, in nome dei tempi passati. Per quale motivo Tommy è tornato? E perché si è costruito una nuova vita? sono questi i due grandi interrogativi che aleggiano nella sua mente.
Personalmente ho trovato di poco spessore il personaggio di Alberto. Scrittore in crisi di ispirazione, autore di un romanzo nel complesso poco apprezzato, non riesce a imporsi nella trama; lo si ritrova spesso ai margini, totalmente estraniato dal contesto, solo nel finale diviene un po’ più attivo, insomma risulta difficile simpatizzare nei suoi confronti.
Lo stile della prosa è semplice e scorrevole. Passato e presente s’intersecano grazie a flashback e alle pagine del diario scritte dalla giovane Giulia. Il ritmo narrativo è piuttosto serrato, appare rallentato in alcuni momenti nei quali, a mio parere, ne risente anche il coinvolgimento emotivo del lettore.
Un romanzo piacevole e originale nella rivisitazione del classico. Una lettura sulle complicazioni varie ed eventuali del primo amore.
Libera per usi commerciali. Attribuzione non richiesta.
Questa mattina sono qui per parlarvi di un romanzo tanto bello quanto spiazzante. Mi riferisco a “Ti prometto il mare. Ricomincio da me!” di Riccardo Bertoldi (Rizzoli).
Quando scopre che suo marito l’ha tradita, la vita di Sofia, donna in carriera milanese, subisce una brusca frenata. Ora che è rimasta sola deve imparare a contare su se stessa, a ricominciare cercando di superare il dolore e il trauma dell’abbandono. Enea non si è mai spostato da Riva del Garda, dove continua a lavorare nel pub in cui sbarcava il lunario da ragazzo. Cosa possono avere in comune due persone dalle esistenze così diverse? Ventidue anni prima i due hanno vissuto un amore, ben più importante di un amore estivo, che ha lasciato in entrambi un forte ricordo. E quando il destino decide di farli rincontrare, forse è arrivato il momento di ascoltare la sua voce.
“Promettersi il mare significa promettersi una vita ricca, bella, libera. Una vita all’altezza del nostro cuore. Una vita in cui smettere di accettare anche solo un grammo in meno dell’amore che meritiamo.”
Il destino dà e il destino toglie. È questa la frase che meglio esprime l’essenza di questo romanzo, perfetto romance fino a un certo punto, in grado improvvisamente di spiazzare come una doccia gelata.
Sofia è una donna realizzata. Svolge il lavoro che ha sempre sognato, ha una relazione appagante, una famiglia sulla quale poter sempre contare. È sufficiente un attimo per far crollare tutte le sue certezze e per porla faccia a faccia con i suoi limiti. È giunto il momento di sfoderare le unghie, tirare fuori la determinazione e ammettere le proprie fragilità poiché non c’è nulla di male nel mostrarsi deboli. Poco a poco Sofia compie un percorso di autoanalisi, capendo quali sono le sue reali priorità e imparando giorno dopo giorno ad affrontare la vita da sola con anche un briciolo d’incoscienza, come era solita fare da giovane quando ogni estate si recava a Riva del Garda per trascorrere i tre mesi più belli dell’anno.
Sin da quando era ragazzino, Enea è stato costretto a comportarsi da adulto e a vivere col senso di colpa in una famiglia complicata. L’incontro con Sofia lo segna nel profondo e quando da adulto ha la possibilità di riprovarci ora con timore ora con entusiasmo prova a considerare quell’evento come il riscatto che si merita. Fino a quando l’inaspettato squarcia la bolla di felicità e li mette nuovamente a dura prova.
Lo stile della prosa, pur essendo semplice, è curato nei dettagli. Le frasi sono studiate, rese armoniche, quasi musicali. Gli eventi, che si sviluppano tra passato e presente, sono narrati principalmente dal punto di vista di Sofia con una grande sensibilità da parte dell’autore che riesce a rendere con efficacia la psiche femminile.
Il lettore è pienamente coinvolto dagli eventi narrati e non può non rimanere senza parole dinanzi alla piega inaspettata che assume l’opera.
Un romanzo dolce e ad alto tasso emozionale. Una lettura che sa colpire dritto al cuore.
Cosa accada nella mente umana sembra rappresentare un’essenza unica e imprendibile talvolta labile, altre misteriosa, ma come spesso succede può racchiudere una carica aggressiva irrecuperabile, che non permetta di poter tornare sui propri passi.
E’ quanto spesso si verifica soprattutto nella mente di soggetti maschili, che per motivi forse atavici o di forte frustrazione, sono capaci di riversare, completamente, sulle donne.
In un tracciato di scrittura notevole, per la sua creatività e ambientazione, è quanto mette in rilievo l’autore del testo “ UNA SCATOLA DI LATTA”,Massimo Occhiuzzo, rifacendosi, in parte, a rapimenti di ragazze avvenuti in Italia negli anni passati.
Situazioni assai dolorose, che hanno coinvolto giovani donne, e indotto le loro famiglie, a ritrovarsi in un ginepraio disordinato, dal quale poter riuscire a estrapolare, indizi e motivazioni, utili alla risoluzione del caso..
In una circostanza di forte malessere interiore, agiscono alcuni dei personaggi presentati dall’autore in questo volume, inserito in una Roma che si dimostra quasi indifferente alla gravità di certi
avvenimenti, per la sua ormai presa di coscienza, di dar vita a una società malsana, in cui si sono dissolti, quasi del tutto, remoti valori interiori.
Due innocue signore d’età avanzata, dopo il ritrovamente d’una scatola con delle missive, danno inizio a un’indagine, inizialmente fantomatica, ma che col trascorrere del tempo darà corpo a fatti meno immaginosi e concreti su cui, le autorità, potranno muovere dei passi più decisi e risalire a quanto effettivamente accaduto anni prima.
Fanno la loro comparsa, gradualmente, nel volume i vari interpreti, che daranno il via a una serie di eventi ben congegnati tra loro e che metteranno in risalto, di volta, in volta, le peculiarità caratteriali
di ogni personaggio. Aumenterà, nel corso della lettura la suspance della storia, in un crescendo di occasioni, che terranno avvinto il lettore alle pagine del libro, giungendo così, ad un’inaspettata, quanto imprevedibile conclusione dello stesso.
L’autore oltre a rendere scorrevolissima la lettura, con un’attento tratteggio dei vari protagonisti, che a mano a mano, compaiono sulla scena del giallo, ne raffigura con abilità l’impronta ideologica,
rendendo ognuno di loro molto vicino a una dialettica di vita che scorre giornalmente nel nostro quotidiano. In questo contesto, Occhiuzzo, rende assai appropriato alla dinamica del libro, l’atteggiamento dei vari soggetti, che si muovono in un’atmosfera precisa in tutti gli accadimenti,
davvero correlati tra di loro.
Dimostra pertanto, lo scrittore, una spiccata sensibilità d’animo a pennellare personalità umane dal profilo, talvolta complesso, che operano in una dimensione ambigua, celando la propria oggettività in atteggiamenti discordanti e lontani da una realtà accettabile di vita.
Una visione approfondita e delineata, risulta, essere stato il proponimento dell’autore, in questo testo, della primitività e violenza del maschio, che poco sembra essersi evoluto, nel corso dei secoli,
dando vita a scene di possessività esasperante e cruenta nei confronti dell’altro sesso, assai più sensibile e progredito, e in grado di dare scacco a sollecitazioni mentali dai toni assai superati.
@Silvia De Angelis