Le poesie d’amore che Pavese ha scritto per Constance Dowling – pubblicate in una raccolta dal titolo eloquente, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi – sono tristi sì, ma anche bellissime. Il dolore della perdita si mischia al ricordo dell’amore e il risultato è di una tristezza profonda, ma splendida. Questa poesia, all’inizio della raccolta, è la meno triste. Non c’è il dolore dell’abbandono, solo il paragone vivissimo tra il grigiore del mondo e la donna, che rappresenta la luce e il risveglio.
‘Tu eri la vita e le cose’
Lo spiraglio dell’alba respira con la tua bocca in fondo alle vie vuote. Luce grigia i tuoi occhi, dolci gocce dell’alba sulle colline scure. Il tuo passo e il tuo fiato come il vento dell’alba sommergono le case. La città abbrividisce, odorano le pietre – sei la vita, il risveglio. –
Stella sperduta nella luce dell’alba, cigolìo della brezza, tepore, respiro – è finita la notte. –
Sei la luce e il mattino.
Cesare Pavese
Si può morire per amore? Probabilmente la perdita della donna amata fu una delle causa che spinse il poeta al suicidio. Questi versi così belli ed intensi esprimono bene ciò che provava, l’amore era la luce nel buio, il risveglio alla vita…la speranza che finalmente la sua lunga notte fosse finita.
I baci, da sempre cantati dai poeti, celebrati, dipinti, vagheggiati, i baci…dati, ricevuti, sognati…eppure il momento più intenso, il rullo di tamburo è quello che precede l’atto, in cui sono gli occhi a baciarsi già pregustando quello che si consumerà con le bocche.
Un bacio ed un altro un altro ancora… Caldi, morbidi, insistenti, estenuanti, baci…che iniziano da uno sguardo, dal baciarsi con gli occhi, già pregustando la bocca e le labbra umide, turgide, invitanti… Un bacio ed un altro e un altro ancora… Un morire lento in quell’intenso istante, dove più niente esiste solo il battere, furioso, dei cuori e l’ansìto dei respiri.
Cesare Pavese (Santo Stefano Belbo, 9 settembre 1908 – Torino, 27 agosto 1950) è stato uno scrittore, poeta, traduttore e critico letterario italiano. Cesare Pavese nacque a Santo Stefano Belbo, un paesino delle Langhe situato nella provincia di Cuneo, presso il cascinale di San Sebastiano, dove la famiglia soleva trascorrere le estati, il 9 settembre del 1908. Malgrado l’agiatezza economica, l’infanzia di Pavese non fu felice: una sorella e due fratelli, nati prima di lui, erano morti prematuramente. La madre, di salute cagionevole, dovette affidarlo, appena nato, a una balia del vicino paese di Montecucco e poi, quando lo riprese con sé a Torino, a un’altra balia, Vittoria Scaglione. Il padre morì di cancro al cervello il 2 gennaio del 1914; Cesare aveva cinque anni. La madre, di carattere autoritario, dovette allevare da sola i due figli: la sua educazione rigorosa contribuì ad accentuare il carattere già introverso di Cesare. Timido ed introverso, amante dei libri e della natura, vedeva il contatto umano come il fumo negli occhi, preferendo lunghe passeggiate nei boschi in cui osservava farfalle e uccelli. Un altro aspetto inquietante che si ricava dalla personalità del giovane Pavese è la sua già ben delineata “vocazione” al suicidio (quella che lui stesso chiamerà il “vizio assurdo”), che si riscontra in quasi tutte le lettere del periodo liceale, soprattutto quelle dirette all’amico Mario Sturani.Cesare rimase tre mesi a casa da scuola a causa di una pleurite, che si era preso rimanendo a lungo sotto la pioggia (dalle 6 del pomeriggio a mezzanotte) per aspettare invano una cantante-ballerina di varietà di nome Milly. L’anno seguente fu scosso profondamente dalla tragica morte di un suo compagno di classe, Elico Baraldi, che si era tolto la vita con un colpo di rivoltella. Compie gli studi a Torino, durante questi anni Cesare Pavese prende anche parte ad alcune iniziative politiche a cui aderisce con riluttanza e resistenza. Successivamente si iscrive all’Università nella Facoltà di Lettere. Dopo la laurea si dedica a un’intensa attività di traduzioni di scrittori americani. Nel 1931 Pavese perde la madre, in un periodo già pieno di difficoltà. Lo scrittore non è iscritto al partito fascista e la sua condizione lavorativa è molto precaria, viene condannato al confino per aver tentato di proteggere una donna iscritta al partito comunista; passa un anno a Brancaleone Calabro, dove inizia a scrivere il già citato diario “Il mestiere di vivere”.Tornato a Torino pubblica la sua prima raccolta di versi, “Lavorare stanca” (1936), quasi ignorata dalla critica; Il periodo compreso tra il 1936 e il 1949 la sua produzione letteraria è ricchissima. Nel frattempo incominciò a scrivere i racconti che verranno pubblicati postumi, dapprima nella raccolta “Notte di festa” e in seguito nel volume de I racconti. Fra il 27 novembre del 1936 e il 16 aprile del 1939 completò la stesura del suo primo romanzo breve tratto dall’esperienza del confino intitolato Il carcere. Nel 1940 l’Italia era intanto entrata in guerra e Pavese era coinvolto in una nuova avventura sentimentale con una giovane universitaria che era stata sua allieva al liceo D’Azeglio e che gli era stata presentata da Norberto Bobbio. La ragazza, giovane e ricca di interessi culturali, si chiamava Fernanda Pivano e colpì lo scrittore a tal punto che il 26 luglio le propose il matrimonio; e malgrado il rifiuto della giovane, l’amicizia continuò. Alla Pivano Pavese dedicò alcune poesie, tra le quali Mattino, Estate e Notturno, che inserì nella nuova edizione di Lavorare stanca. Lajolo scrive che “Per cinque anni Fernanda fu la sua confidente, ed è in lei che Pavese tornò a sperare per avere una casa ed un amore. Ma anche quella esperienza – così diversa – si concluse per lui con un fallimento. Alla fine della guerra si iscrive al Pci e pubblica sull’Unità “I dialoghi col compagno” (1945); Sempre nel 1949, scritto nel giro di pochi mesi e pubblicato nella primavera del 1950, scrisse La luna e i falò che sarà l’opera di narrativa conclusiva della sua carriera letteraria. Dopo essere stato per un brevissimo tempo a Milano, fece un viaggio a Roma dove si trattenne dal 30 dicembre del 1949, conobbe in casa di amici Constance Dowling, giunta a Roma con la sorella Doris, che aveva recitato in Riso amaro con Vittorio Gassman e Raf Vallone, e, colpito dalla sua bellezza, se ne innamorò. La donna lo convinse ad andare con lei a Cervinia, dove Pavese s’illuse di nuovo. Constance infatti aveva una relazione con l’attore Andrea Checchi e ripartì presto per l’America per tentare fortuna a Hollywood. nel 1950 pubblica “La luna e i falò”, vincendo nello stesso anno il Premio Strega con “La bella estate”. Pavese era terribilmente depresso. Il 17 agosto aveva scritto sul diario, pubblicato nel 1952 con il titolo Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950: «Questo il consuntivo dell’anno non finito, che non finirò» e il 18 agosto aveva chiuso il diario scrivendo: «Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più». In preda a un profondo disagio esistenziale, tormentato dalla recente delusione amorosa con Constance Dowling, alla quale dedicò i versi di Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, mise prematuramente fine alla sua vita il 27 agosto del 1950, in una camera dell’albergo Roma di Piazza Carlo Felice a Torino, che aveva occupato il giorno prima. Venne trovato disteso sul letto dopo aver ingerito più di dieci bustine di sonnifero. I temi ricorrenti della poetica di Pavese sono la sua infanzia nelle Langhe e il mondo contadino, nei quali vede un passato originario irrecuperabile, che cerca però di recuperare attraverso la scrittura. Nella sua vita, Cesare Pavese si sentì sempre estraneo al mondo e agli altri uomini, si sentiva altrove. Questa percezione deriva da un ossessivo scavo interiore, che lo porterà al suicidio. È un tipo di poesia, quello di Cesare Pavese, allo stesso tempo realistica e simbolica, nel senso che descrive una realtà ma allo stesso tempo rimanda a qualcos’altro di esterno, a un significato nascosto.
LAVORARE STANCA
Traversare una strada per scappare di casa lo fa solo un ragazzo, ma quest’uomo che gira tutto il giorno le strade, non è più un ragazzo e non scappa di casa.
Ci sono d’estate pomeriggi che fino le piazze son vuote, distese sotto il sole che sta per calare, e quest’uomo, che giunge per un viale d’inutili piante, si ferma. Val la pena esser solo, per essere sempre più solo? Solamente girarle, le piazze e le strade sono vuote. Bisogna fermare una donna e parlarle e deciderla a vivere insieme. Altrimenti, uno parla da solo. È per questo che a volte c’è lo sbronzo notturno che attacca discorsi e racconta i progetti di tutta la vita.
Non è certo attendendo nella piazza deserta che s’incontra qualcuno, ma chi gira le strade si sofferma ogni tanto. Se fossero in due, anche andando per strada, la casa sarebbe dove c’è quella donna e varrebbe la pena. Nella notte la piazza ritorna deserta e quest’uomo, che passa, non vede le case tra le inutili luci, non leva più gli occhi: sente solo il selciato, che han fatto altri uomini dalle mani indurite, come sono le sue. Non è giusto restare sulla piazza deserta. Ci sarà certamente quella donna per strada che, pregata, vorrebbe dar mano alla casa.
*In questi versi nello stile semplice che caratterizza il poeta, egli esprime uno dei suoi temi ricorrenti una profonda solitudine e incomunicabilità…la piazza deserta, nessuno con cui parlare, la necessità di un incontro per alleviare il vuoto…come sempre è l’amore che dovrebbe salvare, quell’amore tanto desiderato e che lui non riuscirà mai a trovare. Un poeta profondamente sensibile, troppo per la crudezza della vita e gli eventi che lo hanno travolto, con l’ombra incombente della depressione che alla fine lo ha sopraffatto.
Spesso i fardelli che ci portiamo addosso reali o presunti sono pesi che ci tengono legati alla terra ma basterebbe un po’ di fantasia per volare oltre e rendere la vita un po’ più serena
Lasciati portare via, taglia la pesantezza delle catene che t’inchiodano alla terra e vola! Questa è una semplice realtà con i suoi limiti ma c’è altro, spezza le catene e liberati! Lascia che prevalga il sogno di un cuore bambino. Viaggia con gli occhi della fantasia, apri l’anima e ci saranno altri mondi, altre vite e colori e stelle e cieli nuovi, tanta bellezza che non ci sarà più spazio per il buio.
Pianto antico è una celebre poesia di Giosuè Carducci dedicata a suo figlio che dovrebbe, secondo la data riportata sul testo autografo, risalire a giugno 1871. Inserita nella raccolta Rime nuove del 1887, si tratta del quarantaduesimo componimento. Il piccolo Dante, così si chiamava il bambino, morì che aveva soli tre anni a causa, probabilmente, del tifo. Nella poesia si nota sin dall’inizio la fortissima opposizione tra vita e morte, data dall’antitesi simmetrica che Carducci crea tra immagini vitali e luminose, che si accumulano nelle prime due strofe, e quelle scure e morenti presentate nelle ultime due strofe.
Pianto antico
L’albero a cui tendevi la pargoletta mano, il verde melograno da’ bei vermigli fior,
nel muto orto solingo rinverdì tutto or ora, e giugno lo ristora di luce e di calor.
Tu fior de la mia pianta percossa e inaridita, tu de l’inutil vita estremo unico fior,
sei ne la terra fredda, sei ne la terra negra né il sol più ti rallegra né ti risveglia amor.
*Tocca il cuore la disperazione racchiusa in ogni verso, che il poeta non superò mai. Quel figlio adorato e desiderato che giocava allegro in giardino lo rivede in ogni primavera ma se la terra rinasce e rifiorisce, chi muore non torna e rimane nel buio della nuda terra.
Il 27 luglio 1835 nasceva Giosuè Carducci, poeta, scrittore, critico letterario e accademico italiano, nonché primo italiano a vincere il Premio Nobel per la letteratura, e primo italiano in assoluto, insieme a Camillo Golgi, a vincere il Nobel nel 1906.
Giuseppe Carducci (Valdicastello, 27 luglio 1835 – Bologna, 16 febbraio 1907) è stato un poeta, scrittore, critico letterario e accademico italiano. Giosuè Carducci nacque la sera del 27 luglio 1835, venendo battezzato nella chiesa locale il giorno successivo. La scelta del nome fu contesa dai genitori; il padre voleva chiamare il nascituro Giosuè, come un amico reincontrato, dopo parecchio tempo, durante la gravidanza della moglie, mentre Ildegonda avrebbe preferito Alessandro, come suo padre in quel momento gravemente malato. La spuntò Michele, ma Alessandro fu comunque il secondo nome del futuro poeta. Giuseppe, il terzo nome, gli fu assegnato in omaggio al nonno paterno. Il piccolo Giosuè cresceva già mostrando in nuce le caratteristiche che lo contraddistingueranno per tutta la vita: ribelle, selvatico, amante della natura. Michele, il padre, disponeva di una discreta biblioteca, in cui si riflettevano le predilezioni classico-romantiche e quelle rivoluzionarie. Qui Carducci poté voracemente impegnarsi nelle prime letture, e scoprire l’Iliade, l’Odissea, l’Eneide, la Gerusalemme liberata, la Storia romana di Charles Rollin e la Storia della Rivoluzione francese di Adolphe Thiers. Nei dieci anni a Bolgheri la famiglia visse in povertà e non era possibile per Giosuè frequentare le scuole; il padre incaricò così il sacerdote Giovanni Bertinelli di dargli lezioni di latino durante il giorno, mentre la sera era direttamente Michele a impartirgli l’insegnamento della lingua romana che il giovane amò profondamente sin dall’inizio.Già in questi anni cominciò a cimentarsi nella composizione di qualche verso, la Satira a una donna (1845) e l’appassionato Canto all’Italia (1847). La permanenza nella Maremma è testimoniata e rievocata con affettuosa nostalgia nel sonetto “Traversando la Maremma toscana” (1885) e in molti altri luoghi della sua poesia. Del nucleo familiare fa anche parte la celeberrima Nonna Lucia, una figura determinante nell’educazione e formazione del piccolo Giosuè tanto che il poeta la ricorda con grande affetto nella poesia “Davanti San Guido”. Il 28 aprile 1849 i Carducci giungono a Firenze. Giosuè frequenta l’Istituto degli Scolopi e conosce la futura moglie Elvira Menicucci, figlia di Francesco Menicucci. L’11 novembre 1853 il futuro poeta entra alla Scuola Normale di Pisa. Dopo la laurea, conseguita con il massimo dei voti, insegna retorica al liceo di San Miniato al Tedesco. La sera di mercoledì 4 novembre si uccide il fratello Dante squarciandosi il petto con un bisturi affilatissimo, l’anno dopo, muore anche il padre. Un anno di lutto e il poeta finalmente si sposa con Elvira. In seguito, dopo la nascita delle figlie Beatrice e Laura, si trasferisce a Bologna, un ambiente assai colto e stimolante, dove insegna eloquenza italiana all’Università. Nasce anche il figlio Dante che però muore in giovanissima età. Carducci è duramente colpito dalla sua morte: nel giugno 1871 ripensando al figlio perduto compone “Pianto antico”. Negli anni ’60, lo scontento provocato in lui dalla debolezza dimostrata, a suo giudizio, in più occasioni dal governo postunitario sfociò in una ricca attività poetica a sfondo sociale e politico. Negli anni successivi Carducci passa da un atteggiamento violentemente polemico e rivoluzionario a un ben più tranquillo rapporto con lo stato e la monarchia che culmina nel 1890 con la nomina a senatore del regno. Nel 1906 al poeta viene assegnato il Premio Nobel per la Letteratura, le condizioni di salute non gli consentono di recarsi a Stoccolma per ritirare il premio che gli viene consegnato nella sua casa di Bologna. Si racconta che, sebbene stanco e malato, l’anziano poeta non avesse però perso la forza dialettica e il carattere deciso. Pare che, subito dopo aver ricevuto la visita del messo dell’Accademia di Svezia che gli portava la notizia del premio Nobel, come prima cosa abbia detto alla moglie: “Hai visto che non sono un cretino come tu hai sempre sostenuto?” Il 16 febbraio 1907 Giosuè Carducci muore a causa di una cirrosi epatica nella sua casa di Bologna, all’età di 72 anni.
L’amore per la patria al di sopra di tutto: se si comprende a fondo questo motto la poetica carducciana risulta già spiegata nelle sue linee essenziali. Si aggiunga un innato amore per il bello, per la natura, un’incondizionata adesione alla vita nelle sue espressioni più genuine, e il quadro potrà dirsi completo. Il sentimento della vita, con i suoi valori di gloria, amore, bellezza ed eroismo, è senza dubbio la maggior fonte d’ispirazione del poeta, ma accanto a questo tema, non meno importante è quello del paesaggio.
Un altro grande tema dell’arte carducciana è quello della memoria che non fa disdegnare al poeta vate la nostalgia delle speranze deluse e il sentimento di tutto quello che non c’è più, anche se tutto viene accettato come forma della vita stessa
Il 23 novembre 1872 il poeta Giosuè Carducci scrisse un sonetto dal titolo “Il bove”, nel quale esponeva la propria concezione morale ed etica del mondo. Il componimento rappresenta una chiara sintesi dello stile e della poetica di Giosuè Carducci. Con poche e pittoresche pennellate il poeta ritrae un maestoso bue che incede lentamente attraverso un campo coltivato. Nella figura mansueta dell’animale Carducci condensa la propria concezione del mondo, fondata sull’osservanza dei principi etici e morali e sulla serenità dell’animo.
T’amo, o pio bove; e mite un sentimento Di vigore e di pace al cor m’infondi, O che solenne come un monumento Tu guardi i campi liberi e fecondi,
0 che al giogo inchinandoti contento L’agil opra de l’uom grave secondi: Ei t’esorta e ti punge, e tu co ’l lento Giro de’ pazienti occhi rispondi.
Da la larga narice umida e nera Fuma il tuo spirto, e come un inno lieto Il mugghio nel sereno aer si perde;
E del grave occhio glauco entro l’austera Dolcezza si rispecchia ampio e quieto Il divino del pian silenzio verde.
*Versi meravigliosi, incantevoli, bellissima immagine, una metafora profonda e di grande significato, spesso la meraviglia del divino non si trova in chissà quale manifestazione eclatante ma il poeta la trova nella paziente mansuetudine di quest’animale e nel suo sereno lavoro. Capolavoro del vate della letteratura italiana, una grande figura della cultura mondiale.
Spesso diamo per scontato quello che avviene ogni giorno, siamo talmente abituati alla luce del sole, all’alternarsi del mattino e della sera…delle stagioni che non ci fermiamo nemmeno un attimo per goderne, un solo istante, ad occhi chiusi, in silenzio…per percepire il respiro del cielo.
Volgo il viso al sole accecata chiudo gli occhi, godendo la calda carezza che avvolge il mio corpo freddo. È luce che invade ogni angolo. È il sorriso che dal cielo richiama la terra, la trae a sé per abbracciarla. Il miracolo della vita che ancora si rinnova, finché il giorno troverà luce e la terra calore.
Giovanni Francesco Rodari, detto Gianni ( Omegna, 23 ottobre 1920 – Roma, 14 aprile 1980), è stato uno scrittore, pedagogista, giornalista e poeta italiano, specializzato in letteratura per l’infanzia e tradotto in molte lingue. Unico scrittore italiano ad aver vinto il prestigioso Premio Hans Christian Andersen nel 1970. Gianni Rodari nacque il 23 ottobre 1920 a Omegna, sul lago d’Orta, da Giuseppe Rodari, fornaio che possedeva il negozio in via Mazzini, via principale di Omegna, sposato in seconde nozze con Maddalena Aricocchi, commessa nella bottega paterna. Nel 1931 la madre lo fece entrare nel seminario cattolico di San Pietro Martire di Seveso in provincia di Milano, ma comprese ben presto che non era la strada giusta per il figlio e nel 1934 lo iscrisse alle magistrali. Nel 1937 Rodari si diplomò come maestro presso Gavirate. Nel 1938 fece il precettore a Sesto Calende, presso una famiglia di ebrei tedeschi fuggiti dalla Germania. Come egli stesso raccontò, la sua scuola non fu grandiosa a causa della sua giovane età, tuttavia si rese conto che fu una scuola divertente dove i bambini utilizzavano la fantasia addirittura per aiutarlo a correggere le sue stesse opere. Durante la seconda guerra mondiale, venne esonerato dal servizio militare a causa della salute cagionevole. Dopo il 25 aprile 1945, iniziò la carriera giornalistica in Lombardia, dapprima con il giornaletto ciclostilato Cinque punte, poi dirigendo L’Ordine Nuovo, periodico della Federazione Comunista di Varese. Nel 1947, approdò a l’Unità di Milano, su cui, due anni dopo, iniziò a curare la rubrica “La domenica dei piccoli” In piena guerra fredda, nel 1951, la pubblicazione del suo primo libro pedagogico Il manuale del Pioniere, provocὸ aspre reazioni da parte della stampa cattolica, tanto che le parrocchie arrivavano a bruciare nei cortili il Pioniere e i suoi libri. Il 25 aprile 1953 sposò la modenese Maria Teresa Ferretti, segretaria del Gruppo Parlamentare del Fronte Democratico Popolare, dalla quale avrà la figlia Paola nel 1957, e il 13 dicembre dello stesso anno fondò Avanguardia, giornale nazionale della FGCI. Nel 1970 vinse il Premio Hans Christian Andersen. Nel 1973 uscì il suo capolavoro pedagogico: Grammatica della fantasia, saggio indirizzato a insegnanti, genitori e animatori, nonché frutto di anni di lavoro passati a relazionarsi con il campo della “fantastica”. Nel 1976, insieme alla partigiana e giornalista Marisa Musu, fondò l’associazione di promozione sociale denominata Coordinamento Genitori Democratici, una ONLUS impegnata ad insegnare e praticare i valori di una scuola antifascista, laica e democratica, membro del Forum nazionale delle associazioni dei genitori nella scuola, istituito in seno al Ministero della Pubblica Istruzione. Il 10 aprile 1980 venne ricoverato in una clinica a Roma per potersi sottoporre a un intervento chirurgico alla gamba sinistra, data l’occlusione di una vena; morì quattro giorni dopo, il 14 aprile, per shock cardiogeno, all’età di 59 anni. Gianni Rodari, scrittore e giornalista famoso per fantasia e originalità, attraverso racconti, filastrocche e poesie, divenute in molti casi classici per ragazzi, ha contribuito a rinnovare profondamente la letteratura per ragazzi. Dal libro La Freccia Azzurra è stato tratto un omonimo film d’animazione nel 1996. Il successo raccolto dall’autore in Unione Sovietica ha portato anche in quel Paese alla realizzazione di cartoni animati tratti dalle opere di Rodari, come Cipollino.
I versi di Gianni Rodari sono unici nel loro genere, comunicano dei messaggi estremamente profondi attraverso un linguaggio semplice e diretto; in questo caso, i versi che compongono la filastrocca Il maestro giusto sottolineano l’importanza di trovare, lungo il proprio cammino, un maestro che sappia coltivarci nel migliore dei modi;
Il maestro giusto
C’era una volta un cane che non sapeva abbaiare. Andò da un lupo a farselo spiegare. Ma il lupo gli rispose con un tale ululato che lo fece scappare spaventato. Andò da un gatto, andò da un cavallo, e, mi vergogno a dirlo, perfino da un pappagallo.
Imparò dalle rane a gracidare, dal bove a muggire, dall’asino a ragliare, dal topo a squittire, dalla pecora a fare “bè bè”, dalle galline a fare “coccodè”.
Imparò tante cose, però non era affatto soddisfatto e sempre si domandava (magari con un “qua qua”): “Che cos’è che non va?”.
Qualcuno gli risponda, se lo sa. Forse era matto? O forse non sapeva scegliere il maestro adatto?
*Come non dargli ragione? Lo “scrittore maestro” che ha dedicato una vita ai valori pedagogici dell’insegnamento, dando importanza ai bimbi e trovando il linguaggio adatto per comunicare con loro e stimolare la loro fantasia. Questo fa il giusto maestro. Attraverso la fantasia, poesie divertenti e filastrocche, Rodari è entrato nel mondo dei piccoli e li ha saputi ascoltare cercando poi d’insegnare ai grandi quello che spesso dimenticano.
La sfida ambientale, legata alla conservazione delle risorse del pianeta, rappresenta un obiettivo da cui le future generazioni non possono più sottrarsi. Ci troviamo in un’epoca che impone al mondo intero, scelte radicalmente diverse da quelle compiute in passato. Questa nuova consapevolezza non può che iniziare dalla scuola e dagli alunni di tutte le età. Quindi quale mezzo migliore per coinvolgere i bambini di una favola di Gianni Rodari. “Una viola al Polo Nord” è un racconto tratto da Favole al telefono e contiene un tema di grande attualità: il cambiamento climatico. Già negli anni in cui Rodari lo ha scritto il problema era noto, ma certamente l’atteggiamento dell’opinione pubblica era diverso rispetto a quello di oggi.
Protagonista della storia è una viola mammola che spunta tra i ghiacci del Polo Nord. Grande è lo stupore dei suoi abitanti alla vista di questo «piccolo, strano essere profumato, di colore violetto» comparso all’improvviso e che resiste almeno due giorni prima di morire in questo ambiente non proprio favorevole a lui. Il racconto fa riflettere sul clima, perché descrive uno scenario che potrebbe presentarsi nel futuro non si sa quanto prossimo.
Una viola al Polo Nord
Una mattina al Polo Nord, l’orso bianco fiutò nell’aria un odore insolito e lo fece notare all’orsa maggiore (la minore era sua figlia). «Che sia arrivata qualche spedizione?». Furono invece gli orsacchiotti a trovare la viola. Era una piccola violetta mammola e tremava di freddo, ma continuava coraggiosamente a profumare l’aria, perché quello era il suo dovere. «Mamma, papà» gridarono gli orsacchiotti. «Io l’avevo detto subito che c’era qualcosa di strano», fece osservare per prima cosa l’orso bianco alla famiglia. «E secondo me non è un pesce». «No di sicuro – disse l’orsa maggiore, – ma non è nemmeno un uccello». «Hai ragione anche tu», disse l’orso dopo averci pensato su un bel pezzo. Prima di sera si sparse per tutto il Polo la notizia: un piccolo, strano essere profumato, di colore violetto, era apparso nel deserto di ghiaccio, si reggeva su una sola zampa e non si muoveva. A vedere la viola vennero foche e trichechi, vennero dalla Siberia le renne, dall’America i buoi muschiati, e più di lontano ancora volpi bianche, lupi e gazze marine. Tutti ammiravano il fiore sconosciuto, il suo stelo tremante, tutti aspiravano il suo profumo, ma ne restava sempre abbastanza per quelli che arrivavano ultimi ad annusare, ne restava sempre come prima. «Per mandare tanto profumo, – disse una foca – deve avere una riserva sotto il ghiaccio». «Io l’avevo detto subito – esclamò l’orso bianco – che c’era sotto qualcosa». Non aveva proprio detto così, ma nessun se ne ricordava. Un gabbiano, spedito al Sud per raccogliere informazioni, tornò con la notizia che il piccolo essere profumato si chiamava viola e che in certi paesi, laggiù, ce n’erano milioni. «Ne sappiamo quanto prima», osservò la foca. «Com’è che questa viola è arrivata proprio qui? Vi dirò tutto il mio pensiero: mi sento alquanto perplessa» «Come ha detto che si sente?», domandò l’orso bianco a sua moglie. «Perplessa. Cioè, non sa che pesci pigliare». «Ecco – esclamò l’orso bianco – proprio quello che penso io». Quella notte corse per tutto il Polo un pauroso scricchiolio. I ghiacci eterni tremavano come vetri e in più punti si spaccarono. La violetta mandò un profumo più intenso, come se avesse deciso di sciogliere in una sola volta l’immenso deserto gelato, per trasformarlo in un mare azzurro e caldo, o in un prato di velluto verde. Lo sforzo la esaurì. All’alba fu vista appassire, piegarsi sullo stelo, perdere il colore e la vita. Tradotto nelle nostre parole e nella nostra lingua il suo ultimo pensiero dev’essere stato pressappoco questo «Ecco, io muoio… Ma bisognava che qualcuno cominciasse… Un giorno le viole giungeranno qui a milioni. I ghiacci si scioglieranno, e qui ci saranno isole, case e bambini».
*Una favola molto originale ma anche drammaticamente attuale. Lo stravolgimento del clima sta causando tante stranezze e non sono nemmeno così inaspettate. Non fa freddo nemmeno sulle cime delle Alpi che si vanno sciogliendo… già ai tempi di Rodari esisteva il problema ma non l’impegno a trovare un rimedio. Quindi non è del tutto così assurdo che possano nascere violette al Polo Nord e come lui predice sarà il primo passo verso un nuovo assetto della geografia terrestre.
“La vita è fatta d’aria, un soffio e via, e del resto anche noi non siamo nient’altro che un soffio, respiro, poi un giorno la macchina si ferma e il respiro finisce.” ANTONIO TABUCCHI
“A volte bisogna che ci manchi l’aria per farci ricordare che non siamo morti e che c’è ancora qualche vita da vivere.” JEAN-PAUL MALFATTI
L’aria che aspiriamo è come un “boccone”, un boccone pieno di forze inaudite. Se la si espelle troppo in fretta, i polmoni non possono “cuocerla”, “digerirla”, assimilarla a sufficienza perché l’organismo possa beneficiare delle forze in essa contenute. Ecco il motivo per cui tante persone sono stanche, nervose, irritabili: non sanno nutrirsi correttamente di aria, non la “masticano”, la espellono immediatamente. Omraam Mikhaël Aïvanhov, Discorsi, 1938/86
Acqua, aria e igiene sono gli articoli principali della mia farmacia. Napoleone Bonaparte
L’aria la respiri, non puoi toccare l’aria, non la vedi, ma che cosa preziosa l’aria che respiri. La percepisci l’aria che ti accarezza la pelle, puoi sentirne l’odore che t’inebria. Ami quell’aria così necessaria, la respiri e ti tiene in vita. Non puoi toccarla l’aria ma non potresti mai farne a meno. Ecco, molte volte, ciò che di prezioso e fondamentale abbiamo nella nostra vita, ne possiamo solo percepirne l’essenza.
L’inquinamento atmosferico è la presenza nell’atmosfera terrestre, di agenti fisici (come il carbonioso), chimici (come gli idrocarburi) e inquinanti biologici (come per esempio l’antrace) che modificano le caratteristiche naturali atmosferiche causando un effetto dannoso su esseri viventi e ambiente. L’inquinamento atmosferico è causato dalla diffusione nell’atmosfera di gas e polveri sottilissime. Le principali fonti di inquinamento aria sono le attività industriali, gli impianti per la produzione di energia, gli impianti di riscaldamento e il traffico che sono tutte attività dell’uomo. Le aree più colpite sono le grandi aree urbane dove si concentrano industrie, traffico e riscaldamento. Il fenomeno dello smog (dall’unione delle due parole inglesi smoke “fumo” e fog “nebbia”) è una conseguenza dell’inquinamento atmosferico nei centri urbani. Tra le principali fonti di rilascio di inquinanti nell’atmosfera si annoverano gli impianti chimici industriali, gli inceneritori, i motori a scoppio degli autoveicoli, le combustioni in genere. Gli inquinanti hanno un ruolo in molte patologie a carico dell’apparato polmonare, cardiocircolatorio e del sistema immunitario. L’inquinamento dell’aria causa da solo ogni anno 2,1 a 4,21 milioni di morti. L’inquinamento atmosferico mondiale provoca la morte di circa 7 milioni di persone ogni anno.
1954 – Odi elementari 1954 – ODI ELEMENTARI
Ode all’aria
Camminando per un cammino incontrai l’aria, la salutai e le dissi con rispetto: « Mi rallegro che per una volta lasci la tua trasparenza, così parleremo ». Essa, instancabile, ballò, mosse le foglie, scosse con il suo riso la polvere dalle mie suole e, alzando tutta la sua azzurra alberatura, il suo scheletro di vetro, le sue palpebre di brezza, immobile come un palo si fermò ad ascoltarmi. Le baciai la cappa di regina del cielo, mi avvolsi nella sua bandiera di seta celestiale e le dissi: regina o compagna, filo, corolla o uccello, non so chi sei, ma una cosa ti chiedo, non venderti. L’acqua si vendette e dalle tubature nel deserto ho visto esaurirsi le gocce, e il mondo povero, il popolo ho visto camminare con la sua sete barcollando sulla sabbia. Ho visto la luce della notte razionata, la gran luce nella casa dei ricchi. Tutto è aurora nei nuovi giardini sospesi, tutto è oscurità nella terribile ombra del vicolo. Da lì la notte, madre matrigna, esce con un pugnale in mezzo ai suoi occhi di gufo, e un grido, un assassinio si levano e si smorzano inghiottiti dall’ombra. No, aria, non venderti, che non ti canalizzino, che non t’imprigionino in tubi e in serbatoi né ti comprimano, che non ti riducano in tavolette, che non ti mettano in bottiglie, sta’ attenta! chiamami, quando hai bisogno di me, io sono il poeta figlio di poveri, padre, zio, cugino, fratello carnale e fratello del cognato dei poveri, di tutti, della mia patria e della patria degli altri, dei poveri che vivono vicino al fiume, e di quelli che sulla sommità della cordigliera verticale triturano la pietra inchiodano tavole, cuciono vesti, tagliano legna, macinano terra, e per questo voglio che respirino, tu sei l’unica cosa che possiedono, per questo sei trasparente, perché vedano ciò che accadrà domani, per questo esisti, aria, lasciati respirare liberamente, non farti imprigionare, non fidarti di quelli che vengono in automobile ad esaminarti, lasciali perdere, ridi di loro, fa’ volar via il loro cappello, non accettare le loro proposte, andiamo insieme a ballare per il mondo, a far cadere i fiori del melo, a penetrare nelle finestre, a fischiare insieme, a fischiare melodie di ieri e di domani! verrà un giorno in cui libereremo la luce e l’acqua, la terra, l’uomo, e tutto sarà per tutti, come tu sei. Per questo, ora, fa’ attenzione! e vieni con me, ci rimane molto da ballare e cantare, andiamo nel mare aperto, nell’alto dei monti, andiamo dove sta per fiorire la nuova primavera e con un colpo di vento ed un canto ripartiamo i fiori, l’aroma, i frutti, l’aria di domani.
*Aria, dovresti essere libera e pura per la vita di tutti gli esseri viventi. No, non ti sei venduta ma ti hanno tradita, violata, sporcata…ti stanno avvelenando giorno per giorno nonostante tu sia così necessaria… chissà come scrive il Neruda, arriverà il tempo in cui l’uomo capirà e libererà tutto luce, acqua, terra, aria ai giorni di domani.
L’amore comincia dallo sguardo, negli occhi si riflette l’anima che cerca l’anima a cui congiungersi e a cui appartiene.
Quando ti vedo non è solo vederti. Vederti è come assorbirti perché in te mi espando. Anima che nell’anima si riflette e ad essa si ricongiunge in un eterno riconoscersi.
L’olio d’oliva. Persino Pablo Neruda, il grande poeta Cileno, ha tratto ispirazione dall’olio d’oliva. Evidentemente oltre ai benefici del gusto e a quelli salutari, l’olio provoca benessere anche all’animo umano. Si definisce Extravergine di Oliva l’olio ottenuto dalla prima spremitura di olive attraverso processi meccanici, quindi senza ricorso a processi o sostanze chimiche, in condizioni che non causino alterazioni dell’olio e la cui acidità libera, espressa in acido oleico, non risulti superiore all’0,8%. Ben diverso invece dall’olio di oliva che è invece composto da una parte di olio vergine e da una parte di olio raffinato, per non parlare dell’olio di sansa di oliva che subiscono processi chimici e alterazioni termiche. I polifenoli e gli acidi grassi polinsaturi contenuti al suo interno, hanno un effetto di riduzione del colesterolo totale e l’ossidazione delle LDL prevenendo l’aterosclerosi, dell’insulinemia e della pressione arteriosa. Stimolando la contrazione della colecisti, aiuta la digestione in particolare dei lipidi, migliora l’acidità gastrica in caso di ulcere e gastrite ha un effetto benefico, e può essere utile anche nel mantenimento della regolarità della funzione intestinale, accelerando il transito del cibo.
Ode all’Olio 1956 – NUOVE ODI ELEMENTARI
Accanto al frusciare del cereale, tra le onde del vento sull’avena, l’ulivo dal volume argentato, stirpe austera, nel suo ritorto cuore terrestre: le gracili ulive lucidate dalle dita che fecero la colomba e la chiocciola marina: verdi, innumerevoli, purissimi picciuoli della natura, e lì negli assolati uliveti, dove soltanto cielo azzurro con cicale e terra dura esistono, lì il prodigio, la capsula perfetta dell’uliva che riempie il fogliame con le sue costellazioni: più tardi i recipienti, il miracolo, l’olio. Io amo le patrie dell’olio, gli uliveti di Chacabuco in Cile, al mattino le piume di platino forestali contro la rugosa cordigliera, ad Anacapri, là su, nella luce tirrena, la disperazione degli ulivi, e nella carta d’Europa, la Spagna, cesta nera di olive spolverata di fiori d’arancio come da una ventata marina.
Olio, recondita e suprema condizione della pentola, piedistallo di pernici, chiave celeste della maionese, delicato e saporito sulle lattughe e soprannaturale nell’inferno degli arcivescovili pesciprete.
Olio, nella nostra voce, nel nostro coro, con intima mitezza possente tu canti: sei lingua castigliana: ci sono sillabe di olio, ci sono parole utili e profumate come la tua fragrante materia.
Non soltanto il vino canta, anche l’olio canta, vive in noi con la sua luce matura e tra i beni della terra io seleziono, olio, la tua inesauribile pace, la tua essenza verde, il tuo ricolmo tesoro che discende dalle sorgenti dell’ulivo.
*Come poteva mancare tra gli alimenti cantati, in modo così stupendo, dal grande poeta cileno, l’olio, l’oro della terra, il più nobile. L’ulivo celebrato fin dall’antichità, pianta millenaria e generosa, ambasciatrice di pace. Ci sono sillabe profumate nella sua parola come la sua essenza.
Circa un milione di specie viventi (su un totale stimato di circa 8,7 milioni) sono minacciate dall’estinzione e la biodiversità di diversi ecosistemi sono in pericolo a causa delle emissioni di CO2 sempre più alte. L’attuale ritmo di estinzione delle specie fa ritenere gli scienziati che siamo di fronte alla sesta grande estinzione massa. Molti ecosistemi sono stati distrutti, degradati, frammentati e solo una piccola percentuale è rimasta intatta.
West India Manatees of the Crystal River
Il termine lamantino viene utilizzato per chiamare un mammifero acquatico dall’aspetto dolce e tenero. Il lamantino è caratterizzato da una coda tondeggiante che ricorda la forma di una racchetta ed è sprovvisto della terza vertebra cervicale.
Le narici sono inoltre situate all’estremità del muso e i suoi denti sono tutti uguali fra loro, senza canini e incisivi, i quali vengono sostituiti per tutto il corso della sua vita, la cui aspettativa corrisponde a cinquanta-sessant’anni.
Un lamantino adulto può raggiungere un peso di circa cinquecento chili e una lunghezza di tre metri. In base alla specie, l’habitat del lamantino può essere l’America del Sud (a patto che i Paesi siano bagnati dal Rio delle Amazzoni), la Florida, l’Angola e il Senegal. Questo simpaticissimo mammifero rischia l’estinzione a causa di diversi fattori, in primis la scarsità di piante marine e alghe nelle acque da esso popolate. Ma non è tutto, in quanto può succedere che, dati i suoi movimenti estremamente lenti e la bassa profondità dell’acqua in cui è solito nuotare (non supera mai i cinque metri), si scontri contro le imbarcazioni e ingerisca senza accorgersene dei materiali da pesca, basti pensare alle reti e ai fili di nylon impiegati dai pescatori.
Inutile dire che gli oggetti in plastica danneggiano irrimediabilmente il suo apparato digerente fino a causarne il decesso.
La lirica Versicoli quasi ecologici appartiene alla raccolta Res Amissa e tratta del rapporto tra uomo e natura. In particolare, nella prima parte il poeta ammonisce l’uomo invitandolo a non devastare l’ambiente e a non esaltare chi per profitto non rispetta flora e fauna. Tali comportamenti negativi hanno ripercussioni su ogni aspetto della natura, dal mare con i lamantini, al cielo ventoso con la libellula fino alla terra con il galagone sul pino. Inoltre esprime dissenso per chi “fulmina un pesce per un profitto vile”, per chi uccide senza ritegno per motivi futili o addirittura inesistenti come la ricerca di gloria e approvazione. Si può dunque cogliere un riferimento alla società moderna che tende a premiare ed esaltare comportamenti irrispettosi nei confronti dell’ambiente.
Versicoli quasi ecologici – Giorgio Caproni Non uccidete il mare, la libellula, il vento. Non soffocate il lamento (il canto!) del lamantino. Il galagone, il pino: anche di questo è fatto l’uomo. E chi per profitto vile fulmina un pesce, un fiume, non fatelo cavaliere del lavoro. L’amore finisce dove finisce l’erba e l’acqua muore. Dove sparendo la foresta e l’aria verde, chi resta sospira nel sempre più vasto paese guasto: “Come potrebbe tornare a essere bella, scomparso l’uomo, la terra”
*La poesia di denuncia è la più alta forma di comunicazione e in ogni tempo i poeti ne hanno fatto uso per esprimere il loro pensiero. Cosa è più urgente e importante oggi della tutela dell’ambiente anche se sembra che il problema non esiste come tante altre cose su cui è più facile chiudere occhi e orecchie… purtroppo il caldo insopportabile di questi giorni è un campanello d’allarme che difficilmente può essere sottovalutato.
Ode alla patata – (Nuove Odi Elementari, 1955) Pablo Neruda
PAPA, ti chiami papa e non patata, non nascesti castigliana: sei scura come la nostra pelle, siamo americani, papa, siamo indios. Profonda e soave sei, polpa pura, purissima rosa bianca sepolta, fiorisci là dentro nella terra, nella tua piovosa terra originaria…
Papa materia dolce, mandorla della terra…
Onorata sei come una mano che lavora nella terra, familiare sei come una gallina, compatta come un formaggio che la terra produce nelle sue mammelle nutrici, nemica della fame, in tutte le nazioni si piantò la sua bandiera vittoriosa…
Universale delizia, non aspettavi il mio canto, perché sei sorda e cieca e sepolta. A malapena parli nell’inferno dell’olio o canti nelle fritture dei porti, vicino alle chitarre, silenziosa, farina della notte sotterranea, tesoro infinito dei popoli.
Meravigliosa scoperta questo mondo di semplici ortaggi che il nostro sommo poeta traduce in perle di versi. La patata o papa…eh sì ormai è così comune sulle nostre tavole, coltivata nei nostri campi che dimentichiamo che non ci appartiene, ha l’animo americano questa delizia prodotta dalle mammelle della terra, tesoro infinito dei popoli.
Oh pienezza dei miei giorni pensiero intenso, impetuoso come vento che scuote ogni singolo ramo. Terra in cui affondo radici per nutrirmi e sostenere il peso della vita. Cosa potrà il tempo, cosa le stagioni, se la tua ombra avvolge le mie spalle e a te mi abbandono. Il cuore trema e grida una gioia senza voce, e bevo l’aria che la tua essenza quasi mi sottrae.
Imma Paradiso Immagine: “I due amanti” Marc Chagall
Già sono buone, se poi un grande poeta ci compone dei versi, creando un’immagine deliziosa facendocele assaporare, coglierne l’odore e il suono allegro dello sfrigolio della frittura allora è un invito irrinunciabile.
Ode alle patate fritte, da “Navegaciones y regresos (1957-1959)”, Pablo Neruda
Scoppietta nell’olio friggendo l’allegria del mondo: le patate fritte entrano nella padella come candide piume del cigno del mattino ed escono semidorate dalla crepitante ambra delle ulive.
L’aglio aggiunge ad esse la sua terrena fragranza, il pepe, polline che attraversò le scogliere, e vestite a nuovo con abito d’avorio, riempiono il piatto ripetendo l’abbondanza e la saporita semplicità della terra.
Ogni poeta ha un “Maestro” da cui si sente particolarmente “attratto” poeticamente. Emily è ispirazione per tanti, lo è sicuramente per me. Ci accomuna questa esigenza di riservatezza, di estraneità dal clamore esterno, questo sguardo incantato all’amore, alla vita.
E nel fulgore di un’assolata e ridente mattinata “Ho preso un sorso di vita”. Non chiedo altro c’è un cielo terso, sereno, la luce che mi avvolge il cuore, un verso che mi accarezza. “Ho preso un sorso di vita” da chi mi ha preceduta e ha trasformato le emozioni in sorgenti di forza viva che bagnano la mia bocca riarsa. Ho fame di mordere il mio tempo, ho sete di questa vita, che è lunga il cammino di un soffio, e se mi ferirò per i sassi asciugherò le lacrime con i sogni che mi regalerà la notte.
Imma Paradiso (Ispirata ad un verso di Emily Dickinson)
Ode al carciofo, da “Odi elementari” (1954) PABLO NERUDA – Ode al carciofo
Il carciofo dal tenero cuore si vestì da guerriero, ispida edificò una piccola cupola, si mantenne all’asciutto sotto le sue squame, vicino al lui i vegetali impazziti si arricciarono, divennero viticci, infiorescenze commoventi rizomi; sotterranea dormì la carota dai baffi rossi, la vigna inaridì i suoi rami dai quali sale il vino, la verza si mise a provar gonne, l’origano a profumare il mondo, e il dolce carciofo lì nell’orto vestito da guerriero, brunito come bomba a mano, orgoglioso, e un bel giorno, a ranghi serrati, in grandi canestri di vimini, marciò verso il mercato a realizzare il suo sogno: la milizia. Nei filari mai fu così marziale come al mercato, gli uomini in mezzo ai legumi coi bianchi spolverini erano i generali dei carciofi, file compatte, voci di comando e la detonazione di una cassetta che cade, ma allora arriva Maria col suo paniere, sceglie un carciofo, non lo teme, lo esamina, l’osserva contro luce come se fosse un uovo, lo compra, lo confonde nella sua borsa con un paio di scarpe, con un cavolo e una bottiglia di aceto finché, entrando in cucina, lo tuffa nella pentola. Così finisce in pace la carriera del vegetale armato che si chiama carciofo, poi squama per squama spogliamo la delizia e mangiamo la pacifica pasta del suo cuore verde.
*Dopo il pomodoro, il carciofo, con quale maestrìa riesce a cantare, il poeta cileno, le piccole cose della natura…il carciofo questo piccolo guerriero dalla dura armatura e il cuore tenero, che fa tanto bene.
In un breve componimento scritto nel 1863 Emily Dickinson, la poetessa di Amherst, trasforma l’eternità in una visione concreta. Ci sono concetti che sfuggono alla limitata comprensione umana: come l’infinito, l’eterno e la morte. Abbiamo certo una percezione della loro esistenza, ma riusciamo a malapena a pensarla e a concepirla nella sua ineludibile vastità. L’immensa superficie marina con i suoi abissi e i suoi tumulti diventa una metafora dell’eternità, lo specchio riflesso di un pensiero troppo grande e profondo persino per essere pensato. Attraverso le parole di Dickinson invece l’eterno diventa un concetto semplice, elementare, che può essere scomposto e spiegato. L’eternità espressa dalla poetessa di Amherst è un concetto temporale che viene reso attraverso la dimensione spaziale. Le acque del mare sembrano dividersi all’infinito, frantumarsi in un presente continuo: giungono alla riva, si infrangono contro gli scogli e poi subito ritornano indietro nella loro culla originaria in un costante fluire che non sembra essere sottomesso alla corruzione del tempo. I mari descritti da Dickinson sembrano moltiplicarsi dinnanzi al suo sguardo, da uno a tre in una divisione continua, e non conoscono rive. La poetessa toglie al mare ogni limite, annulla ogni frontiera: semplicemente l’elemento marino esiste per se stesso, nulla è in grado di arginarlo, come l’eternità. Sono oltre 96 le poesie che Dickinson dedicò al mare. Proprio lei che aveva vissuto un’intera vita nell’entroterra, in una piccola cittadina del Massachusetts, aveva fatto del mare l’elemento chiave della propria poetica trasformandolo nell’immagine più concreta del Giardino dell’Eden.
Come se il mare separandosi
Come se il mare separandosi svelasse un altro mare, questo un altro, ed i tre solo il presagio fossero
d’un infinito di mari non visitati da riva il mare stesso al mare fosse riva questo è l’eternità.
As if the Sea should part And show a further Sea − And that – a further – and the Three But a Presumption be –
Of Periods of Seas Unvisited of Shores Themselves the Verge of Seas to be Eternity is Those
Lei che non usciva dalla sua stanza, quanti viaggi, quanti mondi riusciva a descrivere nella meraviglia dei suoi versi. L’ intensità di questo piccolo componimento ti trascina e sgomenta in un mistero che và oltre l’umana percezione. Mare nel mare senza limiti né confini, metafora dell’eternità.
SE IO ABITO NELLA TUA MEMORIA NON RESTERÒ SOLO potrai non vedermi, non toccarmi. Sarò disperso come goccia di pioggia, come foglia in autunno. La mia voce sarà l’eco dei rami smossi dal vento. Forse sarò ucciso dalla mano di un uomo, nell’ingiustizia di una guerra, in un campo profughi, in mare aperto… Apparterrò ad una pagina buia della storia, ma non dimenticarmi non lasciare che il silenzio cali, che sia un nome perso tra tanti. Fa che io abiti nella tua memoria e non resti solo un’ombra che piano, piano, sbiadirà per sempre.
Emily Elizabeth Dickinson nota come Emily Dickinson (Amherst, 10 dicembre 1830 – Amherst, 15 maggio 1886) è stata una poetessa statunitense, considerata tra i maggiori lirici moderni. I fiori e, in particolar modo, le api che si posano sulle loro corolle sono elementi ricorrenti nelle opere della poetessa americana Emily Dickinson. Il regno della Natura è per la poetessa lo scenario che l’Invisibile ha scelto per celarsi e a tratti rivelarsi tramite quelli che la poetessa chiama i “Bollettini dell’Immortalità”. Delle circa 1800 poesie che Emily Dickinson ha scritto nel corso della sua esistenza se ne trovano circa un centinaio dedicate alle api. Quei piccoli esserini volanti e industriosi catturavano l’immaginazione della poetessa che vi trovava lo specchio più fedele di se stessa, l’allegoria più fedele di emozioni e sensazioni. Nelle opere della poetessa di Amherst i vivaci insetti ronzanti sono spesso paragonati a pirati, condottieri temerari, eserciti di soldati: non hanno quasi mai una funzione confortante, non evocano dolcezza o riposo, ma sono esseri deputati all’azione, alla costruzione, talvolta anche all’annientamento. Le farfalle volano sognanti, mentre le api, nell’immaginario della poetessa, marciano come un plotone di cavalieri pronti a conquistare tutti i fiori del giardino. Nella poesia di Dickinson tuttavia spesso le api non sono solo semplici api, percepite nella loro pura essenza animale. Gli insetti ronzanti si fanno allegoria di sensazioni ed emozioni inespresse, l’ape è generalmente utilizzata per rappresentare una “figura maschile” che domina una figura femminile, solitamente nascosta dietro l’allegoria di un fiore, spesso di una rosa. Se il rapporto tra gli impollinatori e le piante di cui si nutrono è fondamentale per sostenere i nostri ecosistemi, allo stesso modo l’ispirazione poetica era vitale per la poetessa. Viene definita non a caso: la poetessa impollinatrice. È naturale che proprio alle api, sue interlocutrici favorite, Emily Dickinson decida di confidare il presagio della morte. Annunciare la sua morte all’ape la renderebbe inevitabile, e spezzerebbe l’incanto del giardino, la sua terra promessa. L’ape è una creatura innocente che non conosce il trauma della sofferenza né il destino ineluttabile della morte: la poetessa quindi non ha il coraggio di infliggerle tale conoscenza che spezzerebbe l’incanto di una vita vissuta cogliendo l’istante, in un eterno presente.
Non l’ho ancora detto al mio giardino – Perché potrei esserne sopraffatta. Non ho proprio la forza ora Di svelarlo all’Ape. Non ne farò parola nella strada, perfino le botteghe stupirebbero ch’io timida ed ignorante come sono, abbia l’audacia di morire.
*È naturale che una poetessa dall’animo sensibile come Emily guardasse con occhi attenti e sognanti i fiori e gli insetti del suo giardino. Singolare questo suo grande amore per le api, esse diventano quasi una personificazione del suo io poetico. Il loro incessante lavoro, la voglia di vivere l’attimo, quella forza che a lei spesso mancava, lo slancio quasi sensuale dell’impollinazione su cui fantasticava. Ed anche quando la depressione oscurava i suoi pensieri, al piccolo insetto si aggrappava a cercare l’invisibile filo che riuscisse a tenerla legata alla vita perché l’ape non conosce il vuoto della fine.
Nasceva il 10 dicembre 1830, la poetessa Emily Dickinson, una delle figure letterarie più enigmatiche di fine Ottocento. Molte le leggende e i racconti fioriti sul suo conto, ma la sua vera biografia resta un mistero. Il nome di Emily Dickinson si associa inevitabilmente alla Poesia. Emily Dickinson la poetessa, non potrebbe essere nient’altro, del resto Emily Dickinson consacrò la sua stessa vita alla vocazione letteraria: a partire dall’età di ventitré anni sino alla fine dei suoi giorni visse reclusa nella sua casa di Amherst, in Massachussets, e non fece altro che scrivere. Compose oltre tremilacinquecento poesie, quasi tutte pubblicate dopo la sua morte. La famiglia e gli amici più stretti ignoravano l’attività segreta di Emily, le splendide poesie che componeva in silenzio rinchiusa tra le mura della sua stanza, come una monaca o una prigioniera. Nessuno riesce tuttora a spiegarsi il perché una giovane ragazza di ventitré anni avesse scelto di ritirarsi del tutto dalla scena pubblica e vivere rinchiusa tra le mura della casa paterna, vestita di bianco, utilizzando la scrittura come unica porta di accesso verso il mondo. È stato appurato che la Dickinson non soffrisse di alcuna infermità fisica né di alcuna malattia invalidante. Il motivo della sua segregazione rimane dunque un mistero. Ebbe molti amori, forse tutti platonici, passioni di penna che ha trasfuso mirabilmente nelle sue poesie e nelle lettere infuocate che inviava agli amati destinatari.
“Invidio i mari che lui attraversa”
Invidio i mari che lui attraversa invidio i raggi delle ruote della carrozza che lo porta in giro invidio le curve colline che osservano il suo viaggio. Tutti possono vedere facilmente quel che invece, ah, cielo, a me è vietato assolutamente. Invidio i nidi dei passeri che punteggiano le sue lontane grondaie la mosca soddisfatta sul suo vetro e le foglie felici felici che fuori dalla sua finestra scherzano approvate dall’estate, gli orecchini di Pizzarro non potrebbero acquistare ciò per me. Invidio la luce che lo sveglia e le campane che gli annunciano con forti rintocchi il mezzogiorno. Fossi io per lui il mezzogiorno. Ma mi vieto di fiorire e annullo la mia ape per paura che il mezzogiorno sprofondi me e Gabriele nella notte infinita.
*Meravigliosa, quanta passione, quanto amore in questi versi, quanta frustrazione nel non poter vivere pienamente i propri sentimenti fino ad invidiare l’universo intero che ha la libertà di poter riempire la vita della persona amata tranne chi lo può fare solo da lontano…Emily Dickinson è poesia, si, davvero!
Inquinamento dell’aria Ognuno di noi, anche senza volerlo, contribuisce all’inquinamento atmosferico. Gli stessi dispositivi tecnologici che utilizziamo tutti i giorni, a casa o per lavoro, hanno effetti sull’ambiente e sul riscaldamento globale.
Esaurimento dello strato di ozono Il buco nell’ozono è la riduzione dello spessore dello strato di ozono nell’atmosfera terrestre, la fascia che ci protegge dai raggi solari più nocivi. Questa riduzione è causata dal rilascio di alcune sostanze inquinanti da parte dell’uomo, sia dalle attività produttive che di consumo.
Deforestazione Le cause di disboscamento sulla Terra sono principalmente tre: di agricoltura di sussistenza, agricoltura intensiva e allevamento di bestiame o foraggio.
Inquinamento idrico L’essere umano tende a scaricare molte sostanze chimiche in fonti d’acqua come mare, fiume laghi e oceani. In questo modo, l’acqua che beviamo è talmente inquinata da diventare una delle principali cause di molte malattie mortali. Finalmente il termine “ecocidio” oggi ha anche una definizione legale, elemento indispensabile per far sì che venga perseguito dalla Corte penale internazionale. La definizione legale di ecocidio recita così: “per ecocidio si intendono gli atti illeciti o sconsiderati commessi con la consapevolezza che esiste una sostanziale probabilità di causare danni gravi, diffusi o di lunga durata all’ambiente, causati da tali atti”.
In un mondo di sprechi e di eccessi, ci è stato indicato un modo per essere virtuosi. Ma senza fare grandi cose, piuttosto diventando bravi a non commettere sempre gli stessi errori.
Di seguito le 3 azioni che, anche noi, possiamo fare per l’ambiente e la sua salvaguardia:
Spegnere le luci – In casa c’è spesso un sovraccarico di fonti elettriche. Dagli elettrodomestici, accesi o in standby, fino alle lampadine, il consumo energetico non incide solo sulla bolletta. L’uso moderato dell’elettricità, l’acquisto di elettrodomestici di classe energetica dalla A+ in su, come quello di lampade LED a basso consumo, aiuta a risparmiare e protegge il Pianeta.
Chiudere l’acqua – Il mondo occidentale ha sempre avuto acqua potabile in abbondanza, ma questa è una risorsa limitata che va risparmiata. Se chiudiamo il rubinetto quando laviamo i denti, ricicliamo l’acqua di condensa del condizionatore per il risciacquo dei sanitari, preferiamo la doccia al bagno, mettiamo gli aeratori ai miscelatori per ridurre il consumo, siamo già sulla buona strada.
Fare la raccolta differenziata – Da qualche anno a questa parte le nostre città sono diventate attente allo smaltimento dei rifiuti, grazie alla raccolta differenziata comunale. Tale pratica, se seguita ed eseguita correttamente, permette di smaltire i rifiuti nel modo giusto, risparmiando le risorse e riducendo l’inquinamento
TERRA
E ti chiami Terra, piccolo pianeta fra milioni di stelle. E noi, insignificanti, piccoli uomini che ti abitiamo, ne condividiamo la vita. Si, ti calpestiamo ogni giorno, dimenticandoci che sei Viva palpiti nei venti che sono il tuo respiro, nei mari pulsanti dove racchiudi il cuore. Ci offri, senza risparmio ciò che ci abbisogna, muta spettatrice della nostra evoluzione; Quanti cambiamenti nelle successive ere, sempre in moto sul tuo asse nell’incedere del tempo. Ma sapevi che all’ingegno si sarebbe sovrapposta la stupidità? Non sei tu, natura matrigna siamo noi figli ingrati. Paghi mai di niente, ti violiamo senza pietà, ti lasciamo agonizzare come il fuoco che divora le tue foreste, togliendoti il respiro che è il nostro.
*Certo guardando al punto in cui siamo arrivati sembra che questo problema sia diventato enorme e molto complicato, tanto che anche le nazioni di tutto il mondo stentano a trovare delle soluzioni. Eppure non ci vuole tanto a capire che siamo tutti sulla stessa barca e se andiamo verso l’autodistruzione sarà la fine di ogni cosa. Già ne vediamo gli effetti, con queste temperature sempre più alte, intervallate da fenomeni improvvisi e distruttivi, la natura manda segnali chiari ormai. Quindi le parole servono a poco, impariamo a cambiare le nostre abitudini, sviluppiamo una coscienza globale uscendo dai nostri piccoli orti tanto che me ne importa!!! Piccole regole, cerchiamo di rispettarle! Forse da piccoli passi possiamo ancora sperare.
Gino Strada nasce a Sesto San Giovanni, in provincia di Milano, il 21 aprile 1948.
Si laurea in Medicina e Chirurgia presso l’Università Statale di Milano e si specializza in Chirurgia d’Urgenza.
Per completare la formazione da medico-chirurgo, negli anni Ottanta vive per 4 anni negli Stati Uniti, dove si occupa di chirurgia dei trapianti di cuore e cuore-polmone presso le Università di Stanford e di Pittsburgh. Nel 1988 decide di applicare la sua esperienza in chirurgia di urgenza all’assistenza dei feriti di guerra. Negli anni successivi, fino al 1994, lavora con la Croce Rossa Internazionale di Ginevra in Pakistan, Etiopia, Tailandia, Afghanistan, Perù, Gibuti, Somalia, Bosnia. Nel 1994, l’esperienza accumulata negli anni con la Croce Rossa spinge Gino Strada, insieme alla moglie Teresa Sarti e alcuni colleghi e amici, a fondare EMERGENCY, Associazione indipendente e neutrale nata per portare cure medico-chirurgiche di elevata qualità e gratuite alle vittime delle guerre, delle mine antiuomo e della povertà. Il primo progetto di EMERGENCY, che vede Gino Strada in prima linea, è in Ruanda durante il genocidio. Nel 1998 parte per l’Afghanistan: Gino Strada rimane in Afghanistan per circa 7 anni, operando migliaia di vittime di guerra. Dal 2005 inizia a lavorare per l’apertura del Centro Salam di cardiochirurgia, in Sudan, il primo Centro di cardiochirurgia totalmente gratuito in Africa. EMERGENCY ha curato oltre 11 milioni di persone. Gino Strada ha ricevuto, nel corso degli anni, diversi riconoscimenti per il suo operato, il suo alto valore morale e umanitario. È morto improvvisamente a Rouen, in Francia, all’età di 73 anni, il 13 agosto 2021; soffriva da tempo di problemi cardiaci.
C’era una volta mago Linguaggio, un mago potentissimo, che aveva inventato le parole e le aveva regalate agli uomini i quali però non sapevano come usarle e se uno diceva CARCIOFO l’altro pensava al CANGURO o se uno chiedeva SPAGHETTI l’altro intendeva GORILLA.
Allora il mago appiccicò a ogni parola un significato preciso, cosicché le parole volessero dire sempre la stessa cosa per tutti. Ma gli uomini continuarono ad usarle “a capocchia” infischiandosi del gran lavoro del mago.
Il mago arrabbiato si mise a scombinare un po’ le cose, spostando una sillaba qua e una sillaba là, mescolando vocali e consonanti, anagrammando i nomi tanto che al mattino seguente, non ci si capiva più niente! Quanta confusione!! Troppa confusione: gli uomini non ne potevano più. Mandarono quindi una delegazione dal mago Linguaggio, a chiedere che rimettesse a posto le parole e con loro, il mondo. “E va bene!” disse Linguaggio “Ma solo ad una condizione: che cominciate ad usare le parole con il loro giusto significato:
I DIRITTI devono essere di tutti gli uomini, proprio di tutti, sennò chiamateli PRIVILEGI. UGUAGLIANZA deve significare davvero che tutti gli uomini sono uguali, e non che alcuni sono più uguali di altri! E per quanto riguarda la GUERRA …..”
“Per quanto riguarda la guerra” lo interruppero gli uomini “ci abbiamo pensato… tienitela pure: è una parola di cui vogliamo fare a meno.”
GINO STRADA Vogliamo che i nostri ospedali siano anche belli, “scandalosamente belli”: perché la bellezza diventa segno di rispetto verso persone profondamente segnate dalla guerra o dalla malattia e un luogo bello offre le condizioni essenziali per recuperare dignità nella sofferenza.
Gino Strada, chirurgo e fondatore di EMERGENCY
*Aveva un brutto carattere, si dice, perché era diretto, preciso, non usava mezze parole per descrivere certe realtà e ottenere attenzione ed aiuti. Certo era fastidioso, a volte appariva arrogante perché è molto più comodo fare finta che certe cose non esistano. Era un medico, un uomo, non un supereroe, non aveva poteri soprannaturali ma ha dimostrato che la volontà può fare miracoli. Certo persone come lui nascono ogni mille anni ma magari possiamo imparare qualcosa, ad essere meno strafottenti verso gli altri, uscendo dal nostro piccolo orto. Non sprecando inutilmente risorse ambientali, non lasciando per strada buste di spazzatura, cercando di essere più tolleranti verso il vicino, quello in coda al semaforo…a volte basta poco.
Si ora. E se mi fermo, un attimo mi fermo, qui ora. Vieni? Si ora… Vieni e guardami, solo un attimo. Brucia solo un attimo con me, in me… C’è tempo, per altro, per tutto, ma ora… Se mi fermo, vieni e vivi per me. Lasciamo alle mani alle labbra ai sospiri questo tempo. Vieni… Si ora.
L’amore è il sentimento più celebrato nelle canzoni e nelle poesie di tutto il mondo. Ma non bisogna negare che a Napoli tutto ha un sapore diverso. Complici, forse, i bellissimi panorami e gli angoli suggestivi che la rendono una delle città più romantiche del globo.
Si t”o sapesse dicere
Ah… si putesse dicere chello c’ ‘o core dice; quanto sarria felice si t’ ‘o sapesse dì! E si putisse sèntere chello c’ ‘o core sente, dicisse: “Eternamente voglio restà cu te!” Ma ‘o core sape scrivere? ‘O core è analfabeta, è comm’a nu pùeta ca nun sape cantà. Se mbroglia… sposta ‘e vvirgule… nu punto ammirativo… mette nu congiuntivo addò nun nce ‘adda stà… E tu c’ ‘o staje a ssèntere te mbruoglie appriess’ a isso, comme succede spisso… E addio Felicità!
(Eduardo de Filippo)
*E qual’è la voce più rappresentativa della letteratura in dialetto napoletano, il grande Eduardo. Lui scriveva che la poesia gli serviva a concentrarsi per superare eventuali ostacoli lungo il percorso della stesura delle sue opere teatrali ” ma a poco a poco ci ho preso gusto anche indipendentemente dalle commedie…” E direi con meravigliosi risultati, questa poesia è un capolavoro di sentimenti in versi, lascia senza parole come il cuore che spesso non si sa esprimere quando è sopraffatto dall’amore , è analfabeto, come un poeta ca’ nun sape cantà
La piuma si posò lenta sullo specchio d’acqua, aveva in sé la leggerezza di un pensiero gentile. La farfalla ebbe appena la forza, nel suo ultimo volo, di adagiarsi sul tremulo appiglio. Sincronicità in bilico nella fugacità di un istante.
Audre Lorde, poeta, militante e pensatrice, è una figura che segna la sua epoca e i decenni successivi, impronta l’azione politica di molte donne, suscita risvegli di coscienza, lascia una traccia profonda nel pensiero femminista.
Audre Lorde, nata Audrey Geraldine Lorde (New York, 18 febbraio 1934 – Saint Croix, 17 novembre 1992), è stata una poetessa e scrittrice statunitense.Il 18 febbraio 1934 nacque ad Harlem, New York, l’ultima delle tre figlie femmine di Linda Gertrude Belmar e Frederick Byron Lorde, entrambi di origine caraibica. Fin da piccola Audre manifesta una personalità forte e sensibile, e matura quella precoce coscienza di outsider che sarà una sua enorme risorsa nella vita. Frequentò le scuole parrocchiali di Harlem, si diplomò alla Hunter High School nel 1951 e s’iscrisse allo Hunter College quello stesso anno. A causa di un soggiorno in Messico e degli anni di stallo economico e finanziario, Lorde si laureò solo nel 1959 presso lo Hunter College e quello stesso anno iniziò il master in Amministrazione Libraria alla Columbia University, lavorando contemporaneamente, per finanziarsi gli studi. Una volta completati, trovò lavoro come bibliotecaria all’interno del sistema pubblico delle biblioteche della città di New York. A ventisette anni sposa Edwin Rollins, bianco laureato in legge e gay. Nascono da loro due figli, Elisabeth e Jonathan, senza per questo che Audre rinunci alla sua omosessualità, che sempre più le appare come la sua autentica scelta di vita. Gli anni 1968-70 vedono svolte fondamentali, con la pubblicazione del primo libro di poesie, la scoperta della vocazione di insegnante (insegnerà al City College e allo Hunter College di New York), la separazione dal marito e la scelta di convivere e crescere i suoi figli insieme a una donna, il precisarsi dell’impegno nei movimenti femminista e nero. Nel 1977 comincia la battaglia di Lorde contro il cancro, che avrà termine con la sua morte nel 1992. La malattia si rivela un reagente di immensa forza per accelerare e coagulare il suo pensiero. È in questo periodo che la sua voce pubblica raggiunge la sua massima diffusione, e lei stessa diventa figura amatissima, maieutica e quasi mitica nel movimento femminista e nero, grazie al suo impegno comunitario e ai suoi interventi in numerosi convegni e manifestazioni. Lorde continua con vigore e intensità il lavoro poetico, che comprende una decina di raccolte e le vale ampi riconoscimenti, fino a ottenere il titolo di “Poeta dello Stato di New York” nel 1991. Scrive, viaggia, conduce conferenze, stringe rapporti internazionali. Il mondo di Audre Lorde è vasto e variegato, abbraccia tutto il globo: come delegata culturale e femminista è stata in Russia nel 1976, poi in Nigeria, a Cuba, in Nuova Zelanda e Australia, ovviamente più volte nei Caraibi e a Berlino; Visse gli ultimi anni della sua vita sull’isola di Saint Croix, nell’arcipelago delle Isole Vergini americane, in compagnia della scrittrice e accademica femminista nera, Gloria I. Joseph. Morì il 17 novembre 1992. From a Land Where Other People Live, il suo terzo volume di poesie pubblicato nel 1973, vinse numerosi premi e ottenne il National Book Award. In questo testo affronta tematiche riguardanti sia l’identità, che le tematiche universali del mondo femminile. In Burst of Light (1989), una collezione di saggi che vinse l’American Book Awards descrisse la sua ultima battaglia contro il cancro.
Litania per la sopravvivenza
Per quelle di noi che vivono sul margine ritte sull’orlo costante della decisione cruciali e sole per quelle di noi che non possono lasciarsi andare ai sogni passeggeri della scelta che amano sulle soglie mentre vanno e vengono nelle ore fra un’alba e l’altra guardando dentro e fuori e prima e poi allo stesso tempo cercando un adesso che dia vita a futuri come pane nelle bocche dei nostri figli perché i loro sogni non riflettano la fine dei nostri;
Per quelle di noi che sono state marchiate dalla paura come una ruga leggera al centro delle nostre fronti imparando ad aver paura con il latte di nostra madre perché con questa arma questa illusione di poter essere al sicuro quelli dai piedi pesanti speravano di zittirci Per tutte noi questo istante e questo trionfo Non era previsto che noi sopravvivessimo.
E quando il sole sorge abbiamo paura che forse non resterà quando il sole tramonta abbiamo paura che forse non sorgerà domattina quando abbiamo la pancia vuota abbiamo paura di non poter più mangiare quando siamo amate abbiamo paura che l’amore svanirà quando siamo sole abbiamo paura che l’amore non tornerà e quando parliamo abbiamo paura che le nostre parole non verranno udite o ben accolte ma quando stiamo zitte anche allora abbiamo paura
Perciò è meglio parlare ricordando non era previsto che sopravvivessimo.
*Non era previsto che sopravvivessimo. Anafora forte che si ripete appunto come una litania. Versi incisivi come la personalità di questa grande poetessa. Che meravigliosa categoria le poetesse nella storia che hanno fatto valere la loro voce forse più dei colleghi maschi perché più motivate e agguerrite. Donne che hanno gridato forte per quelle ai margini, sole, impaurite, sempre in bilico. Quelle che devono lottare per tutto senza sicurezze senza sapere se avranno un domani.
Nelle sue opere ha sempre raccontato la carnalità, la sessualità, l’alcolismo, la depressione e in questa che vi proponiamo, la vita. Una vita fatta di graffi e dolori ma che, inevitabilmente, non smetterà di essere la nostra vita.
Il cuore che ride di Charles Bukowski
La tua vita è la tua vita. Non lasciare che le batoste la sbattano nella cantina dell’arrendevolezza. Stai in guardia. Ci sono delle uscite. Da qualche parte c’è luce. Forse non sarà una gran luce ma la vince sulle tenebre. Stai in guardia. Gli dei ti offriranno delle occasioni. Riconoscile, afferrale. Non puoi sconfiggere la morte ma puoi sconfiggere la morte in vita, qualche volta. E più impari a farlo di frequente, più luce ci sarà. La tua vita è la tua vita. Sappilo finché ce l’hai. Tu sei meraviglioso gli dei aspettano di compiacersi in te.
*Grande Bukowski, poteva essere un tipo difficile ma di certo vero senza maschere o infrastrutture. Quanto sono profondi e sinceri questi versi. La vita è tua, tocca a te scegliere se accettarla e subirla o approfittare di quei piccoli spiragli che a volte si aprono per darti delle occasioni. Tutto è maledettamente complicato ma ci vuole anche tanto coraggio.