Y por ‘ai anda… mi carne descompuesta y mis huesos rotos, vagabundeando siempre entre las mesmas paredes. Errando sin sendero con el techito siempre blancuzco.
Pispeando por ‘ai, por si acaso, pasa el bayo con los pelos al viento; que las yeguas en los ranchos de los parajes; son muchas y les agarra la calura cuando se hace ver.
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El bayo, pasa haciéndose el distraído, coleteando de acá para ayá, baileteando y presumiendo.
Y por ‘ai los veo, alejándose al galopo, con su perro Guayaray…
El bayo, parando las antenas, escucha la voz del patrón, que con un par de estribadas en el lomo le dice que ‘ai que ir a laburá.
Tempo che trascorre, feroce e inesorabile; come un fiume nel quale non si può far la risalita.
Sarebbe faticoso; doloroso prendere la strada contro corrente, non si deve. Tornar indietro non è saggio, probabilmente sarebbe una fermata nel posto sbagliato. Soltanto ai ricordi amari, che la saggezza della scorrevolezza dell'acqua, porta via...
Scorre; forse perdendosi nell'infinito del mare; chi l'ho sa, oppure si ferma di colpo contro una roccia, destinato a colpire e colpire; una, due volte e ancora fino all'eternità.
Da Frida la loka
Soltanto gocce di tempo dolce riusciranno nel intento, per quello che avanza è già scritto nelle radici di cedri profumati, che nelle sue radici si aggrappano, si aggrovigliano, quei ricordi che non mollano, non vogliono finire nell'oblio...
Correva l’anno 1968; Il giorno successivo all’assassinio di Martin Luther King Jr. Un 4 aprile; per spiegare in modo semplice e chiaro ai bambini il tema delle differenze razziali e il processo di discriminazione basato su caratteristiche fisionomiche, Jane Elliott insegnante elementare, educatrice dell’antirazzismo, femminista e attivista dei diritti LGBT, condusse un famoso esperimento.
Il paradigma del gruppo minoritario.
Conosciuto come “blue eyes/brown eyes”. L’idea era quella di dimostrare ai bambini che una differenza qualsiasi avrebbe potuto separarli e metterli l’uno contro l’altr o.
Decise così di basare l’esperimento sul colore degli occhi. Il primo giorno dichiarò ai suoi alunni che i bambini con gli occhi chiari erano “superiori” agli altri con gli occhi scuri; portò dei collari marroni e chiese ai bambini con gli occhi chiari di metterli al collo dei loro compagni con gli occhi scuri come metodo per identificare facilmente la “minoranza”.
Poi diede ai bimbi con gli occhi chiari dei privilegi, ad esempio rispetto alle porzioni a pranzo, l’accesso alla nuova palestra, cinque minuti aggiuntivi di intervallo, essere seduti nelle prime file in classe, ecc. I bambini “privilegiati” vennero poi incoraggiati a giocare solo tra di loro; Jane Elliott inoltre non permetteva agli studenti dei due gruppi di bere dalla stessa fontanella e spesso rimproverava quelli con gli occhi scuri se non seguivano le regole dell’esercizio o facevano errori.
Inizialmente ci fu molta resistenza tra i bambini che appartenevano al gruppo minoritario e quindi Jane Elliott mentì ai bambini dicendo che la melanina era legata all’intelligenza e che quindi era realmente un dato che indicava la superiorità degli altri bambini.
In poco tempo i bambini con gli occhi azzurri divennero sempre più arroganti e prepotenti. I loro voti erano migliori e completavano compiti di matematica e di lettura che in passato non erano riusciti a portare a termine. I bambini con gli occhi scuri iniziarono ad essere più timidi e servili, ottenevano punteggi inferiori nei test e addirittura si isolavano durante l’intervallo.
Il giorno successivo Jane Elliott ribaltò l’esercizio, dichiarando superiori gli allievi con gli occhi scuri e questi ultimi si comportarono in maniera molto simile a come fecero i loro compagni con gli occhi chiari il giorno prima. Alla fine per riflettere sull’esperienza appena vissuta chiese a tutti i bambini di scrivere cosa avevano imparato.
Voleva far provare alla sua piccola città di provincia, composta esclusivamente di studenti bianchi, l’esperienza di camminare nei “mocassini di un bambino di colore” per un giorno. Perciò, iniziò la sua lezione con questa preghiera, unendo entrambi argomenti; i nativi americani e gli afroamericani.
“Oh grande spirito, trattienimi dal giudicare un uomo finché non avrò camminato nei suoi mocassini.” (Preghiera Sioux)
Il paradigma del gruppo minoritario ha dato vita a un metodo applicato dalla psicologia sociale. Esso si basa sulla determinazione di differenze tra soggetti, al fine di stabilire gruppi distinti. Si tratta di una tecnica che serve a dimostrare quanti criteri di differenziazione sono necessari per creare gruppi distinti e, sulla base di ciò, analizzare il comportamento dei soggetti.
Il 15 dicembre 1970 dimostrò quest’esperienza ad educatori adulti presso la Casa Bianca, in occasione della White House Conference on Children and Youth.
Questo fatto accaduto in un periodo farnetico in quelli anni, conferma tuttora che la società non è cambiata un granché. E l’ho dimostra il comportamento di semplici bambini, piccoli, senza pregiudizi finché, sono messi alla prova; questo mi porta a riflettere inevitabilmente sul comportamento degli adulti, che con l’aggravante di una pienezza d’informazione/disinformazione, fanno sì che le situazioni a livello umano, sociale non cambino.
Nimbus si preparano da tempo, radunandosi e preparandosi ad uno sciopero o rivolta, non saprei di preciso; che non può ni deve andare ad oltranza, si devono far vedere, si devono far sentire. Sonno pronte, cariche, gonfie di rabbia contenuta fin da tropo tempo. Era questione di tempo e si farebbero vive.
Non sono sole; un frastuono gli accompagna da dietro, come il “cacerolazo” che si fece sentire ovunque, da nord a sud, da est ad ovest, in un’ Argentina martoriata, violentata, saccheggiata impunemente; dove ogni utensile di cucina diventò strumento di protesta; mestolo di legno contro una pentola, due coperchi a modo di piatti in lata da scagliasi uno contro l’altro e far suonare il più forte possibile, d’un balcone, d’una casa, una, mile!!!
Ed il caos arriva, prima o poi, l’ultima goccia contenuta nelle buffe bolle di forma indefinita e d’un denso bianco, da il via, soltanto l’ultima goccia. Sembrerebbe inocua, ma non è da sola… sono tante, disperse dappertutto; questione di tempo e saranno finalmente tutte insieme e proclameranno ad alta voce, quello non dicono da tanto tempo.
Aspettiamo con ansia, questo momento di ribellione, che bagnino le anime impure e avare; che trascini feroce la cattiveria umana; che lavi i peccati commessi di coloro che in nome di ” lesa umanità ” perpetra dietro le quinte spilorcie e menefreghiste idee. Que non sono degni dell’acqua benedetta; acontententatevi con questa, ch’è già un gran dono.
Sono quelli che trascorsero del suo ultimo dipinto prima di morire nel 1954, aveva solo 47 anni. Cosa lascia rappresentato in questo quadro; un saluto d’addio? Trasmettere che nonostante tutto la vita va vissuta?
Ancora faccio fatica a capire certi meccanismi nella sua mente…
Per Frida Khalo, questo dipinto “apparentemente ” semplice ma alcontempo affascinante, pieno di colore che non tradì mai in tutto il suo percorso creativo; anche nei momenti sconfortanti vicini alla morte.
Probabilmente volle rappresentare un “proseguire“, un “non è finita ancora“, andrò ancora avanti oltre la terra, la luna, il sole… forse pure, oltre un aldilà.
Angurie…sembrerebbe persino banale, agli occhi di grandi maestri.
La pittura, così sgargiante d’un rosso sangue che ruba in assoluto lo sguardo, ha una motivazione ben precisa, niente lasciato a caso.
Il suo rapporto con l’arte, sarà sempre impregnato di lei stessa, traumatico; le sue credenze, i suoi più profondi dolori, l’amore trovato e sofferto, il dolore fisico e paradossalmente; le speranze.
In “viva la vida“, lascia in eredità un messaggio chiaro; gioia di vivere e anche un pacato e ultimo grido di dolore.
È proprio allora che comincia la salita, me lo ripeto ogni volta, ed ogni volta…
Parole bellissime, solo a questo riesco a pensare oggi.
Non ho tempo da dedicare alla scrittura, non sempre possiamo fare quello che vogliamo o desideriamo, un figlio che ti prosciuga mente e corpo, piacevolmente, dai libri che mi legge alle partite a scacchi ad una nuova canzone imparata al pianoforte e vuole che ascolti.
In fondo, la vita si trata anche di questo, imparare a rinunciare col giusto compromesso.
Da Frida: un mix dei miei “io” interiori, fatto di tanti pensieri d immagini.
(IT) Antonio Machado fu un poeta di Siviglia (Spagna), nato nel 1875. Lascia un’importante eredità nel Modernismo spagnolo. Formó parte della denominata Generazione del ’98, scelto anche como membro della Real Academia Española. Tra i suoi libri si distaccano: “Soledades” (1907), “Campos de Castilla” (1912) y “La Guerra” (1937).
(ES) Antonio Machado fue un poeta sevillano nacido en 1875 que dejó un gran legado dentro del Modernismo español. Formó parte de la denominada Generación del 98, y fue escogido miembro de la Real Academia Española. Entres sus libros publicados destacan algunos como “Soledades” (1907), “Campos de Castilla” (1912) y “La Guerra” (1937).
Notte d’estate (IT)
È una bella notte d’estate Le alte case tengono aperti i balconi del vecchio paese sulla vasta piazza Nell’ampio rettangolo deserto, panchine di pietra, evonimi ed acacie simmetrici disegnano le nere ombre sulla bianca arena. Allo zenit la luna, e sulla torre la sfera dell’orologio illuminata. Io in questo vecchio paese a passeggio solo, come un fantasma.
Noche de verano (ES)
Es una hermosa noche de verano. Tienen las altas casas abiertos los balcones del viejo pueblo a la anchurosa plaza. En el amplio rectángulo desierto, bancos de piedra, evónimos y acacias simétricos dibujan sus negras sombras en la arena blanca. En el cénit, la luna, y en la torre, la esfera del reloj iluminada. Yo en este viejo pueblo paseando solo, como un fantasma.
La saeta (ES)
¡Oh, la saeta, el cantar al Cristo de los gitanos, siempre con sangre en las manos, siempre por desenclavar! ¡Cantar del pueblo andaluz, que todas las primaveras anda pidiendo escaleras para subir a la cruz! ¡Cantar de la tierra mía, que echa flores al Jesús de la agonía, y es la fe de mis mayores! ¡Oh, no eres tú mi cantar! ¡No puedo cantar, ni quiero a ese Jesús del madero, sino al que anduvo en el mar!
La saetta (IT)
¡Oh, la saetta, il cantar al Cristo degli erranti, sempre con sangue in mano, sempre per schiodar! Canto del popolo andaluzo, che ogni primavera va chiedendo una scala per salir alla croce! ¡Cantar della terra mia, Che getta fiori al Gesù dell'agonia, ed è la fede dei miei vecchi! ¡Oh, non sei tu il mio canto! ¡Non posso cantar, ne voglio, a quel Gesù del legno, bensì a quello che andò per mare!
Devo dire che ieri, ero un poco incerta, nel pubblicare questo articolo qui. Poi ho pensato bene e mi son detta perché no! Fino a quando dobbiamo essere invisibili! Quante persone come me patiscono ogni giorno, per non parlare dei famigliari. Ho deciso di pubblicarlo con lo scopo di sensibilizzare e chiamare alla riflessione.
Frida la loka.
Ecco!!! Finalmente l’ho detto con tutte ed ogni singola lettera; niente da leggere tra le righe, niente da nascondere. Sono giorni e giorni che mi sento veramente a disagio, innervosita, non riesco a concentrarmi per fare in modo meno cruento possibile, quello che mi appaga, che mi da soddisfazione, non dico tutte quelle attività ( e credetemi, erano parecchie) che una volta portate a termine mi facevano sentire decisamente meglio.
Ogni volta che guardo il calendario mi vengono i brividi e le nausee, già; perché non è intasato da mille appuntamenti col parrucchiere, spa, manicure, pedicure, corso per imparare a dipingere ” i mandala” e così via, purtroppo no… vedo soltanto tristissimi appuntamenti dai medici, di tutti i campi inimmaginabili, perché? Perché parliamo d’una malattia rara, ciò vuol dire, cazzi, e tanti, perché? Perché la sanità italiana, una che tempo fa ritenevo e reputavo, un’eccellenza, in dieci e passa anni, ho visto come l’avidità politica e non solo, poi con un pizzico d’ignoranza da parte dell’ambito medico che non si aggiorniano per mancanza di soldi ( altri perché proprio non può fregar dimeno) e facciamo la miscela perfetta, non è più in grado di supportare problematiche come queste ” Malattie Rare” , figuriamoci una pandemia!!
Ve ne sarete accorti che sono particolarmente “irritata”, com’è possibile che non ci sia un protocollo ad hoc per le persone affette di malattie rare! Il mio caso è ( e non vorrei sbagliare) UNO su TRENTACINQUEMILA, perciò, non siamo una massa da monitorare, visto che ancora non esiste cura alcuna…
La mia cara biblioteca, sta pian piano riempiendosi di cartelle e cartelle, ormai, ho perso il conto. Carte che alla fine, ogni volta che vai d’un medico devi portarti dietro… ma perché! Dico io, hanno investito inutilmente nel sistema digitalizzato di ogni singola persona che minimo abbia fatto un esame del sangue; perciò, basterebbe, con buon senso, santo cielo, chiedere la benedetta tessera sanitaria e sul sistema è tutto caricato, manco sia il prontuario d’un pregiudicato. Sono incapaci ed ignoranti in materia!!! Persino farebbe bene al pianeta, con tante scartoffie da fotocopiare ogni volta ed ogni volta….
Bene… basta per oggi, mi son sfogata. PS: mandate i medici di famiglia in pensione, quelli che non c’è l’ha fanno più oppure non hanno più voglia. Sarebbe un buon punto da dove iniziare. Notte…
VALLE DELLE REGINE Il mio viaggio è finito Sono in piedi sul bordo e chiudo gli occhi a questo mondo di bugie la mia volontà è infranta è la fine di tutti i miei sogni la mia anima brama attraverso la valle delle regine la mia rosa appassita non fiorirà mai più la terra è secca è giunto il momento di morire la mia fede mi ha lasciato hanno rubato tutti i miei sogni oh seppellitemi nella valle delle regine la mia ricerca è terminata il mio nome è scolpito nella pietra sulla parete del tempio oltre il corridoio di Osiride nessun sacro raggio di sole illuminerà le mie tombe dei sogni non tornerò dalla valle delle regine"
(Dalla tomba di Nefertari)
Gli Egizi conoscevano la Valle delle Regine con il toponimo di : Ta set neferu.
Contenuto: proprietà esclusiva di: “storia egizia” (karol Bossi e team).
Fonte: foto proprietà esclusiva di “storia egizia”.
Fonte: foto proprietà esclusiva di “storia egizia”.
Vorrei avere la consapevolezza, mi faciliterebbe le scelte. Il destino ha voluto che andassi in questo modo; complicato, oscuro, sofferente, involuto.
Vorrei poter essere ciambella coperta di cioccolato fondente inzzupata in una tazza di latte tiepido del mattino quando parte della mia materia, innumidita si sminuzza in infinite nanoparticelle, galleggio…alcune di esse affondano.
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Vorrei essere più leggera, come piuma persa d’un elegante e delicato balestruccio; anzi, no! Essenza, solo essenza, fluttuare senza tanti, troppi pensieri e lasciarmi portare là, dove la brezza mi porti accarezzando il mio fragile corpo; l a questo punto la destinazione non ha importanza.
Vorrei diventare melodia, trasformarmi in nota ed emanare poesia in musica ed avvolgere l’universo…
Vorrei non fosse onirico, a occhi aperti, vorrei non accorgermene che forse è una utopia.
Piccole e grandi stelle variopinte, nascoste dietro un cielo marmorato, giocano sicuramente nascondino ignare spensierate innocenti come gli infanti. Non sanno cos’è la tristezza, la sciagura. Non sanno cos’è il sentimento, il tradimento.
Sono troppo lontane per assaporare il sudore amaro d’un soldato o il dolce aroma d’un neonato.
Non sanno cos’è la diversità che per madre natura è cosa grande, per noi invece è disuguaglianza.
Probabilmente; nemmeno sanno di noi piccoli uomini alla deriva; immersi in una tempesta che con le nostre stesse mani abbiamo costruito… E loro hanno questo privilegio.
Ci troviamo in una festa di compleanno d’un amico. Uno direbbe, che c’è di particolare…
Insomma, sono parecchio confusa, tra musica disco, regeeton e rumori d’oggi che non riesco a capire, atenti, non quella d’una volta, ché per loro, quella odierna è buonissima come per noi era quella che ascoltavamo. Ma questa d’oggi, per me e tenete in conto la mia precarietà nel udire, è carente di ogni tipo di consistenza, parlo dai ritmi, e per non allungarmi troppo, ai contenuti, in sostanza, le parole.
Sono rimasta troppo indietro, oramai, all’epoca nella quale, quella che ritenevo una semplice ” canzone”, pure essa aveva un contenuto da sminuzzare e trarne un messaggio. E nel frattempo gli anni son passati, in queste ultime decade ci sono state grandi cambiamenti, non sarei in grado di dire se tutti sono stati positivi, un poco di fiuto mi dice in fondo, che non è andata proprio così.
Allora ci troviamo in una disgiuntiva assai complessa, soprattutto per quelli stremammente strutturati o fissati solo ad un tipo d’ideologia, il che genera rifiuto ed in conseguenza astio, verso un tipo di ” società ” che, dai più intransigenti, non viene nemmeno considerata e parlo puntualmente di persone che hanno deciso o capito che il loro sesso con il quale sono nati, non gli rappresenta agli adolescenti d’oggi, fino a quelli che arrivano, con vento a favore, a porto ” sicuro” scappando da orrori diversi ai nostri, perché, conveniamo, direi che non è un momento molto appagante dalle nostre parti.
Torno alla festa; tarda serata, dopo piscina, adolescenti e bambini ormai scarichi, caldo da scoppiare, e pioggia che non si fa viva…
Vengo ripagata nella mia resistenza; un amico francese del festeggiato, sotto il mio sguardo vigile, cosa stava combinando con prese e cavi d’elettricità vari? Abbassa le luci, inizia a creare una certa atmosfera e infine apre un astuccio di misure importanti. Tira fuori un luccicante e splendido sax, ed inizia; ci ha deliziato e ha saputo, tramite questo magnifico strumento, osservando ognuno di noi agli ochi, ad evidenziare con diverse armonie, il nostro stato d’anima più profondo. Melodie ritmiche, altre un pò bohème, note da blues e non potevano mancare quelle del jazz.
Da fridalaloka.com Da fridalaloka.com
Quindi, come dicono I ragazzi oggi… e… niente… è stata un fine serata fantastico. E non rassegnata ma bensì consapevole di dover convivere con la diversità che anch’essa, forse ha il suo perché.
Era la nostra nonna ( però era mia), un mix d’ereditá di geni attraversarono l’oceano e tanti vocaboli erano un cocktail ben assimilato e naturale.
E così, tramandati nel tempo. Mia nonna Victoria era un personaggio abbastanza particolare; robusta, massiccia, pele bianca e sottile sembrava un velo di fina seta, segni d’incazzatura permanente tra gli occhi che difficilmente qualcuno gli si avvicinaba per farle uno scherzo. La Vitto era molto speciale. Si alzava presto, poco pretenciosa però quando si metteva qualcosa in testa non c’era neanche il miglior mediatore ad oggi che potesse farle cambiare idea.
La Vitto, prácticamente mi alevvò, fra tante pentole e un curioso bracciere di ferro del quale, uscivano pasti e pietanze uniche. Cucinate s’un pentolone oppure talvolta direttamente sulla griglia, sotto c’erano le brace tenue, dopo aver preparato il carbone con degna maestria.
Quello che mi rimane ancora oggi in testa, sono i profumi degli impasti messi a cuocere per fare una “tortilla” di pane con un pò di grasso di maiale, esquisitezza che appena tolta dal braciere, ti bruciava fino al midollo e aveva la peculiarità di un fondo arrostito diventato nero. Que crocantezza.
Ma i pezzi forti di lei, non era soltanto la cucina, dentro o nel patio, pieno di verde…
Mi manca tanto, l’ha perse troppo presto…e penso a lei spesso, ogni volta che mi si avvicinaba una farfalla bianca. Mi diceva: – ricorda, quando perdi una persona a te cara, tornerà a trovarti tramutata in una farfalla bianca; aveva ragione… e parlo con lei.
Nel profondo buio ieri notte; ho deciso non cercarti; i miei occhi sono fragili al tuo spiccare possente.
La tua presenza fa troppo male… al contempo quando perdo la tua luce, precipito a sciagurata velocità.
So che sei lì, dietro a mille rami di fitti alberi che la brezza, portata dal mare smuove, intravedendo la tua aurea incandescente.
Sei più luminoso che mai… ti ostini a restare fin troppo lontano per riuscire ad accarezzare i tuoi contorni.
Le rose invecchiate non riesco a vedere nel manto nero che copre la mia testa eppure; sono lì anche esse, una blandizia rassererenebbero il loro per tornare nello splendore e le sue spine ancora una volta mi incidono.
Plenilunio foto da sky24
Astro; che sei mio compagno nelle notti fredde e quelle calde dove mi trovo nuda nel pensiero.
Ci siamo perse semplicemente per lungo tempo, a un tiro di schioppo da mille avventure immaginate insieme; una vita abbiamo trascorso, diverse strade, diverse scelte, diverso tempo.
Che non porti il mio sangue ed io non porto il tuo. Eppure sei mia sorella…
Mentre, i nostri sentieri prendevano passi lontani e diversi. Ma nella mente, c’eri, al mio fianco ad abbracciarmi nei momenti di sconforto e ridere come due pazze scatenate, che siamo quello… due pazze… Parlavamo alla distanza raccontandoci le nostre e avremmo avuto la voglia di condividere un tavolo, un rosso con due calici e perché no, qualche sigaretta.
E contemplare il nulla; silenzi che avrebbero fato la nostra compagnia unica.
Ci siamo ritrovate dopo tanto, e pure sembrerebbe non fosse passato neanche un secondo lontana da te.
Davanti a noi; un tavolo, calici, rosso rubino e tanto da dirci guardandoci agli occhi.
Di scelte ne abbiamo fatte, decisioni abbiamo dovuto prendere, talvolta inciampando, rimangiandosi le parole. Chiedersi, avrei potuto fare diversamente…
Nessuno l’ho sa, nemmeno noi. Di certo è, che anche se l’oceano ci tiene lontane sei qui, accanto a me.
Toglierei tutto dal corpo, pure stesso corpo; forse, concederei alla testa la grazia, la quale mi fa pensare e ricordare passati migliori.
Ridevo con scioltezza e sincerità; correvo all’impazzata contro vento in mezzo a temporale e sentivo la mia pelle nuda apiccicata alla mia veste fradiccia, i piedi; anche essi spogli calpestando fango e capelli lunghi e ricci colando cristaline e dolci gocce; non ne avevo paura men che meno vergogna.
Dal web.
Ch’erano soddisfazioni piacevoli e goderli con tutti i sensi mi appagava.
I miei desideri, talvolta superflui, che sono persona umana erano parte importante nella mia vita.
Toglierei tutto dal corpo, pure stesso corpo; che non mi da pace, non un attimo di respiro; cosa vuole da me!
Pure il tempo ci si mette in mezzo, ch’è spilorcio! Virus, guerre e tutto, che complica l’esistenza più del necessario.
Solo adesso; me ne accorgo; Se fosse il core e non la testa a convenire gratitudine, forse sarebbe meglio? Che quello lì è pieno di ferite inflitte, ma non demorde. È tosto e testardo come diamante grezzo, ancora pronto a beccarsi più intagli.
Che il mio mestiere non è essere a casa ed accontentarmi perché sono viva; cosa ben diversa a sentirsi viva!
Indifferente fino allo strazio Indugia nella sua presenza, fa soffrire Noncurante delle rose che avvizziscono Indiferente agli uccelli che si dissetano nei suoi stagni.
Adiaforo, virtù che gli apparteneva Nella premura essenziale di cosa vivente Ma la sua , non è reità a vivere, schernito Dall’uomo ignorante, ingenuo. Il suo è affranto, le sue lacrime versa addosso di qualcun altro fino ad allagare le anime.
Non l’ho meritiamo, no: avevi la possibilità di occupare il tuo posto nel Olimpo, ma hai preferito esserci amico… hai rubato il fuoco sacro! L’ho hai fatto per noi… eri troppo buono nei nostri confronti, esseri mortali che non siamo in grado di apprezzare nulla:
Nulla; s’intende, tutte le ricchezze che avevamo davanti ai nostri occhi, ma siamo cechi, non siamo sazi ancora, bramosia che non è altro, siamo voraci e non ci ferma nessuno.
Famelici di cosa? Possedevamo tutto! Pure il fuoco divino ci hai ! Ma, non è bastato… forse ti chiederai, perché. Forse sarai amareggiato e anche ravedutto
Ci aveva anche donato un fuoco interiore, dell’arte, della creatività, di osare, avevamo, tutte le sue espressioni, simbolo dell’esenza dell’anima, senza di lei non è possibile andare avanti. Non abbiamo imparato nemmeno l’arte di vivere insieme, convivere!
L’essere umano, cerca sempre qualcuno a cui dare le colpe e il fuoco, quel fuoco ch’era venerato da te, l’abbiamo trasformato in qualcosa di raccapricciante.
Prometeo, potevi scegliere diversamente, ma anche tu ci sei cascato e noi, miseri uomini ti abbiamo tradito.
Domenica notte, arrivò al giornale ” La Nación ” questo poema, consegnato alla posta di Mar del Plata. La busta conteneva niente altro che l’originale di quella che sarebbe stata la sua collaborazione postuma.
Denti di fiori, cuffia di rugiada, mani d'erba, Tu, delicata nutrice, preparami i sabbiosi lenzuoli e la trapunta da muschio diserbata.
Vado a dormire, mia nutrice, stendimi. Poggia una lampada alla testata; una costellazione; quella che preferisci; tutte sono buone, abbassala un po'. Lasciami sola: senti il germogliare... Ti culla un celeste piede dall'alto e un uccello ti traccia il tempo musicale
per dimenticare... Grazie...Ah, un incarico: Se lui, chiama ancora; digli di non insistere, che sono andata...
ALFONSINA STORNI
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Breve Biografia:
Poetessa argentina di origini ticinesi, nasce nel 1892, e alla età di quattro anni, la sua famiglia si trasferisce in Argentina.
Per un certo periodo di tempo vivono a San Juan e poi a Rosario, città in cui la famiglia decide di spostarsi, cercando nuove opportunità. Alfonsina inizia a lavorare presto. Da lì a poco muore suo padre. Svolge diversi mestieri: serve ai tavoli del bar di famiglia, fa la sarta, lavora come attrice in una compagnia teatrale cimentandosi in diversi ruoli. Compie gli studi magistrali per insegnare in campagna e all’età di diciotto anni è già maestra; inoltre, collabora con le riviste Mundo Rosarino e Monas y Monadas e con tan solo diciannove anni diventa vicepresidente del Comitato Femminista di Santa Fé.
A vent’anni resta incinta, da un’uomo sposato e personaggio importante della città, allora Alfonsina decide di trasferirsi a Buenos Aires, nascerà nel 1912 il suo unico figlio, Alejandro Alfonso Storni.
A questo punto si ritrova, sola e ragazza madre, spinta da questa sua situazione, si arruola in diverse professioni.
Ed è in questo momento dove inizia a scrivere, e ci riesce; il suo primo libro, La inquietud del rosal (1916), che suscita un clamoroso scandalo nella società argentina, in conseguenza è costretta a lasciare il lavoro.
Alfonsina torna a insegnare in una scuola elementare, mentre inaugura la sezione “Feminidades” del giornale La Nota; usa questo spazio per portare avanti una lotta per i diritti delle donne e dei bambini. Nel 1918 pubblica il suo secondo libro, El dulce daño (1918), a cui segue Irremediablemente (2) (1919).
Scrisse poesie profonde ed é riuscita a tener testa ad un mondo molto maschile, senza mai scendere a patti o compromessi.
ln effetti scegliere di essere madre single negli anni Venti non è stato uno scherzo.
È stata una donna forte, con tutta una propria natura e decisa in ogni suo impegno in un ambiente culturale di Buenos Aires negli anni Venti, molto attivo, pieno di fervore; scrittori, cinema, teatri, riviste e giornali che crescevano a dismisura.
Per certi versi moderna, Alfonsina Storni è stata in grado di capire che la lotta per l’emancipazione femminile doveva passare attraverso una parità di genere, una problematica di tipo sociale. Non solo poter scrivere per riviste importanti.
Malata e senza molto da vivere. Prende la sua ultima decisone, un vero atto di posanzza, anzicchè aspettare il corso dell’inevitabile.
Ariel Ramirez e Felix Luna, autori noncchè connazionali, la ommaggiarono, componendo la canzone “Alfonsina y el mar”
dove raccontano la storia del suicidio avvenuto nel Mar del Plata. Parla di una donna sola, angosciata, che sceglie una morte dolce, consapevole. Melodia tenera a tratti drammatici, suscita compassione che, purtroppo ò difficile rendere nell’italiano.
Nella realtà, Alfonsina aveva passato l’ultima notte in un albergo, l’ho aveva lasciato all’alba per dirigersi a piedi, in mare prima però, aveva mandato un messaggio a suo figlio e una poesia di commiato ad un giornale perché la pubblicassero.
Non c’è due senza tre, il cielo è cuppo, grigio e io sono qui ad aspettare la benedizione da la su. Qualcuno porti un pò di pietās, non solo in confronto di questo bene prezioso, guerra, violenza, terremoti, menefreghismo, egoísmo e potrei andare all’infinito come l’uomo privo di rasocinio ed avidità.
Eccomi, sdraiata in un ” lettino”… con qualche differenza, sulla mia testa non c’è l’ombrellone, bensì un odioso e noioso soffitto, puzza d’alcool mi rasserena (un pò soltanto).
Da Frida
Non indosso costume di bagno e non porto con me, borsa con attrezzi di spiaggia. In questo caso, non avrò la possibilità di mettere quei meravigliosi camici molto snellenti che ti fanno sentire una diva. Menomale che il sole non c’è manco attraverso la finestra, visto che siamo tutti inguainati con mascherina, cuffietta e vista la vicina probabilmente anch’io godrò del manto velato usa e getta. Pure ho l’aria accessa, cosa chiedere di più!!! Lucano, no, grazie; gradirei vista l’ora un aperipasto accompagnato con un rinfrescante Campari o Pinot grigio, mi accontenterei.