Che cos’è l’empatia? Quella meravigliosa e terribile facoltà che fa percepire gli stati d’animo degli altri, quasi la disperazione o la tristezza del mondo intero. Forse questo è l’animo del poeta che coglie il sentire e lo esprime nei versi in cui tutti riescono a riconoscersi.
Mi fermo un attimo oggi sto in silenzio, c’è solo quella vocina quella che sussurra sempre dentro, quella che a volte ascoltiamo a volte preferiamo di no. Ma oggi mi devo fermare perché è insistente perché è triste… Allora lascio che parli e lei smarrita e sincera detta parole e guida la mano… sperando. C’è tanta angoscia, un muto pianto, che arriva in cielo le voci del mondo che gridano… e risvegliano la voce che è in me.
Eros e cibo vanno d’accordo su vari fronti: mangiare bene ci fa sentire più attraenti, cucinare assieme al partner è di fatto un preliminare dell’amore, in più esistono cibi che fanno bene al sesso e aiutano a stare meglio sotto le coperte. Freud è stato il primo ad associare in modo diretto questi due ambiti, poiché fame, sete, desiderio sessuale sono pulsioni istintive degli uomini e ne influenzano i comportamenti, in maniera più o meno consapevole. l’istinto di sopravvivenza ci spinge a mangiare, ma ci spinge anche a perpetrare la specie tramite la sessualità; per questa ragione il Padre della Psicoanalisi definiva “pulsioni di Autoconservazione” sia la fame, sia il desiderio sessuale ed ecco perché il legame fra sesso e cibo è molto forte e presente nella cultura di ogni popolo e in ogni epoca storica. Molti sono i punti in comune tra i due argomenti: sono piaceri intensi ed appaganti, hanno aspetto simbolico da un punto di vista sociale, nel senso che vanno praticati in compagnia (in molte Società il digiuno e l’autoerotismo sono considerate fatti negativi), sono indispensabili per la sopravvivenza e per l’evoluzione della Specie. Nella danza della seduzione il cibo e l’eros vanno a braccetto. Fin dai tempi più antichi infatti, l’uomo si è lasciato trasportare dal gusto di alcuni cibi che provocavano in lui il desiderio sessuale. Popoli, culture e civiltà diverse, hanno inventato “pozioni e filtri d’amore” per sedurre, incantare l’altro sesso e per migliorare le proprie prestazioni sessuali. Nella Bibbia si parla dei poteri della radice di mandragola, nella civiltà greca e romana tutti i più grandi poeti di quel periodo cantarono le lodi ora di questo ora di quell’alimento, ritenuto capace di esaltare le virtù amorose. Molto spesso l’appetito sessuale si trasforma in appetito di cibo. Sono due aspetti della vita profondamente legati. Cibo e sesso servono, non solo per la sopravvivenza ma soprattutto per la socializzazione e per la soddisfazione personale. I piaceri della gola si intrecciano alla sessualità nella religione, mitologia, tradizione e nelle diverse culture. Alcune sostanze contenute nei cibi, per le loro proprietà vasodilatatorie e migliorative dell’umore, sono senza dubbio buone alleate del desiderio sessuale. Sono i così detti cibi affrodisiaci che, favorendo il benessere generale, possono aiutare ad avere anche una buona vita sessuale e influiscono sul desiderio. Il termine afrodisiaco deriva dal nome della dea greca dell’amore e della bellezza: Afrodite. L’origine degli alimenti afrodisiaci risale fin dall’antichità, dalla cultura Egiziana, Greca, Romana, Giapponese…
Quinto Orazio Flacco è uno tra i tanti importanti poeti dell’ antica Roma che grazie alle sue opere espresse il legame tra il cibo e il sentimento: in particolare nelle sue opere emerge l’ importanza che egli attribuisce al vino, fonte di svago, spensieratezza e consolazione dalla sofferenza umana
Che infelicità Non potersi concedere ai giochi dell’amore, Al piacere del vino in cui si perdono gli affanni. E dover morire di paura Alle parole sferzanti di un parente Il figlio alato di Afrodite Ti ruba, Neobùle, il cesto da lavoro E la luce isolana di Ebro Ti distoglie dall’opera di tessitura A cui si dedica Minerva, Quando con le spalle lucide d’olio S’immerge nelle acque del Tevere…
Afferra l’attimo
Non chiedere, o Leuconoe, (non è lecito saperlo) qual fine abbiano a te e a me assegnato gli dèi, e non tentare calcoli babilonesi. Quant’è meglio accettare quel che sarà! Ti abbia assegnato Giove molti inverni, oppure ultimo quello che ora affatica il mare Tirreno contro gli scogli, sii saggio, filtra vini, tronca lunghe speranze per la vita breve. Parliamo, e intanto fugge l’astioso tempo. Afferra l’attimo, credi al domani quanto meno puoi.
*Afferra l’attimo, trova la gioia nelle piccole grandi cose che la vita ti offre, non porti chissà quali aspettative perché vedrai il tuo tempo fuggire astioso…mangia cibi succulenti, un buon bicchiere di vino e inebriati d’amore…ed anche la cioccolata può essere un piccolo, grande piacere…
ODE ALLA NUTELLA
Tentami… con un dito affondo nella tua profumata morbidezza… Già quel contatto mi inebria e pregusto l’orgastico piacere che riuscirai a donarmi. Lento il dito raggiunge la bocca, alcova di sapori, ed è estasi! Chiudo gli occhi per gustarti fino in fondo e lascio che il godimento passi dalla lingua alla gola. Oh Nutella mi piace possederti!
Saffo (in greco antico: Σαπφώ, Sapphó o Sapfó; Eresos, 630 a.C. circa – Leucade, 570 a.C. circa) è stata una poetessa greca antica. Saffo era originaria di Eresos, città dell’isola di Lesbo nell’Egeo; le notizie riguardanti la sua vita sono state tramandate dal Marmor Parium, dal lessico Suda, dall’antologista Stobeo, e da vari riferimenti di autori latini (come Cicerone e Ovidio). Nacque in una famiglia aristocratica che fu coinvolta nelle lotte politiche tra i vari tiranni che allora si contendevano il dominio di Lesbo (tra cui Melancro, Mirsilo e Pittaco); per una decina di anni Saffo seguì la propria famiglia in esilio in Sicilia, probabilmente a Siracusa o ad Akragas. Successivamente ritornò a Ereso, dove fu direttrice e insegnante di un tiaso, sorta di collegio in cui veniva curata l’educazione di gruppi di giovani fanciulle di famiglia nobile, incentrata sui valori che la società aristocratica di allora richiedeva a una donna: l’amore, la delicatezza, la grazia, la capacità di sedurre, il canto, l’eleganza raffinata dell’atteggiamento.Ebbe tre fratelli, Larico, coppiere nel pritaneo di Mitilene, Erigio, di cui si conosce solo il nome, e Carasso, un mercante, che, secondo quanto emerge dalle poesie di Saffo, durante una missione in Egitto, si sarebbe innamorato di un’etera, Dorica, rovinando economicamente la propria famiglia.La Suda dice che Saffo sposò un certo Cercila di Andros, nota probabilmente falsa e tratta dai commediografi; dal marito ebbe comunque una figlia di nome Cleide a cui dedicò alcuni teneri versi. Gli antichi furono concordi nell’ammirare la sua maestria: già nell’antichità Saffo, a causa della bellezza dei suoi componimenti poetici e della conseguente notorietà acquisita presso gli ambienti letterari dell’epoca, fu oggetto di vere e proprie leggende, la sua poesia divenne paradigma dell’amore omosessuale femminile, dando origine al termine “saffico”. È noto che la poetessa nutrisse per le fanciulle che nel tiaso educava alla musica, alla danza e alla poesia un amore omosessuale: secondo la tradizione, fra l’insegnante e le fanciulle nascevano rapporti di grande familiarità, talora anche sessuale. Probabilmente il fatto va inquadrato secondo il costume dell’epoca, come forma prodromica di un amore eterosessuale, cioè una fase di iniziazione per la futura vita matrimoniale. Tale pratica non era affatto immorale nel contesto storico e sociale in cui Saffo viveva: infatti, per gli antichi Greci l’erotismo – che si teneva strettamente lontano dalla pedofilia tutelando i bambini d’ambo i sessi che non avessero compiuto una certa età da figure estranee – si faceva canale di trasmissione di formazione culturale e morale nel contesto di un gruppo ristretto, dedicato all’istruzione e alla educazione delle giovani. La poetica di Saffo s’incentra sulla passione e sull’amore per vari personaggi e per tutti i generi. Saffo compose degli epitalami, struggenti canti d’amore per le sue allieve destinate a nozze e questo ha lasciato supporre un innamoramento anche con componenti sessuali. La data della morte di Saffo non è ufficialmente nota ed è stata attestata attorno al 570 a.C. Probabilmente la poetessa ha raggiunto la vecchiaia, intuizione avuta leggendo alcuni versi in cui parla del decadimento fisico.
Saffo, nei suoi versi esalta le donne amate: dedica i suoi componimenti raffinati ed eleganti alle ragazze di cui si innamora, talvolta non ricambiata. Le destinatarie delle sue parole sono allieve della sua scuola, alle quali la poetessa dell’isola di Lesbo insegnava la musica e la danza, giovani donne che fanno mancare il respiro a Saffo. Tra le sue poesie d’amore più celebri ricordiamo Tramontata è la luna, nella cui traduzione si cimentò anche Salvatore Quasimodo.
Tramontata è la luna
Tramontata è la luna e le Pleiadi a mezzo della notte; anche giovinezza già dilegua, e ora nel mio letto resto sola.
Scuote l’anima mia Eros, come vento sul monte lo che irrompe entro le querce, e scioglie le membra e le agita, dolce amara indomabile belva.
Ma a me non ape, non miele; e soffro e desidero
*L’amore quando è vero ed intenso ti scuote e ti agita specialmente di notte, quando il silenzio acuisce i desideri…da sempre i poeti cantano il sentimento d’amore in tutte le sue forme..e Saffo è la poetessa simbolo della letteratura greca
L’evoluzione ed il progresso quando superano certi limiti non sempre sono sinonimo di conquista per il benessere dell’uomo ma un cieca corsa verso l’autodistruzione.
Nascemmo sotto un cielo sconosciuto paurosi, tremanti, vedemmo la notte invadere il giorno e la luce spegnersi. Il Faro caldo che dava calore sembrava perso. Quella piccola luna era pallida, lontana, il buio celava chissà cosa. Increduli assistemmo al miracolo della prima alba, capimmo che non esiste una notte infinita e adorammo grati la perfetta sincronia della natura che ci sovrastava. Ma alla consapevole evoluzione dell’intelletto l’uomo che si fece dio perse l’anima stupita e nell’ingorda arroganza, volle impadronirsi di ciò che non gli apparteneva e la notte calò eterna.
Gli autori nella storia dell’ umanità hanno sempre preso spunto dalle emozioni, più l’ emozione è forte e più riescono a elaborare un romanzo di alto livello. Alcuni autori dopo un periodo di depressione sono riusciti a rialzarsi e ad arrivare al successo ispirandosi a quel periodo, altri meno. Molti dei nostri poeti più famosi soffrivano di depressione. Emily Dickinson, Edgar Allen Poe, Tennessee Williams ed Ernest Hemingway, per citarne alcuni, sono tutti famosi quasi tanto per le loro lotte con la depressione quanto per il loro dono della poesia. La poesia ha il potere di mostrare una significativa profondità di emozioni mentre porta alla luce l’oscurità interiore. I greci consideravano le biblioteche luoghi curativi per l’anima. Letteratura e poesia, infatti, possono essere ottimi strumenti terapeutici per superare una forma depressiva, perché un libro è più di un semplice rifugio. La depressione colpisce almeno 300 milioni di persone in tutto il mondo. Ciò include persone di tutte le età e provenienti da ogni regione del mondo. La buona notizia è che sono emerse opzioni di trattamento efficaci a causa di questo problema diffuso. La poesia ha un modo unico di esprimere pensieri e sentimenti legati alla depressione. Può essere accattivante, stimolante e straziante quando il lavoro ti consente di relazionarti con il dolore, il dolore o la disperazione. Molti hanno trovato leggere o scrivere poesie come un modo per aiutarli a far fronte. Inoltre, opzioni come lavorare con un professionista autorizzato alla salute mentale, farmaci antidepressivi e apportare cambiamenti positivi allo stile di vita sono metodi efficaci per vivere una vita sana e libera dalla depressione. Esistono diversi tipi di depressione e diversi livelli. Una certa depressione è attribuita a uno squilibrio chimico nel cervello. Può anche essere ormonale, ereditario o il risultato di un trauma. Il bipolarismo è un disturbo dell’umore in cui la depressione è uno dei sintomi significativi. Le persone che sono bipolari sperimentano alti e bassi estremi nei loro comportamenti d’umore. Virginia Woolf e Sylvia Plath ne soffrivano come testimoniano le loro poesie. Giovanni Pascoli uno dei migliori autori della storia italiana, ha vissuto una vita molto complicata, oltre alla morte dei propri genitori e dei fratelli, da ragazzo durante gli studi universitari venne arrestato per le idee politiche. Durante la prigionia durata due mesi cadde in depressione. Edgard Allan Poe, uno degli scrittori più famosi dell’ 800′, famoso per aver creato il genere Horror; Poliziesco e Giallo. Ha vissuto una vita complicatissima, influenzando i propri romanzi, tanto che i suoi racconti si ispiravano proprio alle sue vicende. Ha sofferto così tanto che Baudelaire disse che Poe fosse nato sotto il segno della sfortuna, tutti questi avvenimenti drastici, oltre che a portarlo alla depressione lo fecero cadere anche nell’ alcolismo, andando a vagabondare per la città, si abbandonò totalmente a se stesso.
Sylvia Plath (Boston, 27 ottobre 1932 – Londra, 11 febbraio 1963) è stata una poetessa e scrittrice statunitense. Conosciuta per le sue poesie, scrisse il romanzo semi autobiografico La campana di vetro (The Bell Jar) sotto lo pseudonimo di Victoria Lucas. Sempre sospesa tra luci ed ombre. Tra entusiasmo e depressione. Tra voglia di vivere e desiderio di morire. Così trascorse la sua breve esistenza. La poesia di Sylvia Plath parte da un ricordo. Ariel era infatti il cavallo che aveva quando era bambina e con la quale riusciva a sentire concretamente una serenità coinvolgente. L’incipit della poesia racconta proprio una corsa sfrenata e liberatoria, dove persona e natura si fondono e finalmente Plath riprende fiato dopo l’estenuante pesantezza della vita durante il giorno.
“Ariel” Stasi nel buio. Poi l’insostanziale azzurro riversarsi di altura e lontananze. Leonessa di Dio, come ci compenetriamo, perno di talloni e ginocchia!-il solco si fende e passa, fratello all’arco bruno del collo che non posso afferrare, bacche occhi-di-negro gettano scuri uncini- nere boccate dolci di sangue, ombre. Qualcos’altro mi solleva per l’aria- Cosce, criniera; scaglie dai miei talloni. Bianca Godiva, mi spoglio- morte mani, morte costrizioni. E ora io schiumo in grano, un luccichio di mari. Il grido del bambino si dissolve nel muro. E io sono la freccia, la rugiada che vola suicida, fatta una con lo slancio dentro l’occhio scarlatto, il crogiolo del mattino.
*Versi forti, molto intensi, un grido d’aiuto inascoltato, la voglia di vivere, guarire che non trova spazio o risposta. Per il tempo di una corsa lei sente l’ardore dell’animale quasi compenetrarla, risvegliandola alla vita, alla speranza di liberarsi di quel vuoto, del gelo che la soffoca e diventa tutt’uno con l’infinito a cui aspira. Purtroppo la depressione è una malattia seria, molto diffusa che rovina la vita ma con l’aiuto di medici, familiari e amici nessuno deve sentirsi un grido inascoltato.
L’etimologia del termine Ferragosto deriva dall’antico Feriae Augusti, una festività che si celebrava nell’antica Roma. La festa era in onore di Augusto e il nome, che significa il riposo di Augusto, dà il nome anche al mese. Era un periodo di riposo e di festeggiamenti, istituito dall’imperatore stesso nel 18 a. C. , che aveva origine dalla tradizione dei Consualia, feste che celebravano la fine dei lavori agricoli, dedicate a Conso, che, per i Romani, era il dio della terra e della fertilità. Anticamente, come festa pagana, era celebrata il 1° agosto. Ma i giorni di riposo (e di festa) erano in effetti molti di più. La ricorrenza fu assimilata dalla Chiesa Cattolica attorno al VII secolo, quando si iniziò a celebrare l’Assunzione di Maria, festività che fu poi fissata il 15 agosto. Il dogma dell’Assunzione (riconosciuto come tale solo nel 1950) stabilisce che la Vergine Maria sia stata assunta, cioè accolta, in cielo sia con l’anima sia con il corpo. La festa di Ferragosto è quindi divenuta festa nazionale in virtù dei Concordati tra Stato Italiano e Vaticano (firmati l’11 febbraio 1929). La scelta della Chiesa Cattolica di fissare il giorno dell’Assunzione in cielo di Maria il 15 agosto e i pregressi accordi tra Stato e Chiesa hanno reso possibile la fusione in un unico giorno della festa di ferragosto originata dall’antichità con quella religiosa.
Gianni Rodari decide di dedicare la sua filastrocca di Ferragosto ai bambini reclusi in città, che non potranno godere dei divertimenti offerti da mare e montagna. Il pensiero del grande maestro è sempre andato ai più poveri, agli indifesi e ai bisognosi facendone un tema cardine della sua pedagogia che educava innanzitutto al rispetto e alla comprensione dell’altro. Quanto può essere noioso e desolante il mese di agosto per un bambino confinato in città? Tutti, afferma Rodari, avrebbero diritto alle vacanze e, nella conclusione, propone di emanare un decreto legge per sostenere questa causa.
Ferragosto, di Gianni Rodari
Filastrocca vola e va dal bambino rimasto in città. Chi va al mare ha vita serena e fa i castelli con la rena, chi va ai monti fa le scalate e prende la doccia alle cascate… E chi quattrini non ne ha? Solo, solo resta in città: si sdrai al sole sul marciapide, se non c’è un vigile che lo vede, e i suoi battelli sottomarini fanno vela nei tombini. Quando divento Presidente faccio un decreto a tutta la gente; “Ordinanza numero uno: in città non resta nessuno; ordinanza che viene poi, tutti al mare, paghiamo noi, inoltre le Alpi e gli Appennini sono donati a tutti i bambini. Chi non rispetta il decretato va in prigione difilato”.
*Grande sensibilità, il poeta dei bambini che in ogni sua apparente semplice filastrocca diceva grandi verità. Uno sguardo ampio sempre al di là del suo piccolo orticello individuale. Ed è un invito aperto a tutti forse il mondo come diceva diceva Eduardo sarebbe un po’ meno tondo.
Nello sconfinato panorama della storia poetica italiana, furono pochi gli autori che riuscirono a raggiungere le vette liriche di Giovanni Pascoli (1855-1912), considerato ancora oggi uno dei poeti più preziosi ed emblematici della storia italiana ed europea. Tra le sue grandi passioni spicca un particolare interesse per il mondo del vino e della vite. È noto che ci tenesse molto ad avere una cantina ben fornita e che avesse un gusto particolare per la tavola e per i prodotti di alta qualità, qualsiasi essi fossero. Addirittura, durante le sue trasferte in veste di insegnante e accademico, raramente mancava di procurarsi bottiglie particolarmente pregiate tramite i numerosi contatti in tutto il Paese. ll rapporto di Pascoli con il vino fu sempre complicato, in precario equilibrio tra la passione, coltivata sin dalla gioventù a San Mauro di Romagna (oggi San Mauro Pascoli), e una vera e propria dipendenza dall’alcool, aggravatasi negli anni del ritiro a Castelvecchio e tra le cause principali della sua morte a Bologna nel 1912. Forse proprio per un inconscio pudore o per vera e propria vergogna dei propri eccessi, Pascoli non menzionò quasi mai il vino direttamente nelle sue opere, fatta eccezione per qualche accenno in liriche come “Germoglio”, contenuta nella grande raccolta Myricae (1891-1903). Anche nella celebre I Tre Grappoli, poesia contenuta nella stessa raccolta, i riferimenti al vino sono sempre vaghi e ambigui. Chissà che il poeta non volesse, in qualche modo, parlare della sua stessa sofferenza – mettendo in versi il lento declino dovuto alla sua dipendenza – e invitare, sé stesso e noi, a fermarci al primo grappolo. I primi bicchieri sono un grande piacere, i successivi ti sollevano dai dispiaceri, poi, però, non bere più. Se vai oltre, cadrai ubriaco e da ubriaco ritorneranno nella tua mente quei dolori antichi, per cui hai già pianto. L’invito a bere con misura, diventa l’amara constatazione che l’uomo non ha rimedi contro le proprie sofferenze.
I TRE GRAPPOLI
di Giovanni Pascoli
Ha tre, Giacinto, grappoli la vite. Bevi del primo il limpido piacere; bevi dell’altro l’oblio breve e mite; e… più non bere:
ché sonno è il terzo, e con lo sguardo acuto nel nero sonno vigila, da un canto, sappi, il dolore; e alto grida un muto pianto già pianto.
*Purtroppo nonostante questi versi, il poeta morì a 57 anni per cirrosi epatica proprio a causa dell’eccessivo uso dell’alcol. Probabilmente trovava nel vino rifugio al peso della depressione, del suo animo fragile come molti talenti dilaniati tra dolore e genio.
Piero Angela è morto. Il giornalista e divulgatore scientifico noto per i suoi programmi sulla Rai aveva 93 anni. Ad annunciarlo con un breve post su Facebook il figlio Alberto: «Buon viaggio, papà». Era nato a Torino il 22 dicembre 1928. La serie Quark a cui ha legato il suo nome è cominciata nel 1981. È stato anche inviato e conduttore del telegiornale della Rai. Angela era anche un musicista (suonava il pianoforte) e un estimatore del jazz. Piero Angela aveva 93 anni ma è stato attivo fino alla fine: «Il mio corpo è come una macchina: il motore avrà anche 80mila chilometri, ma il guidatore ha solo 45 anni», diceva di lui e della sua veneranda età. È stato fondamentale per la televisione italiana: divulgatore scientifico, conduttore, saggista, scrittore, giornalista. Le sue trasmissioni in stile anglosassone hanno rivoluzionato il modo di raccontare la scienza, la storia e hanno rafforzato il genere documentaristico, arricchendo il bagaglio culturale italiano e regalando inestimabile valore alle teche Rai.
*Addio ad un grande uomo di cultura, discreto, cordiale, riusciva a fare amare la scienza e il mondo circostante anche alle persone più semplici. Quark è uno dei pochi programmi che appartengono ai miei ricordi fin da piccola…ha lasciato il figlio, degno erede del padre.
Le maschere sociali, secondo la psicologia junghiana, sono i ruoli che interpretiamo, gli status nei quali ci identifichiamo, gli abiti di circostanza che indossiamo a seconda del contesto in cui ci troviamo, delle persone e delle situazioni che ci stanno intorno: lavoro, famiglia, amici. Nell’antichità, presso molte popolazioni, le maschere venivano indossate solo in determinate “occasioni rituali” che marcavano importanti fasi di trasformazione per la comunità di appartenenza (iniziazioni o riti di passaggio). Nelle società moderne le cose stanno diversamente a causa della comparsa del concetto di identità personale. L’essere umano ha sempre avuto l’esigenza psicologica di adottare delle maschere di fronte agli altri, come messo in luce dal sociologo Erving Goffman nel libro “La vita quotidiana come rappresentazione”. Per Goffman la libertà individuale è un’utopia e la vita quotidiana dell’essere umano è scandita come una performance teatrale dove ognuno di noi non può fare a meno di interpretare una parte, complementare a quella di tutti gli altri individui con cui interagiamo. Il compito di insegnare agli individui a non indossare le maschere sociali proposte dal mercato è affidato alla scuola che, per questo motivo, deve essere pubblica per essere indipendente dal mercato e insegnare il pensiero critico. In Occidente, ma la globalizzazione sta esportando il modello ovunque, l’individuo vive nella società del guadagno, dell’egoismo, dell’informazione, della manipolazione, della pubblicità, della moda e delle apparenze, che danneggiano la costruzione dell’identità di ognuno.
“Chissà se un giorno butteremo le maschere” è una poesia di Eugenio Montale contenuta nella raccolta “Quaderno di quattro anni” del 1977. Eugenio Montale, in “Chissà se un giorno butteremo le maschere” vuole farci riflettere sull’autenticità delle persone che ci circondano. Spesso, infatti, ci capita di incontrare persone che all’apparenza sembrano perfette, ma spesso nascondono una triste verità. Si conoscono davvero le persone intorno? Quanto è raro incontrare chi ha volto e maschera che coincidono, ma è probabile che egli stesso non sappia il suo privilegio. E chi l’ha saputo, chi ha scoperto che il suo volto era pari alla sua maschera, pagò il suo dono con balbuzie.
“Chissà se un giorno butteremo le maschere”
Chissà se un giorno butteremo le maschere che portiamo sul volto senza saperlo. Per questo è tanto difficile identificare gli uomini che incontriamo. Forse fra i tanti, fra i milioni c’è quello in cui viso e maschera coincidono e lui solo potrebbe dirci la parola che attendiamo da sempre. Ma è probabile che egli stesso non sappia il suo privilegio. Chi l’ha saputo, se uno ne fu mai, pagò il suo dono con balbuzie o peggio. Non valeva la pena di trovarlo. Il suo nome fu sempre impronunciabile per cause non solo di fonetica. La scienza ha ben altro da fare o da non fare.
*Oggi più che mai questa poesia bellissima e profonda del Montale è attuale. Tutti indossiamo maschere e mascherine e siamo talmente abituati a mostrare un falso volto di circostanza che diventa un’abitudine. E se qualcuno si mostra più autentico e sincero viene considerato pazzo.
Ad accompagnare l’immagine della pioggia che inumidisce le zolle c’è un solo odore (o profumo, a seconda dei gusti). Questo odore emanato dal suolo quando piove dopo un lungo periodo di secca ha un nome preciso, che pochi conoscono: si chiama petricore. Quel misto di dolce e acre insieme, quasi un respiro della terra, deriva da alcuni elementi che si incontrano con la pioggia. Tra questi ozono, geosmina e oli prodotti dalle piante e rilasciati nell’atmosfera grazie all’acqua piovana. Il termine ha origine neoclassica e nasce in inglese (petrichor, da cui la forma italiana petricore), coniato negli Anni Sessanta da due scienziati australiani. Furono, infatti, I. J. Bear e R. G. Thomas i primi a studiare il fenomeno, rilevando il mix di sostanze prodotte. Il nome deriva a sua volta dall’unione dei sostantivi greci πέτρα (pietra) e ἰχώρ (icore / linfa, ovvero il fluido che secondo la mitologia scorre nelle vene degli dei). Con l’arrivo della pioggia – a patto che sia leggera intensità e di breve durata – il miscuglio prodotto si solleva da terra regalandoci quel caratteristico odore che sa di estate.
E la sottile cortina liquida umida e calda mi avvolse improvvisa. Accolsi grata offrendo il viso e la terra assetata e stanca l’assorbì come una manna. E il PETRICORE intenso si sollevò come un sospiro riempì l’aria ed ogni angolo dopo che l’acqua aveva con orgasmatico piacere inondato la dura zolla Imma Paradiso
Agnolo (Angelo) Ambrogini, detto Poliziano, dal nome latino del paese d’origine, Mons Politianus (Montepulciano, 14 luglio 1454 – Firenze, 29 settembre 1494), è stato un poeta, umanista e filologo italiano. Generalmente considerato il maggiore tra i poeti italiani del XV secolo, membro e fulcro del circolo di intellettuali radunatosi attorno al signore di Firenze, Lorenzo il Magnifico, fu autore di opere in latino, in greco e in volgare, e raggiunse un’ampia competenza filologica e un’ammirevole perfezione formale dello stile. Angelo Ambrogini nacque nel 1454 a Montepulciano, oggi situato in provincia di Siena; dal nome latino della sua città natale, Mons Politianus, avrebbe ricevuto l’appellativo umanistico di Poliziano, con il quale è conosciuto. Suo padre, Benedetto, giurista legato all’importante famiglia fiorentina dei Medici, morì, quando Poliziano aveva solo dieci anni, assassinato dai parenti di un uomo che era stato condannato a causa della sua azione. Poiché, dopo la morte del padre, la madre incontrò serie difficoltà nel garantire la sopravvivenza alla famiglia, Poliziano fu costretto a trasferirsi a Firenze, dove giunse entro il 1469,presso la casa di alcuni parenti. Egli riuscì egualmente a intraprendere gli studi universitari: nell’intento di dimostrare le proprie abilità, nel 1470, all’età di sedici anni, iniziò la traduzione dell’Iliade di Omero dal greco al latino: svolgendo tale opera rivelò già il rigore filologico e l’uso raffinatissimo della parola. Nel 1473, ultimata la traduzione dei primi due libri del poema, Poliziano li dedicò a Lorenzo de’ Medici, da poco divenuto signore di Firenze (1469) assieme al fratello Giuliano: il Magnifico, dunque, prese il giovane scrittore sotto la sua protezione, e, senza considerare affatto la sua modesta origine sociale, gli consentì di accedere all’ampia biblioteca medicea e di frequentare gli intellettuali che erano a lui legati. Nel 1475, divenne segretario di Lorenzo e precettore del suo primogenito Piero. Nel 1480, ricevette la prestigiosa nomina di professore di poetica e retorica allo Studium fiorentino e attese alla stesura di impegnativi commenti ai classici greci e latini. In questo periodo scrisse numerose altre poesie in latino e anche in greco, pur senza abbandonare la composizione di versi di vario genere in volgare. Nel 1484 fu ambasciatore a Roma in occasione dell’elezione di papa Innocenzo VIII e due anni dopo prese i voti e divenne canonico della cattedrale di Firenze, Santa Maria del Fiore. Poliziano morì improvvisamente a Firenze, in circostanze non chiare, nella notte tra il 28 e il 29 settembre 1494, due anni dopo aver assistito alla morte di Lorenzo il Magnifico. Finissimo poeta e filologo, Poliziano fu il più brillante esponente della cultura umanistica fiorentina.
Angelo Poliziano è autore de “La ballata delle rose”, una delle sue opere più famose e amate con cui il poeta celebra l’amore e invita il lettore a godere delle piccole gioie quotidiane, una sorta di Carpe diem, ed è una bellissima testimonianza della letteratura italiana del XV secolo. La protagonista del componimento è una fanciulla, che nelle prime strofe racconta di esser stata in un giardino ricco di fiori e piante in primavera. Il giardino è una vera e propria rappresentazione del locus amoenus, tanto caro alla tradizione classica. Profumi, consistenze, colori si mescolano nella descrizione del giardino, per poi concludersi con la metafora delle rose, da cui infatti il componimento prende il nome. Tutto nella vita ha la caducità del tempo, anche le cose più belle sfioriscono, quindi meglio coglierle quando si ha la possibilità.
La ballata delle rose
I’ mi trovai, fanciulle, un bel mattino di mezzo maggio in un verde giardino.
Eran d’intorno violette e gigli fra l’erba verde, e vaghi fior novelli azzurri gialli candidi e vermigli: ond’io porsi la mano a còr di quelli per adornar e’ mie’ biondi capelli e cinger di grillanda el vago crino.
I’ mi trovai, fanciulle, un bel mattino di mezzo maggio in un verde giardino.
Ma poi ch’i’ ebbi pien di fiori un lembo, vidi le rose, e non pur d’un colore; io corsi allor per empir tutto el grembo, perch’era sì soave il loro odore che tutto mi senti’ destar el core di dolce voglia e d’un piacer divino.
I’ mi trovai, fanciulle, un bel mattino di mezzo maggio in un verde giardino.
I’ posi mente: quelle rose allora mai non vi potre’ dir quant’ eran belle: quale scoppiava della boccia ancora; qual’ erano un po’ passe e qual novelle. Amor mi disse allor: -Va’, cò’ di quelle che più vedi fiorite in sullo spino.-
I’ mi trovai, fanciulle, un bel mattino di mezzo maggio in un verde giardino.
Quando la rosa ogni suo’ foglia spande, quando è più bella, quando è più gradita, allora è buona a mettere in ghirlande, prima che sua bellezza sia fuggita: sicchè, fanciulle, mentre è più fiorita, cogliàn la bella rosa del giardino.
I’ mi trovai, fanciulle, un bel mattino di mezzo maggio in un verde giardino.
I’ posi mente: quelle rose allora mai non vi potre’ dir quant’ eran belle: quale scoppiava della boccia ancora; qual’ erano un po’ passe e qual novelle. Amor mi disse allor: -Va’, cò’ di quelle che più vedi fiorite in sullo spino.-
I’ mi trovai, fanciulle, un bel mattino di mezzo maggio in un verde giardino.
Quando la rosa ogni suo’ foglia spande, quando è più bella, quando è più gradita, allora è buona a mettere in ghirlande, prima che sua bellezza sia fuggita: sicchè, fanciulle, mentre è più fiorita, cogliàn la bella rosa del giardino.
I’ mi trovai, fanciulle, un bel mattino di mezzo maggio in un verde giardino.
*Ed eccoci alla corte di Lorenzo il Magnifico, il grande mecenate, protettore di poeti, pittori ed artisti.Quando la cultura e l’arte erano sinonimo di orgoglio di un casato e Firenze la culla del Rinascimento. E uno degli esponenti di spicco di questo periodo è certamente Poliziano che nel suo stile di aulico volgare descrive con elegante metafora la fugacità della bellezza ed esorta a goderne qui e ora prima che tutto svanisca.
Il dieci agosto si festeggia San Lorenzo Martire, morto a Roma ma ricordato con grande fervore in tutta Italia. Visse nel III secolo e fu ucciso a 33 anni, il 10 agosto del 258 dopo Cristo, perché sorpreso a celebrare l’eucarestia. Sarebbe stato bruciato sui carboni ardenti e secondo la leggenda le stelle cadenti sarebbero il richiamo dei lapilli del fuoco che bruciarono il Martire. X Agosto è anche uno dei componimenti più emozionanti e strazianti mai scritti dall’autore Giovanni Pascoli, inclusa in Myricae. In questa poesia, ripercorre la notte di San Lorenzo del 1867, data in cui suo padre venne assassinato senza una vera e propria spiegazione. Due storie, due delitti.
Ruggero Pascoli (Ravenna, 24 marzo 1815 – Savignano di Romagna, 10 agosto 1867) è stato il padre del poeta Giovanni Pascoli, amministratore della tenuta “La Torre” dei principi Torlonia, assassinato, ufficialmente da ignoti, nel 1867. L’omicidio, che fu opera probabilmente di criminali ed estremisti politici, influì pesantemente sulla psicologia del futuro poeta. La sera in cui venne assassinato, il 10 agosto 1867, Ruggero stava tornando a casa da Cesena quando, all’altezza di San Giovanni in Compito, presso Savignano, venne ucciso con una fucilata sparata da due sicari ignoti, appostati lungo la strada; morì sul colpo e il carretto, con la spaventata cavalla, proseguì ancora da solo per un tratto, trasportando il corpo di Ruggero; la Romagna era allora una terra difficile e in alcune zone imperversava il brigantaggio. Il magistrato che diresse l’inchiesta indagò due agitatori politici di Cesena, in realtà due criminali comuni gravitanti intorno ai movimenti di sinistra per interesse, Luigi Pagliarani detto Pajarèn e soprannominato Bigeca o Bigecca e Michele Della Rocca, che furono però prosciolti. Il delitto, che Pascoli rievocò in molte altre liriche, tra cui X agosto, rimase impunito per una diffusa omertà e venne archiviato dalla magistratura, dopo ben tre processi, come “commesso da ignoti”. L’infanzia segnata del giovane Pascoli fu resa ancor più traumatica dalla perdita della madre Caterina, venuta a mancare l’anno seguente (1868) di crepacuore.
San Lorenzo, io lo so perché tanto di stelle per l’aria tranquilla arde e cade, perché si gran pianto nel concavo cielo sfavilla.
Ritornava una rondine al tetto: l’uccisero: cadde tra spini: ella aveva nel becco un insetto: la cena de’ suoi rondinini.
Ora è là, come in croce, che tende quel verme a quel cielo lontano; e il suo nido è nell’ombra, che attende, che pigola sempre più piano.
Anche un uomo tornava al suo nido: l’uccisero: disse: Perdono; e restò negli aperti occhi un grido: portava due bambole in dono.
Ora là, nella casa romita, lo aspettano, aspettano in vano: egli immobile, attonito, addita le bambole al cielo lontano.
E tu, Cielo, dall’alto dei mondi sereni, infinito, immortale, oh!, d’un pianto di stelle lo innondi quest’atomo opaco del Male!
*Lirica drammaticamente struggente. Le stelle cadenti di S.Lorenzo sembrano piangere in eterno sul male che inonda il mondo. In tutti i tempi, in qualunque luogo si consumano ancora delitti, ingiustizie, guerre, piccole e grandi cattiverie a cui le stelle assistono impotenti commiserandoci.
Il sogno è nato con l’uomo o l’anima forse è solo fatta di sogno, soffocata da mille pensieri ecco che prende il sopravvento solo di notte. Nelle anime poetiche quest’anima è più viva e fa volare. Nella magica notte delle stelle cadenti lasciamo parlare la favola antica e cerchiamo una stella cadente a cui legare i nostri desideri.
Notte di stelle cadenti Notte di desideri espressi ed infranti. Uno per ogni stella che cade uno per ogni cuore che spera. Arrivano lassù come preghiere se c’è qualcuno che le raccoglie. Ognuno, in questa notte speciale alza il viso alla ricerca della sua scia luminosa inseguendo un sogno. Desideri, speranze, domande che cercano, fin dagli albori, risposta nella magia che offre l’universo.
Mancano pochi giorni per ritrovarsi tutti col naso all’insù per vedere le stelle cadenti. Il 10 agosto, infatti, ricorre la notte di San Lorenzo in cui tradizione vuole che si possa assistere all’affascinante spettacolo delle stelle cadenti. Quelle che comunemente noi chiamiamo stelle cadenti, in realtà non sono stelle ma meteore e più precisamente, nel caso della notte del 10 agosto, sono frammenti della cometa Swift Tutle. La cometa ogni anno tra il 9 e il 12 di agosto passa molto vicino al Sole, rilasciando frammenti che invadono il cielo e sono visibili all’occhio umano. Gli astronomi li chiamano Perseidi, dalla costellazione di Perseo, dalla quale sembra provengano. Dall’antichità il mondo del cielo e degli astri ha un significato prezioso e i nostri predecessori ne erano molto influenzati. I corpi celesti erano considerate delle vere e proprie divinità, da cui deriverà poi infatti l’astrologia, e sulla loro osservazione si basavano le predizioni del futuro. Questo incontro ravvicinato tra Terra e Perseidi avviene intorno al 10 agosto che coincide con il giorno in cui si celebra San Lorenzo, il martire che fu condannato al rogo. La tradizione vuole che le stelle cadenti rappresentino le scintille dei carboni ardenti del rogo. Dopo un 2021 a dir poco memorabile, per il 2022 le condizioni osservative delle Perseidi saranno decisamente meno favorevoli. La Luna, infatti, sarà piena all’alba del 12 agosto, proprio in corrispondenza del massimo, dunque guastando la festa. Essa rappresenta l’ultima Superluna dell’anno. Tuttavia, considerando che le meteore sono attive su un ampio intervallo temporale, è possibile giocare d’anticipo, puntando ad esempio alle notti tra 8-9 e 9-10 agosto. In quelle date, una volta tramontata la Luna, la parte finale della notte – fino all’alba – offrirà per almeno un’ora le condizioni di visibilità migliori, anche per ragioni astronomiche.
L’anima è piena di stelle cadenti. (Victor Hugo)
A volte, di notte, dormivo con gli occhi aperti sotto un cielo gocciolante di stelle. Vivevo, allora. (Albert Camus)
Stelle cadenti raccolte in una botte di vino a metà bevute dal desiderio espresso di prati sconfinati dove cielo è tramonto e io ti bacio mio sogno dalle labbra più morbide e rosse da mordere quando mi chiedi se sono felice
(Stelle cadenti di Carlo Bramanti)
*E sui questi versi dolcissimi, poeti dalle anime sognanti, alziamo gli occhi al cielo e cogliamo la scia di una stella per esprimere un desiderio o solo per pensare a chi magari un sogno l’ha già nel cuore e aspetta di realizzarlo.
Essere napoletani, mangiare napoletano, è uno stato d’animo e uno stile di vita. Sono molte le poesie che partenopei e non hanno dedicato al buon cibo nato e prodotto nella città di Partenope. I Napoletani prima erano dei ”Mangiafoglie” come era citato in alcune note di Basile e Cortese, ossia il popolo povero si nutriva di verdura, soprattutto di cavoli. Poi diventarono ”Mangiamaccheroni”….. Per tutto l’Ottocento il “maccaronaro” dal latino ”Pasta ammaccata”divenne uno degli aspetti più salienti del colore napoletano e l’icona indiscussa di mangiarli con le dita e addirittura conservarli nelle tasche è costituita dalla memorabile interpretazione di Totò nel film “Miseria e nobiltà. Eduardo rispettava molto la cucina e amava cucinare e questa sua passione per l’arte culinaria la trasportava nella sua drammaturgia. Sono molte le scene dedicate al pranzo, e i suoi medesimi personaggi che si dilettano a dare spiegazioni sulla preparazione delle portate, sulle varie ricette e condimenti da usare. Eduardo De Filippo ha reso omaggio al ragù napoletano scrivendo la celebre una celebre poesia ‘O ‘rrau, il ragù, porta sulla scena le tradizioni della Cucina di Napoli, vuole sul palco teatrale cibo vero da mangiare, tavole imbandite con diverse vivande, il ragu’ fumante, i rigatoni, il tacchino, il cappone, il pesce, la frittata di cipolle o le cipolle soffritte, il caffè scaldato, la pastasciutta, la frutta, ecc.
Il ragù, un rito che concentra amore e tradizione per i napoletani…bellissimi questi versi in cui l’odore del sugo folgora il poeta mentre scende le scale diventa quasi un elisir afrodisiaco per lo stomaco ed altro…
DUMMENECA (Rocco Galdieri)
I’ mò, trasenno p’ ‘a porta, aggiu sentuto ll’addore d’ ‘o rraù. Perciò… Stateve bona ! … Ve saluto… Me ne vaco, gnorsì… Ca si m’assetto nun me ne vaco cchiù… E succede c’aspetto ca ve mettite a ttavula… E nu sta… Cchiù ccerto ‘e che so maccarune ‘e zita. L’aggiu ‘ntiso ‘e spezzà, trasenno ‘a porta. E’ ‘overo? E s’è capita tutt’ ‘a cucina d’ogge: so’ brasciole, so’ sfilatore ‘annecchia. Niente cunzerva: tutte pummarole passate pe’ ssetaccio… E v’è rimasta pure ‘na pellecchia ‘ncopp’ ‘o vraccio… Pare ‘na macchia ‘e sango… Permettete? V’ ‘a levo! Comm’è fina, sta pelle vosta… e comme è avvellutata: mme sciulia sotto ‘e ddete… E parite cchiù bella, stammatina. ‘O ffuoco, comme fusse… v’ha appezzata. State cchiù culurita… Cchiù ccerto e’ che so’ mmaccarune ‘e zita… Ma i’ mme ne vaco… Addio! Ca si m’assetto nun me ne vaco cchiù… E succede c’aspetto… ca ve mettite a ttavula… p’avé ‘nu vaso c’ ‘o sapore ‘e ‘stu rraù!
*Napoli, napoletani, popolo d’amore, che riversano in tutto nella poesia come nel cibo trasformandolo in opera d’arte. E cosa c’è di più buono ‘e nu vaso che sape ‘e rraù!
Jorge Francisco Isidoro Luis Borges Acevedo noto semplicemente come Jorge Luis Borges ( Buenos Aires, 24 agosto 1899 – Ginevra, 14 giugno 1986) è stato uno scrittore, poeta, saggista, traduttore, filosofo e accademico argentino. Le opere di Borges hanno contribuito alla letteratura filosofica e al genere fantastico. Narratore, poeta e saggista, è famoso sia per i suoi racconti fantastici, nei quali ha saputo coniugare idee filosofiche e metafisiche con i classici temi del fantastico (quali: il doppio, le realtà parallele del sogno, i libri misteriosi e magici, gli slittamenti temporali), sia per la sua più ampia produzione poetica, Jorge Francisco Isidoro Luis Borges Acevedo nacque prematuro (all’ottavo mese di gravidanza) nella stessa casa di via Tucumán 840 a Buenos Aires dove era già nata sua madre.Figlio di Jorge Guillermo, avvocato e insegnante di psicologia – in lingua inglese – all’Instituto del Profesorado en Lenguas Vivas e di Leonor Acevedo Haedo. Il futuro scrittore – che sin da piccolo manifestò i sintomi di quella cecità che nei Borges era ereditaria da ben 6 generazioni – venne educato in casa, oltre che dal padre e dalla nonna materna, da un’istitutrice inglese e si rivelò ben presto un bambino precocissimo: a sette anni scrisse il suo primo racconto – La visiera fatal – e a nove tradusse il racconto di Oscar Wilde Il principe felice. Nel 1914 si trasferì con i genitori, la sorella Norah (nata nel 1901) e la nonna materna – quella paterna li raggiunse in seguito – a Ginevra, dove restò fino al 1918. Nel 1919, durante il soggiorno a Siviglia, per la prima volta venne pubblicata, sul numero 37 della rivista Grecia, una sua poesia, Himno del mar (Inno al mare). Jorge Luis Borges aveva una cultura sterminata: era un avido lettore e profondo conoscitore della letteratura europea e americana, dai classici come Dante a poeti come Walt Whitman. Viaggiava frequentemente in Europa, anche per recarsi in Svizzera per le cure agli occhi, essendo affetto da una retinite pigmentosa che lo renderà praticamente cieco prima degli anni Sessanta, senza per questo arrestare il ritmo del suo intenso lavoro di scrittore, lettore e critico letterario. Fin dall’esordio poetico, Borges aderisce alla corrente Ultraista, un movimento basato sul sistematico rifiuto del modernismo spagnolo fino ad allora dominante; nato in Spagna nel 1918, l’ultraismo fu esportato inin Argentina dallo stesso Borges, che sulla rivista letteraria Nosotros ne delineò la poetica in quattro punti fondamentali: l’intento di riportare la lirica alla sua originaria condizione di metafora, l’eliminazione del superfluo e dell’esplicativo, il rifiuto di uno stile manieristico ornamentale e, infine, una maggiore suggestività del testo attraverso la combinazione di immagini. Nel 1923, il giorno prima del secondo viaggio in Svizzera, Borges pubblicò il suo primo libro di poesie, Fervore di Buenos Aires (Fervor de Buenos Aires), in cui si prefigurava, come disse lo stesso Borges, tutta la sua opera successiva. Fu un’edizione preparata in fretta e furia in cui erano presenti alcuni refusi ed era priva di prologo. Per la copertina sua sorella Norah realizzò un’incisione, e ne furono stampate all’incirca trecento copie; L’unica copia appartenente alla Biblioteca Nazionale Argentina è stata rubata nel 2000 insieme ad altre prime edizioni di Borges. Nonostante la sua formazione europeista, Borges rivendicò con le tematiche trattate le sue radici argentine.Dagli anni ’40, la malattia agli occhi ereditata dal padre, la retinite pigmentosa unita alla forte miopia di cui già soffriva, peggiorò rapidamente e Borges divenne completamente cieco alla fine degli anni ’60. Questo non rallentò tuttavia la sua creatività letteraria e il suo ritmo di lavoro.Destituito nel 1946 dal suo ufficio di assistente bibliotecario (da lui ricoperto dal 1937) per aver firmato un manifesto critico contro Perón, alla caduta di questo nel 1955 fu nominato conservatore della Biblioteca centrale di Buenos Aires, incarico da cui si dimise, dopo il ritorno di Perón, nel 1974. A partire dal riconoscimento del premio Formentor (1961) conseguì una sempre più vasta notorietà internazionale. La sua ricchissima cultura letteraria e filosofica, unitamente al dominio di uno stile rigoroso e preciso e nel contempo arcanamente evocativo, caratterizzano la sua produzione nella quale affronta diversi generi letterarî. Pure in tale varietà di interessi, l’opera di Borges si presenta sostanzialmente unitaria, imperniata com’è nella ricerca del significato più profondo dell’esistenza, attenta a cogliere l’ambiguità e il fascino di situazioni e personaggi al di là delle apparenze. Nel 1967, dopo la fine della ventennale relazione sentimentale e intellettuale con la scrittrice e traduttrice Estela Canto (iniziata nel 1944) sposò Elsa Helena Astete Millán, ma la coppia divorziò dopo soli tre anni, nel 1970. Nonostante il suo enorme prestigio intellettuale e il riconoscimento universale raggiunto dalla sua opera, Borges non fu mai insignito del premio Nobel per la letteratura. Si è sempre ritenuto che la commissione del Premio non abbia mai preso in considerazione l’autore argentino, tuttavia, da alcuni atti recentemente desecretati, si scopre che nel 1967 Borges fu molto vicino alla vittoria del Nobel. Morì il 14 giugno 1986, a 86 anni, nella città di Ginevra (Svizzera), dove periodicamente si recava per curarsi agli occhi, in seguito a un cancro al fegato.
Spesso, l’amore si può trasformare in possesso, in incubo, in una gabbia. Borges ci permette di riflettere sulle diverse facce dell’amore che può essere anche un sentimento difficile. “È l’amore” di Jorge Louis Borges è una poesia che mostra, la natura struggente di questa sentimento, che non viene mostrato come qualcosa di “idilliaco”, ma come qualcosa di reale, nelle sue parti più oscure e controverse. La stima, l’appezzamento dell’altro come soggetto sono ingredienti necessari all’amore, ma il vero fuoco parte da altro, da una passione più profonda che può diventare un arma a doppio taglio.
È l’amore. Dovrò nascondermi o fuggire. Crescono le mura delle sue carceri, come in un incubo atroce. La bella maschera è cambiata, ma come sempre è l’unica. A cosa mi serviranno i miei talismani: l’esercizio delle lettere, la vaga erudizione, le gallerie della Biblioteca, le cose comuni, le abitudini, la notte intemporale, il sapore del sonno? Stare con te o non stare con te è la misura del mio tempo. È, lo so, l’amore: l’ansia e il sollievo di sentire la tua voce, l’attesa e la memoria, l’orrore di vivere nel tempo successivo. È l’amore con le sue mitologie, con le sue piccole magie inutili. C’è un angolo di strada dove non oso passare. Il nome di una donna mi denuncia. Mi fa male una donna in tutto il corpo.
*Una figura di grande spessore intellettuale, letterato, filosofo, un talento vivace e precoce nonostante la malattia e la graduale inarrestabile cecità che non ha fermato la sua vena creativa. Peccato per il Nobel, che di sicuro meritava ma nulla ha tolto al prestigio riconosciuto in tutto il mondo.
“Quando sono veramente nei guai, come può dire chiunque mi conosca, rifiuto tutto tranne che di mangiare e bere”.
E’ solo uno dei memorabili detti che nella loro semplice profondità del geniale Oscar Wilde,scrittore, poeta e drammaturgo, ma anche esperto conoscitore di cibi e vini. “La più nobile reputazione vale molto meno del possedere un buon chef.”
“Chi conquista Londra, conquista il mondo, e Londra si conquista intorno a una tavola da pranzo”. La gastronomia è una questione culturale e gli uomini colti e geniali, siano essi cuochi o poeti, lo sanno, ci scherzano, ci sorridono.
“E’ un errore condannare la gastronomia. La cultura dipende dalla gastronomia. L’unico tipo di immortalità che desidero per me sta nell’inventare una buona salsa – ed era anche solito ripetere – Non riesco a sopportare quelli che non prendono seriamente il cibo. Tutti gli uomini sono dei mostri; non c’è altro da fare che cibarli bene: un buon cuoco fa miracoli”.
Le battute, le frasi, i giudizi di Wilde, diventarono più celebri delle sue opere, arrivando a varcare rapidamente la Manica e l’Atlantico, tanto che allorché il poeta si recò negli Stati Uniti (1882), ascoltò le sue parole sulla bocca di tutti.
Oscar Wilde evoca una semplicissima ricetta, un classico della tradizione inglese: il “Sandwich al cetriolo”. Spuntino del pomeriggio, immancabile compagno del tè delle cinque, il sandwich è citato nelle sue opere come simbolo delle convenzioni, della rigidità e della severità di costumi della società vittoriana.
Pochi gesti, rapida esecuzione.
Togliete il bordo a 2 fette di pane da toast e spalmatele con del burro salato, prima ammorbidito a temperatura ambiente. Tagliate sottilmente delle fettine di cetriolo e privatele della buccia che è la parte più amara. Le fette di cetriolo vanno poi leggermente salate perché possano perdere l’acqua in eccesso. Scolatele e asciugatele con carta assorbente e poi sistematele sulla prima fetta di pane. Cospargete sui cetrioli un po’ di pepe macinato al momento. Il pane può essere bianco, integrale, o ai cereali. Va sempre bene. Chiudete il sandwich con la seconda fetta di pane e lasciatelo in frigo, ricoperto con della pellicola trasparente.
*Un grande poeta e scrittore, un uomo sensibile e originale e…amante del cibo. Ha ragione tutti gli uomini si ammorbidiscono e ogni cosa si risolve davanti ad un buon pranzo.
L’etimologia della parola amore risale al sanscrito kama = desiderio, passione, attrazione (vedi kama-sutra, cioè aforismi, brevi discorsi sul desiderio, sulla passione fisica). Anche il verbo amare risale alla radice indoeuropea ka da cui (c)amare cioè desiderare in maniera viscerale, in modo integrale, totale.Un’altra interpretazione etimologica della parola amore, fa risalire il termine al verbo greco mao = desidero, da cui il latino amor da amare che indica un’attrazione esteriore, viscerale, quasi animalesca da distinguere da un’attrazione mentale, razionale, spirituale per esprimere la quale era usato il verbo diligere, cioè scegliere, desiderare come risultato di una riflessione. Lesbo, un’isola greca che deve la sua fama all’aggettivo femminile: lesbica. Il termine suscitava scandalo poiché del tutto estraneo all’atmosfera del luogo. Lesbo è un’isola, abbastanza grande, a nord-est del mar Egeo, quasi vicina all’Asia Minore, e più precisamente alla Tròade, dove, secondo la leggenda, i guerrieri achei avevano combattuto per dieci anni per la bellezza di Elena.
Lesbo è la patria di Saffo, la poetessa senza bellezza, nata a Mitilene, la città più importante dell’isola, nell’ultimo terzo del VII sec. A.C..Al tempo di Saffo, Lesbo era un’isola ricca, che intratteneva rapporti con le città greche della costa dell’Asia Minore.Le donne godevano una condizione e un’indipendenza che non avrebbero più conosciuto in età classica tra il V e IV sec. a.C.. non che per loro non fosse un obbligo il matrimonio! La stessa Saffo dovette rispettarlo, diventando la moglie di un certo Cercilas o Cercolas, ma le numerose feste in onore delle divinità fornivano diverse occasioni d’incontro alle giovani donne e alle fanciulle che formavano i cori (i cori avevano attinenza con la danza non con il canto).Due erano le compagne di Saffo. Allieve (a cui insegnava la sua arte) o compagne di gioco e di piacere, non si sa. Le sue opere erano indirizzate a delle donne, quelle poesie ardenti, sensuali, erotiche che si è potuto ricostruire grazie a dei frammenti che ci sono pervenuti. Si è scritto molto sull’”amore greco”, sull’amore verso i ragazzi, la pederastia. In realtà l’uomo greco amava le donne al pari di qualunque altro uomo di qualunque altra civiltà. Ma all’interno dei gruppi aristocratici, nella Grecia arcaica (VII-VI sec. a.C.) si stabilivano fra i giovani e adulti relazioni amorose.
Occorre precisare, però, che queste pratiche erano naturali in un determinato ambiente, non lo erano in un altro. Nell’Atene del V e IV sec. a C. non lo erano più. In effetti le donne, a cui ella rivolge i suoi versi ardenti, sono ancora delle “ragazze” e molto spesso, è quando stanno per separarsi da lei per maritarsi, che Saffo compone i suoi commoventi addii.
Una breve, sensuale, stupenda poesia di Saffo: “Schiava d’amore”
Schiava d’amore Tremori inebrianti assalgono
Membra ossessionate.
Dall’inferno
Paradisiaci influssi
Ungono insaziabili orgasmi,
varando il talamo.
Taci ora!
Rovesciami inginocchiati
Oltraggiami.
*Versi di grande passione e sensualità in un mondo dove l’Amore e il piacere varcavano confini molto liberi ma anche in questo contesto tutto era influenzato dalla condizione sociale.
Primo Levi (Torino, 31 luglio 1919 – Torino, 11 aprile 1987) è stato uno scrittore, chimico, partigiano e superstite dell’Olocausto italiano, autore di saggi, romanzi, racconti, memorie e poesie. Partigiano antifascista, il 13 dicembre 1943 fu arrestato dai fascisti in Valle d’Aosta, venendo prima inviato in un campo di raccolta a Fossoli e, nel gennaio 1944, deportato nel campo di concentramento di Auschwitz in quanto ebreo. Scampato al lager, tornò in Italia, dove si dedicò con impegno al compito di raccontare le atrocità viste e subite. Nato il 31 luglio del 1919 a Torino, da genitori di religione ebraica, Primo Levi si diploma nel 1937 al Liceo classico Massimo D’Azeglio e si iscrive al corso di laurea in chimica. Riesce a laurearsi nel 1941, a pieni voti e con lode, ma sul diploma di laurea figura la precisazione: “di razza ebraica”. Il 13 dicembre del 1943 viene catturato e successivamente trasferito al campo di raccolta di Fossoli (Modena) dove comincia la sua odissea. Nel giro di poco tempo, infatti, il campo viene preso in gestione dai tedeschi, che deportano tutti i prigionieri in Polonia, nel lager di Auschwitz/Birkenau. Primo Levi, per il fatto di essere un chimico e di conoscere il tedesco, viene destinato a Monowitz, uno dei campi del grande comprensorio di Auschwitz/Birkenau, dove i prigionieri lavorano in una fabbrica di gomma (Buna). Si ritrovano in pochissimo tempo rasati, tosati, disinfettati e costretti a indossare la divisa a righe del campo. Primo Levi è tra i pochissimi a sopravvivere e far ritorno a casa sua, a Torino, dopo un lungo e avventuroso viaggio. Essendo stato testimone di tante atrocità, sente il dovere di raccontare: comincia a scrivere, elaborando così il suo dolore. Nel 1947 il manoscritto di Se questo è un uomo, rifiutato dalle più grandi case editrici, è pubblicato dalla De Silva. Soltanto nel 1958 con l’uscita presso Einaudi il libro diventerà una delle più conosciute e apprezzate testimonianze sull’industria della morte nazista. I suoi primi libri sono stati scritti prima di tutto per un bisogno di liberazione e come testimonianze perchè gli altri credessero a ciò che era accaduto e non dimenticassero. Nel 1963 pubblica il suo secondo libro “La tregua”, cronache del ritorno a casa dopo la liberazione (il seguito di Se questo è un uomo). Per questa opera gli viene assegnato il premio Campiello.Primo Levi muore suicida l’11 aprile 1987, nella sua Torino, probabilmente lacerato dalle strazianti esperienze vissute e dal quel sottile senso di colpa che talvolta, assurdamente, si ingenera negli ebrei scampati all’Olocausto: di essere cioè “colpevoli” di essere sopravvissuti.
Se questo è un uomo costituisce l’esordio letterario di Primo Levi. Scritto febbrilmente tra il dicembre 1945 e il gennaio 1947, racconta la prigionia subita dallo scrittore nel campo di Auschwitz nel 1944. Il testo venne scritto non per muovere accuse ai colpevoli, ma come testimonianza di un avvenimento storico e tragico. Questa poesia precede il romanzo e si apre sul modello di uno dei più importanti passi della Bibbia ebraica (Deut. 6,4ss.) nel quale Mosè esorta Israele a tenere sempre a mente, in ogni momento del giorno, che Dio è l’unico Signore di Israele. L’esortazione è preceduta da un comando: Ascolta Israele! (Shema Israel). Levi sembra quasi proclamare che i deportati sopravvissuti ad Auschwitz hanno il compito e l’autorità di proclamare un nuovo comandamento, relativo al ricordo e alla conservazione della memoria di quanto è accaduto.
Shemà (Primo Levi) Voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case, voi che trovate tornando a sera il cibo caldo e visi amici: considerate se questo è un uomo che lavora nel fango che non conosce pace che lotta per mezzo pane che muore per un sì o per un no. Considerate se questa è una donna, senza capelli e senza nome senza più forza di ricordare vuoti gli occhi e freddo il grembo come una rana d’inverno. Meditate che questo è stato: vi comando queste parole. Scolpitele nel vostro cuore stando in casa andando per via, coricandovi alzandovi; ripetetele ai vostri figli. O vi si sfaccia la casa, la malattia vi impedisca, i vostri nati torcano il viso da voi.
*Meditate, non dimenticate, vi comando queste parole…ripetetele ai vostri figli perché vi siano di monito, perché ciò che è stato non si ripeta più! Versi forti, crudi, tragici, specchio della più terribile e vergognosa pagina della storia dell’umanità. Un uomo segnato che alla fine è stato sopraffatto dalle tante brutture vissute. Voi che vivete sicuri nelle vostre case, siate felici di questa pace, consapevoli di quale dono prezioso sia.
La violenza è un concetto complesso. È spesso intesa come l’uso o la minaccia della forza, che può provocare lesioni, danni, privazioni o persino la morte. Può essere fisica, verbale o psicologica. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) definisce la violenza come “l’uso intenzionale della forza fisica o del potere, minacciato o reale, rivolto contro se stessi, un’altra persona, o contro un gruppo o una comunità, che produca, o sia molto probabile che possa produrre, lesioni fisiche, morte, danni psicologici, danni allo sviluppo o privazioni”. Ogni anno, oltre 1,6 milioni di persone in tutto il mondo perdono la loro vita a causa della violenza. Per ogni persona che muore come conseguenza della violenza, molte altre sono ferite e soffrono di una serie di problemi di salute fisica, sessuale, riproduttiva e mentale.
Le violazioni dei diritti umani di oggi sono le cause dei conflitti di domani. Mary Robinson
La poesia rielabora ed elenca spunti dell’osservazione quotidiana e della cronaca, dalle morti per droga agli attentati terroristici. È una denuncia di Primo Levi della violenza come stile di vita, lui che di una violenza inaudita – quella dei campi di concentramento nazisti – è stato vittima. Il lungo elenco di persone e di cose su cui imprimere il marchio del proprio passaggio distruttivo è una sorta di necrologio, di cimitero dei valori, fino a quel verbo finale, che come sempre lasciamo all’approfondimento personale del lettore: commiserateci.
Dateci di Primo Levi
Dateci qualche cosa da distruggere, Una corolla, un angolo di silenzio, Un compagno di fede, un magistrato, Una cabina telefonica, Un giornalista, un rinnegato, Un tifoso dell’altra squadra, Un lampione, un tombino, una panchina. Dateci qualche cosa da sfregiare, Un intonaco, la Gioconda, Un parafango, una pietra tombale. Dateci qualche cosa da stuprare, Una ragazza timida, Un’aiuola, noi stessi. Non disprezzateci: siamo araldi e profeti. Dateci qualche cosa che bruci, offenda, tagli, sfondi, sporchi Che ci faccia sentire che esistiamo. Dateci un manganello o una Nagant, dateci una siringa o una Suzuki. Commiserateci.
*Forte, lapidaria, meravigliosa poesia…da un uomo segnato dalla violenza. Sembra che l’essere umano in questo caso non abbia niente di umano, riesca solo a sporcare e distruggere tutto quello che tocca… purtroppo è così.
Annelies Marie Frank, detta Anne chiamata Anna Frank in italiano (Francoforte sul Meno, 12 giugno 1929 – Bergen-Belsen, febbraio o marzo), è stata una giovane ebrea tedesca, divenuta un simbolo della Shoah per il suo diario, scritto nel periodo in cui lei e la sua famiglia si nascondevano dai nazisti, e per la sua tragica morte nel campo di concentramento di Bergen-Belsen. Visse gran parte della sua vita ad Amsterdam, nei Paesi Bassi, dove la famiglia si era rifugiata dopo l’ascesa al potere dei nazisti in Germania. Fu privata della cittadinanza tedesca nel 1935, divenendo così apolide, e nel proprio diario scrisse che ormai si sentiva olandese e che dopo la guerra avrebbe voluto ottenere la cittadinanza dei Paesi Bassi, Paese nel quale era cresciuta
Anna Frank nacque nel 1929 a Francoforte da una famiglia delle borghesia ebraica. La famiglia Frank viveva in una comunità mista e i figli crebbero insieme con bambini di fede cattolica, protestante ed ebraica. I Frank erano ebrei riformati: molte tradizioni ebraiche erano conservate, ma solo alcune venivano praticate. Suo padre Otto era un imprenditore che, con il sollevarsi dell’antisemitismo in Germania, decise di emigrare in Olanda con la moglie, con Anna e sua sorella maggiore, Margot. Ad Amsterdam Otto Frank avviò una azienda. Anche in esilio i genitori si occuparono dell’educazione delle due figlie: Margot frequentò una scuola pubblica, mentre Anna venne iscritta alla scuola pubblica montessoriana nº 6 nella vicina Niersstraat. Mentre Margot eccelleva soprattutto in matematica, Anna si mostrava portata nel leggere e nello scrivere. Spesso Anna scriveva di nascosto e non rivelava a nessuno quello che scriveva.Con l’attacco alla Polonia nel settembre 1939, scoppiò la Seconda guerra mondiale e nel maggio 1940 l’Olanda venne occupata dai nazisti e cominciarono anche lì le persecuzioni razziali. La famiglia tenta allora di emigrare negli Stati Uniti, ma non riuscendovi decide di nascondersi, nel luglio del 1942 in un alloggio segreto in Prinsengracht 263, insieme con altri quattro fuggiaschi. L’iniziale speranza di Otto di poter tornare tutti in libertà dopo qualche settimana si rivelò vana: furono costretti a restare nascosti per più di due anni: non potevano uscire né fare nulla che potesse attirare l’attenzione (ad esempio facendo rumore). Il clima di tensione nel retrocasa, dove i rifugiati vivevano costantemente nella paura e nell’incertezza, portava ripetutamente a tensioni e conflitti. La vita è disagevole e costretta nel poco spazio, ma Anna, che ha 13 anni e un carattere vivace e fantasioso, comincia a scrivere in quelle stanze un diario. Vi racconterà la sua interiorità di adolescente, gli screzi con i compagni di prigionia, i suoi sogni e le sue speranze di diventare una scrittrice. Il 4 agosto 1944 le SS fanno irruzione nell’alloggio segreto e ne deportano gli abitanti. Anna e la sorella Margot vengono deportate a Auschwitz e poi nel campo di Bergen-Belsen, dove entrambe moriranno di tifo esantematico nel febbraio 1945. L’unico sopravvissuto è il padre Otto, che farà ritorno a Amsterdam al termine della guerra e verrà in possesso del diario di Anna, trovato nel rifugio segreto e consegnatogli da degli amici. Decide di pubblicarlo per la prima volta in 3.000 copie nel 1947 e per il suo impatto umano e spirituale il Diario ha conosciuto una immensa diffusione. Tradotto e ristampato in centinaia di migliaia di copie, è forse il più famoso dei testi che raccontano la tragedia degli ebrei.
Anna Frank è stata una delle testimoni “chiave” del periodo della Shoah, grazie al suo diario, alle sue lettere, arrivate fino a noi. Attraverso le sue parole, anche in questa poesia, possiamo capire quello che era l’animo e lo spirito di una bambina che viveva in quell’orrore. Questa poesia datata 1943, ci parla di quel senso di sicurezza, calore, amore che spesso noi diamo per scontato e che, lei, in quel momento non poteva avere. Il ritratto che ne esce fuori è il ritratto di una bambina piena di speranze, che vorrebbe vedere nel mondo qualcosa di bello. È così, nell’orrore, è riuscita a scriverci e tramandarci questo messaggio: quando siamo soli, tristi, infelici, possiamo sempre guardare fuori dalla finestra e sentirci completi. Possiamo sempre avere una possibilità di una nuova felicità. Perché il nostro cielo è sicuro, è “senza timori”.
Aprile
Prova anche tu, una volta che ti senti solo o infelice o triste, a guardare fuori dalla soffitta quando il tempo è così bello. Non le case o i tetti, ma il cielo. Finché potrai guardare il cielo senza timori, sarai sicuro di essere puro dentro e tornerai ad essere Felice.
*Finché avrai la libertà di guardare il cielo sii felice. Che meraviglioso messaggio!! Quanta speranza e voglia di vivere in questa ragazzina, che nel pieno dell’esuberanza giovanile si vede privata della libertà, delle sue abitudini, della scuola, delle amicizie e reclusa in una soffitta, al buio, a causa della guerra, dell’odio razziale, cose così lontane dal suo mondo…e che le priveranno del futuro, dei sogni, della vita.
IL DIARIO DI IL DIARIO DI ANNA FRANK è la raccolta in volume degli scritti, in forma di diario e in lingua olandese, di Anna Frank (1929-1945), una ragazza ebrea nata a Francoforte e rifugiata con la famiglia ad Amsterdam, costretta nel 1942 a entrare nella clandestinità insieme alla famiglia per sfuggire alle persecuzioni e ai campi di sterminio nazisti. Il 12 giugno 1942, giorno del suo tredicesimo compleanno, Anna Frank riceve in regalo un quaderno a quadretti dalla copertina rossa – Kitty – al quale la ragazzina decide di raccontare, come a una persona reale, le sue riflessioni e i suoi pensieri.
A Kitty racconterà la sua interiorità di adolescente, gli screzi con i compagni di prigionia, i suoi sogni e le sue speranze di diventare una scrittrice. “Spero che ti potrò confidare tutto – scriveva – come non ho mai potuto fare con nessuno, e spero che sarai per me un gran sostegno”
Per due anni i Frank vivranno nascosti in questo nascondiglio di Amsterdam, due anni che sono minuziosamente raccontati da Anna nel suo diario. Il Diario rappresenta la prima, e a volte unica, testimonianza diretta dell’Olocausto. Scritto meticolosamnete durante i due anni vissuti in clandestinità, il diario rimane una delle opere più lette al mondo. Nel diario la piccola Anna Frank racconta una storia di reclusione forzata: la necessità di rimanere in silenzio, l’impossibilità di uscire, la paura di essere scoperti da un momento all’altro e catturati. Anna racconta anche l’amicizia, che va nel tempo trasformandosi in amore, per Peter, figlio dei Van Pels. La ragazza scrive nel suo diario quello che succede, annota pensieri e sensazioni e progetta di farne un romanzo quando la guerra sarà finita. Ma le cose andranno diversamente perché il 4 agosto 1944 l’alloggio segreto viene scoperto e tutti coloro che vi erano nascosti vengono arrestati e deportati dalle autorità naziste verso i campi di sterminio. L’unico a uscirne vivo sarà il padre di Anna, Otto; tutti gli altri, compresa Anna, moriranno. Il Diario di Anna Frank si interrompe quindi bruscamente a causa dell’arresto e della deportazione della famiglia Frank, e l’ultima annotazione che riporta risale al 1 agosto 1944. Il 1° agosto del 1944 la ragazzina scrive il suo ultimo appunto; poi verrà catturata dai nazisti e portata via. Anna e la sorella Margot vengono selezionate per i lavori forzati e trasferite pochi mesi dopo a Bergen-Belsen dove contraggono il tifo esantematico. Moriranno entrambe nel febbraio del 1945. Anna è diventata il simbolo delle promesse perdute con la morte di oltre un milione di bambini ebrei durante l’Olocausto.
Martedì, 1 agosto 1944
Cara Kitty, “un fastello di contraddizioni” è l’ultima frase della mia lettera precedente e la prima di quella di oggi. Un “fastello di contraddizioni”, mi puoi spiegare con precisione cos’è? Che cosa significa contraddizione? Come tante altre parole ha due significati, contraddizione esteriore e contraddizione interiore. Il primo significato corrisponde al solito “non adattarsi all’opinione altrui, saperla più lunga degli altri, avere sempre l’ultima parola”, insomma, a tutte quelle sgradevoli qualità per le quali io sono ben nota. Il secondo… per questo, no, non sono nota, è il mio segreto. Ti ho già più volte spiegato che la mia anima è, per così dire, divisa in due. Una delle due metà accoglie la mia esuberante allegria, la mia gioia di vivere, la mia tendenza a scherzare su tutto e a prendere tutto alla leggera. Con ciò intendo pure il non scandalizzarsi per un flirt, un bacio, un abbraccio, uno scherzo poco pulito. Questa metà è quasi sempre in agguato e scaccia l’altra, che è più bella, più pura e più profonda. La parte migliore di Anna non è conosciuta da nessuno, vero? E perciò sono così pochi quelli che mi possono sopportare. Certo, sono un pagliaccio abbastanza divertente per un pomeriggio, poi ognuno ne ha abbastanza di me per un mese. Esattamente la stessa cosa che un film d’amore per le persone serie: una semplice distrazione, uno svago per una volta, da dimenticare presto, niente di cattivo, ma neppure niente di buono. È brutto per me doverti dire questo, ma perché non dovrei dirlo, quando so che è la verità? La mia parte leggera e superficiale si libererà sempre troppo presto dalla parte più profonda, e quindi prevarrà sempre. Non ti puoi immaginare quanto spesso ho cercato di spingere via quest’Anna, che è soltanto la metà dell’Anna completa, di prenderla a pugni, di nasconderla; non ci riesco, e so anche perché non ci riesco. Ho molta paura che tutti coloro che mi conoscono come sono sempre, debbano scoprire che ho anche un altro lato, un lato più bello e migliore. Ho paura che mi beffino, che mi trovino ridicola e sentimentale, che non mi prendano sul serio. Sono abituata a non essere presa sul serio, ma soltanto l’Anna “leggera” v’è abituata e lo può sopportare, l’Anna “più grave” è troppo debole e non ci resisterebbe. Quando riesco a mettere alla ribalta per un quarto d’ora Anna la buona, essa, non appena ha da parlare, si ritrae come una mimosa, lascia la parola all’Anna n. 1 e, prima che io me ne accorga, sparisce. La cara Anna non è dunque ancora mai comparsa in società, nemmeno una volta, ma in solitudine ha quasi sempre il primato. Io so precisamente come vorrei essere, come sono dentro, ma, ahimè, lo sono soltanto per me. E questa è forse, anzi, sicuramente la ragione per cui io chiamo me stessa un felice temperamento interiore e gli altri mi giudicano un felice temperamento esteriore. Di dentro la pura Anna mi indica la via, di fuori non sono che una capretta staccatasi dal gregge per troppa esuberanza. Come ho già detto, sento ogni cosa diversamente da come la esprimo, e perciò mi qualificano civetta, saccente, lettrice di romanzetti, smaniosa di correre dietro ai ragazzi. L’Anna allegra ne ride, dà risposte insolenti, si stringe indifferente nelle spalle, fa come se non le importasse di nulla, ma, ahimè, l’Anna quieta reagisce in maniera esattamente contraria. Se ho da essere sincera, debbo confessarti che ciò mi spiace molto, che faccio enormi sforzi per diventare diversa, ma che ogni volta mi trovo a combattere contro un nemico più forte di me. Una voce singhiozza dentro di me: “Vedi a che ti sei ridotta: cattive opinioni, visi beffardi e costernati, gente che ti trova antipatica, e tutto perché non hai dato ascolto ai buoni consigli della tua buona metà”. Ahimè, vorrei ben ascoltarla, ma non va; se sto tranquilla e seria, tutti pensano che è una commedia, e allora bisogna pur che mi salvi con uno scherzetto; per tacere della mia famiglia che subito pensa che io sia ammalata, mi fa ingoiare pillole per il mal di testa e tavolette per i nervi, mi tasta il collo e la fronte per sentire se ho la febbre, si informa delle mie evacuazioni e critica il mio cattivo umore. Non lo sopporto; quando si occupano di me in questo modo, divento prima impertinente, poi triste e infine rovescio un’altra volta il mio cuore, volgendo in fuori il lato cattivo, in dentro il lato buono, e cerco un mezzo per diventare come vorrei essere e come potrei essere se… non ci fossero altri uomini al mondo.
La tua Anna M. Frank
*Chi non ha mai scritto un diario, da adolescente riversandovi tutti i malumori, i dubbi, le paure, i sogni. Ancora più tragico leggere le riflessioni così profonde e confuse di una ragazzina piena di talento e con una spiccata personalità in crescita. Quella che poteva diventare una bellissima persona e vedere realizzato il suo sogno di scrittrice ha visto la fine prematura e ingiusta nel modo più atroce. Questa è la guerra.
Nella sua raccolta Odi Elementari, del 1954, Neruda dedica un bellissimo elogio al vino.
Di cosa è capace il vino? Il vino unisce, ci spinge a socializzare e a stare insieme. Il vino riporta l’allegria nei momenti di tristezza, fa cantare. Il vino fa innamorare e fa venir voglia di amare. Il vino è uno dei prodotti per cui si dovrebbe essere più grati alla terra, frutto del lavoro dell’uomo e del tempo.
Ode al vino
Vino color del giorno,
vino color della notte, vino con piedi di porpora o sangue di topazio, vino, stellato figlio della terra, vino, liscio come una spada d’oro, morbido come un disordinato velluto, vino inchiocciolato e sospeso, amoroso, marino, non sei mai presente in una sola coppa, in un canto, in un uomo, sei corale, gregario, e, quanto meno, scambievole.
A volte ti nutri di ricordi mortali, sulla tua onda andiamo di tomba in tomba, tagliapietre del sepolcro gelato, e piangiamo lacrime passeggere, ma il tuo bel vestito di primavera è diverso, il cuore monta ai rami, il vento muove il giorno, nulla rimane nella tua anima immobile. Il vino muove la primavera, cresce come una pianta di allegria, cadono muri, rocce, si chiudono gli abissi, nasce il canto. Oh, tu, caraffa di vino, nel deserto con la bella che amo, disse il vecchio poeta. Che la brocca di vino al bacio dell’amore aggiunga il suo bacio
Amor mio, d’ improvviso il tuo fianco è la curva colma della coppa il tuo petto è il grappolo, la luce dell’alcol la tua chioma, le uve i tuoi capezzoli, il tuo ombelico sigillo puro impresso sul tuo ventre di anfora, e il tuo amore la cascata di vino inestinguibile, la chiarità che cade sui miei sensi, lo splendore terrestre della vita.
Ma non soltanto amore, bacio bruciante e cuore bruciato, tu sei, vino di vita ma amicizia degli esseri, trasparenza, coro di disciplina, abbondanza di fiori. Amo sulla tavola, quando si conversa, la luce di una bottiglia di intelligente vino. Lo bevano; ricordino in ogni goccia d’oro o coppa di topazio o cucchiaio di porpora che l’autunno lavorò fino a riempire di vino le anfore, e impari l’uomo oscuro, nel cerimoniale del suo lavoro, e ricordare la terra e i suoi doveri, a diffondere il cantico del frutto.
*Un canto intenso, caliente come un buon calice di vino, Neruda lo traduce nella celebrazione del corpo della donna e la convivialità fra amici, in entrambi i casi il vino aiuta e inebria.
Sentirsi anima nell’anima, in un senso totale di appartenenza, esistere finché tu respiri.
IO SONO
Io sono finché tu respiri. Ci sei dovunque sei. Lontano o vicino in questo universo, non conta dove sei ma dove riposa la tua anima. Io sono nel tuo respiro, io abito nella tua anima. Io sono se tu sei io sono finché respiri io sono nella tua anima.
Charles Pierre Baudelaire ( Parigi, 9 aprile 1821 – Parigi, 31 agosto 1867) è stato un poeta, scrittore, critico letterario, critico d’arte, giornalista, filosofo, aforista, saggista e traduttore francese. È considerato uno dei più importanti poeti del XIX secolo, esponente chiave del simbolismo, nonché anticipatore del decadentismo. I fiori del male, la sua opera maggiore, è considerata uno dei classici della letteratura francese e mondiale. Baudelaire fonda la sua visione antropologica sulla convinzione che tutti gli uomini vivono in uno stato d’angoscia, della quale sono più o meno coscienti, perché non riescono a realizzarsi.Questa angoscia, questo stato di malessere fisico e psicologico, inquietudine, scontento, viene definita Spleen, che si associa al termine francese Ennui, ovvero la noia. Allo Spleen ci si può arrendere, accettando il non senso della vita e il vuoto cosmico che ne consegue, oppure ci si può opporre, rifuggendo la realtà e cercando l’Idéal. L’Idéal è, per Baudelaire, l’assoluto verso il quale ogni uomo tende naturalmente: per raggiungerlo – e quindi per allontanarsi dallo Spleen – l’essere umano deve evadere dalla realtà, cioè cercare il Dandismo allontanandosi dal brutto e banale – la realtà -, andando a rifugiarsi nell’artificiale, in tutto ciò che non è naturale, e per fare questo esistono alcuni strumenti, come l’alcool e le droghe. I fiori del male, definiti da Emilio Praga “un’imprecazione, cesellata nel diamante”, esprimono dunque la vita secondo Baudelaire.
Dipinto Davide Pacini
La celebre poesia A una passante (À une passante, ), fu pubblicata per la prima volta sulla rivista L’Artiste nel 1855. La lirica fu in seguito inclusa nella raccolta I fiori del male (1857), massima espressione della poetica di Baudelaire. La passante di Baudelaire non è altro che una fugace visione che appare all’improvviso in una strada affollata e caotica. La strada viene definita, tramite una personificazione, “urlante” per rappresentare il vociare fastidioso della folla in movimento. Nel frastuono del viavai quotidiano il poeta coglie per un istante una donna misteriosa, che non ha mai visto e della quale non sa nulla. La sua visione tuttavia lo induce a sognare di conoscerla, di incontrarla. L’uomo è colpito da un suo gesto, minimo, rapido, quasi infinitesimale: la sconosciuta solleva l’orlo della gonna con “mano superba” mostrando le gambe. La donna sembra un abbaglio di luce: svanisce così com’è comparsa nel mezzo di una folla anonima. Nel poeta rimane tuttavia il rimpianto di lei, conficcato come una spina. È una poesia dedicata alla bellezza intravista che trova proprio nella sua fugacità il motivo del suo eterno splendore. La passante colpisce il poeta come un’ispirazione, diventa l’immagine stessa del Bello che tuttavia non è destinato a durare in un mondo che non sa coltivare la propria sensibilità e la vende a poco prezzo in cambio di quattrini.
A una passante di Charles Baudelaire
Attorno m’urlava la strada assordante. Alta, sottile, in lutto, nel dolor regale, una donna passò, alzando con superba mano e agitando, la balza e l’orlo della gonna; agile e nobile, con le gambe statuarie.
Ed io le bevevo, esaltato come un folle, nell’occhio, cielo livido presago d’uragano, dolcezza che incanta e piacere che dà morte.
Un lampo … poi la notte! Bellezza fugace, il cui sguardo m’ha ridato vita a un tratto, nell’eternità solamente potrò rivederti?
Altrove, lontano, troppo tardi, mai forse! Perché ignoro dove fuggi, e tu dove io vada, o te che avrei amato, o te che lo sapevi!
Un’immagine fugace, da film, lei triste, bellissima, altèra, in una strada affollata, eppure lo sguardo del poeta è tutto su di lei..un attimo, intenso come una vita, lei si ferma e alza un po’ l’orlo della gonna e lui ne rimane soggiogato..si scatena un uragano nel suo animo e il presagio che sia l’incontro della vita…ma lei scompare e l’attimo si perde come le mille occasioni che ci lasciamo sfuggire. Rimane quel senso di perdita, il rimpianto, …o te che avrei amato, o te che lo sapevi!
Charles Pierre Baudelaire ( Parigi, 9 aprile 1821 – Parigi, 31 agosto 1867) è stato un poeta, scrittore, critico letterario, critico d’arte, giornalista, filosofo, aforista, saggista e traduttore francese. È considerato uno dei più importanti poeti del XIX secolo, esponente chiave del simbolismo, nonché anticipatore del decadentismo. I fiori del male, la sua opera maggiore, è considerata uno dei classici della letteratura francese e mondiale. Charles Baudelaire nacque a Parigi, in Francia, il 9 aprile 1821, suo padre si chiamava Joseph-François Baudelaire; si trattava di un ex-sacerdote e capo degli uffici amministrativi del Senato, la madre era la ventisettenne Caroline Archimbaut-Dufays, sposata da Joseph-François dopo la perdita della prima moglie. All’età di sei anni Baudelaire restò orfano del padre, allora sessantenne, Caroline, rimasta vedova, riversò sul figlio tutta la sua ricchezza affettiva, ma l’anno successivo decise di sposarsi con Jacques Aupick , un tenente colonnello che, a causa della sua freddezza e rigidità (nonché del perbenismo borghese di cui era intriso), si guadagnò ben presto l’odio del giovane Charles, in età adolescenziale.Baudelaire non perdonò mai alla madre questo “tradimento” e da allora il rapporto tra i due divenne sempre più tormentoso, nutrito dagli impulsi di vendetta del figlio, che non dissociava più l’amore per la madre dal bisogno di farla soffrire.all’età di 14 anni Baudelaire iniziò a frequentare il collegio Louis-le Grand, con risultati altalenanti.In collegio Baudelaire soffre di solitudine, legge molto, alterna momenti di profitto brillante a pause d’ozio e ribellione: viene espulso per indisciplina, ma riesce lo stesso a diplomarsi. Finito il liceo, il giovane si mostrò indeciso sul proprio futuro e insofferente alle scelte che Aupick aveva in mente per lui; si appassionò però alla carriera letteraria, che lo portò a conoscere artisti e scrittori dediti ad uno stile di vita bohémien, che lo spinse per altro ad accumulare debiti. Durante questo periodo cominciò inoltre a frequentare prostitute e contrasse presumibilmente la gonorrea e la sifilide, che, probabilmente, sarà la causa della sua morte circa 27 anni dopo. Caroline e Aupick, a prendere provvedimenti: decidono di far imbarcare Charles su una nave, la Paquebot des Mers du Sud, verso l’India, un viaggio straordinario per l’epoca, Durante il viaggio Baudelaire comincia a comporre le prime poesie, dedicate ora all’esotismo dei luoghi che visita, ora alle donne bellissime e misteriose che incontrato. Le contrapposizioni cominciano a farsi spazio nella sua vita prima e nella sua poetica poi: Parigi diventa nera e fangosa, in contrapposizione alla bella, verde e rigogliosa Maurice, l’isola vicino al Madagascar nella quale Baudelaire ha vissuto per un po’. Nei suoi testi Baudelaire comincia a giocare con i sensi e con le parole: gli odori generano le visioni, le visioni diventano parole su carta, le poesie si riempiono di sinestesie e associazioni tematiche. Una volta rientrato a Parigi, ormai maggiorenne, Baudelaire comincerà a svolgere una vita da bohémien grazie all’eredità paterna, proseguendo la sua vita all’insegna della carriera letteraria. È in questo periodo che comincia a scrivere le prime composizioni de I fiori del male, affermandosi inoltre come critico d’arte e giornalista. Nel 1842 incontrò Jeanne Duval, “La Venere Nera” che “lo torturava ogni giorno” (così diceva la madre di Baudelaire), una danzatrice e attrice teatrale creola di origini haitiane, africane e francesi, figlia illegittima di una prostituta di Nantes, con la quale Baudelaire visse un’appassionata e turbolenta storia d’amore, che diverrà per il poeta fonte di notevoli spunti letterari. In questo periodo entrò a far parte del Club des Hashischins, un circolo di letterati e intellettuali dediti all’esplorazione delle esperienze e delle allucinazioni prodotte dalle droghe (prima fra tutte l’hashish), che si ritrovavano spesso all’Hôtel de Lauzun. Sempre in questi anni conobbe Balzac e continuò a produrre alcuni dei componimenti de I fiori del male. Al 1845 risale la prima pubblicazione, il lavoro di Baudelaire si guadagnò parecchie attenzioni in campo artistico, per l’audacia delle idee esposte e per la competenza dimostrata dall’autore. A questo primo “successo” personale faceva contrasto però il suo stile di vita: sempre più pressato da debiti, dubbioso sul proprio futuro, solo e con una condizione psicologica precaria, Baudelaire tentò per la prima volta il suicidio in maggio. Difficile a dir poco cercare di comprendere per quali motivi Baudelaire avesse deciso di vivere una vita così sregolata: da una parte, Baudelaire fonda la sua visione antropologica sulla convinzione che tutti gli uomini vivono in uno stato d’angoscia, della quale sono più o meno coscienti, perché non riescono a realizzarsi.Questa angoscia, questo stato di malessere fisico e psicologico, inquietudine, scontento, viene definita Spleen, che si associa al termine francese Ennui, ovvero la noia. Allo Spleen ci si può arrendere, accettando il non senso della vita e il vuoto cosmico che ne consegue, oppure ci si può opporre, rifuggendo la realtà e cercando l’Idéal. L’Idéal è, per Baudelaire, l’assoluto verso il quale ogni uomo tende naturalmente: per raggiungerlo – e quindi per allontanarsi dallo Spleen – l’essere umano deve evadere dalla realtà, cioè cercare il Dandismo allontanandosi dal brutto e banale – la realtà -, andando a rifugiarsi nell’artificiale, in tutto ciò che non è naturale, e per fare questo esistono alcuni strumenti, come l’alcool e le droghe. I fiori del male, definiti da Emilio Praga “un’imprecazione, cesellata nel diamante”, esprimono dunque la vita secondo Baudelaire. Baudelaire venne processato nel 1857 dal procuratore Pierre Ernest Pinard (lo stesso che aveva messo sotto accusa Madame Bovary di Gustave Flaubert), per la pubblicazione de I Fiori del Male, insieme al suo editore, Auguste Poulet-Malassis. Baudelaire venne accusato di “offendere la morale pubblica e il buon costume” Tuttavia, Baudelaire non si arrese al volere della giustizia dell’imperatore Napoleone III e nel 1861 pubblicò una nuova edizione de I Fiori del Male, con l’aggiunta di 35 nuove poesie inedite. La sua salute peggiora: la sifilide, che fino a quel momento gli ha provocato crisi, nevralgie e una certa dipendenza dal laudano, non gli dà tregua. Completa però alcune opere, a partire dai Paradisi Artificiali, un saggio dedicato agli effetti delle droghe sul corpo. Nel testo, Baudelaire descrive con dovizia le sensazioni provate dopo l’assunzione di oppio, alcolici, hashish, vino. Negli ultimi anni, tra una crisi esistenziale e un attacco ischemico, Baudelaire subisce una serie di lutti dai quali non riuscirà a riprendersi, e tenterà nuovamente il suicidio. Baudelaire muore tra le braccia di sua madre il 31 agosto 1867, in preda a dolori lancinanti, per complicazioni della sifilide.
Charles Baudelaire in “Ti adoro” paragona la donna amata alla volta celeste. La meraviglia del cielo stellato che gli tiene compagnia durante le notti insonni, triste e silenzioso quasi fosse un vaso pieno di tristezza. La donna di cui parla Baudelaire è però sfuggente e per questo lui la ama ancora di più. L’altra metà del componimento è quasi ironica, il poeta descrive se stesso mentre tenta la conquista con immagini decisamente più macabre. Si paragona infatti ad una fila di vermi che piano decompone un cadavere.
“Ti adoro” Ti adoro al pari della volta notturna, o vaso di tristezza, o grande taciturna! E tanto più t’amo quanto più mi fuggi, o bella, e sembri, ornamento delle mie notti, ironicamente accumulare la distanza che separa le mie braccia dalle azzurrità infinite.
Mi porto all’attacco, m’arrampico all’assalto come fa una fila di vermi presso un cadavere e amo, fiera implacabile e cruda, sino la freddezza che ti fa più bella ai miei occhi.
*Il poeta maledetto con una visione così particolare della vita, l’ansia di godersi i momenti a qualsiasi costo, in qualsiasi modo, come una corsa contro il tempo, forse per il trauma di aver perso il padre così precocemente. Tutti gli eccessi sono distruttivi, sia questa fame di felicità fasulla da raggiungere in uno stato di stordimento artificiale e autolesionista, sia lasciar scorrere i giorni nell’indifferente apatia, magari come lui sosteneva accontentandosi del vuoto, della noia quotidiana inaridendo l’anima. Come sempre la verità sta nel mezzo, riuscire a cogliere un po’ di felicità e di emozione reale guardando la vita con occhi nuovi e il cuore aperto.
La fantasia onirica del poeta, si traduce nei versi in immagini volte a trasportare il lettore in mondi ideali, al di fuori del tempo. E quale migliore ispirazione lo sguardo bambino alla bellezza del creato verso cui l’anima tende.
Attraverserò i campi di grano ridendo con l’allegra giocosità di un bambino felice. Correrò a perdifiato dove l’erba è più alta, mossa dal vento, come onda di mare. Sarò papavero e spiga vento e raggio di sole. E poi le mie braccia diventeranno ali e spiccherò il volo. Su e più su, libera, tra le nuvole, sarò soltanto aria.
Per spreco alimentare si intende qualsiasi sostanza sana e commestibile che in ogni fase della catena alimentare, invece che essere destinata al consumo umano, viene sprecata, persa, degradata. Ogni anno un terzo della quantità totale di cibo prodotto mondialmente viene perso o inutilizzato, un numero corrispondente a ben 1,6 miliardi di tonnellate. Un valore che con il passare del tempo invece che diminuire aumenta; la previsione per il 2030 supera infatti i 2 miliardi di tonnellate di cibo sprecato. Il tipo di spreco alimentare si differenzia in base al paese in considerazione. Infatti, i Paesi in via di sviluppo tendono a concentrare lo spreco nella prima fase, specialmente dopo la raccolta, a causa di tecnologie poco sviluppate e di condizioni climatiche che non permettono una corretta coltivazione. Per i Paesi sviluppati avviene invece il contrario: lo spreco alimentare si concentra nelle fasi di distribuzione e consumo, ovvero le fasi finali della filiera. Questo perché nei Paesi caratterizzati da un’economia stabile le quantità di cibo sono sempre più abbondanti e i consumatori sempre più selettivi, quindi non sempre il rapporto domanda/offerta è in equilibrio. Lo spreco alimentare prende luogo soprattutto all’interno delle case, infatti nel 2021 il cibo buttato nella spazzature assume un valore di 7.37 miliardi, una cifra esorbitante. La frutta fresca è in assoluto la categoria di cibo più sprecata, insieme alle verdure come insalate, cipolle, aglio e tuberi. Tra i cereali, l’alimento che viene più sprecato è il pane fresco; da prestare attenzione anche a latte e derivati. La chiave per evitare tutto ciò sta nell’adottare un’ottica sostenibile, focalizzandosi su piccoli gesti capaci di aiutare il pianeta e gestendo così al meglio il nostro consumo alimentare. Tanto semplice, quanto banale, una buona lista della spesa può aiutare a svolgere l’acquisto di cibo in maniera intelligente. Nel caso in cui, invece, dovessero rimanere degli avanzi dopo i pasti, è bene non gettarli subito, ma conservarli per riutilizzarli o rielaborarli.
Il pane inteso come diritto di tutti diviene strumento di attenzione ai concetti della solidarietà e della coscienza all’esistenza del disagio economico. Con il suo scrivere semplice Rodari arriva dritto al cuore di bambini ed adulti, trasformando la schiettezza democratica di questo alimento in un potentissimo messaggio universale.
Il Pane
S’io facessi il fornaio vorrei cuocere un pane così grande da sfamare tutta, tutta la gente che non ha da mangiare.
Un pane più grande del sole, dorato, profumato come le viole.
Un pane così verrebbero a mangiarlo dall’India e dal Chilì i poveri, i bambini, i vecchietti e gli uccellini.
Sarà una data da studiare a memoria: un giorno senza fame! Il più bel giorno di tutta la storia!
*Tutti hanno diritto al pane, come scrive nella sua meravigliosa semplicità Rodari, tutti, bimbi, animali e uomini di tutte le razze e condizioni sociali ma nella realtà c’è chi lo spreca senza riguardo, tonnellate di cibo che per negligenza finisce nella spazzatura in una catena di disequilibrio sempre più intollerabile.
Sarà la poesia a salvare il mondo… Sono emersi dal silenzio in cui relega il rumore disordinato della superficialità e si sono chinati sul dolore del mondo, ascoltandone le voci, contandone le lacrime, trovando parole di conforto e di speranza: sono i poeti. Perché la poesia, “allodola di fuoco”, “accendere le persone, passare sugli occhi e sulle labbra, sfiorando il cuore” ( Davide Rondoni ).
Venite poeti, cantate per me fatemi tremare ad ogni verso! Ecco m’involo con l’anima nelle malinconiche immagini che evocate con maestrìa. È il vostro sentìre che riempie il cuore e gli occhi di lacrime. Oh cantate poeti! Siate seme fecondo che farà germogliare la terra, piacerà a Dio… Se ha creato cuori gentili e mani nobili, che in ogni tempo seppero tramutare emozioni in parole, forse un po’ ci toccò il Paradiso su questa terra.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi è una poesia di Cesare Pavese, ma è anche il titolo della raccolta omonima nella quale venne pubblicata, postuma, nel 1951, a seguito del suicidio del poeta. La poesia racconta ed esprime il dolore scaturito dalla delusione amorosa patita dal poeta per l’attrice americana Constance Dowling.
La raccolta di poesie comprende dieci componimenti, di cui otto in italiano e due in inglese. Le poesie sono state tutte scritte tra l’11 marzo e il 10 aprile del 1950 a Torino. Furono ritrovate tutte tra le sue carte dell’autore dopo la sua morte. In questi versi troviamo diverse letture della morte: essa viene considerata una presenza costante nella vita. Quasi un ospite indesiderato, qualcosa della quale non possiamo mai liberarci, che non si esaurisce soltanto nel momento in cui si verifica, ma che permea l’intera esistenza. Nella poesia è forte il contrasto tra la vista e l’udito. Da un lato si trova la vista, gli occhi, il mondo degli sguardi, la comunicazione non verbale; dall’altro troviamo invece le orecchie sempre sorde e le grida sempre mute. Infine la poesia si chiude con la speranza che è solo una vana illusione.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi- questa morte che ci accompagna dal mattino alla sera, insonne, sorda, come un vecchio rimorso o un vizio assurdo. I tuoi occhi saranno una vana parola un grido taciuto, un silenzio. Così li vedi ogni mattina quando su te sola ti pieghi nello specchio. O cara speranza, quel giorno sapremo anche noi che sei la vita e sei il nulla.
Per tutti la morte ha uno sguardo. Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. Sarà come smettere un vizio, come vedere nello specchio riemergere un viso morto, come ascoltare un labbro chiuso. Scenderemo nel gorgo muti.
*Questi versi sono splendidi e terribili, un vero atto d’accusa… identificare la morte con gli occhi di chi si ama. Di colei che poteva essere il sole della speranza, la salvezza e diventa uno sguardo chiuso che lo porterà inesorabile nel gorgo muto. Ma in realtà il mal di vivere di questo splendido e profondo poeta era un’ombra che lo accompagnava da tutta la vita forse aveva solo bisogno di chi ascoltasse quel grido taciuto.