Ossa rotte II, e il sole è sorto..

Di Frida la loka ( Lombardia)

Sorto come la fenice, dall’oscuro nulla e infame o dal fuoco amagliante e accogliente dell’universo.

Ho spalancato finestre, lenzuole scaraventate contro il muro ma… ossa e carne, sono troppo deboli ancora per disfarmene.

Successione infinita di fotogrami, pasato a colori, presente nero bianco, il futuro non s’intravede chissà, magari è più vicino di quanto pare, ragomitato, la giù, in un angolo dietro il lampione fuori.

Trascorrono le ore, il mio andare è affannoso e lento, direi affaticato e poco imbogliato.

Libreria multimediale W.press

Per oggi non ho molte aspettative, né fisiche, né mentali; quindi magro uso d’un mecanismo perfetto ( quasi)…

Tua

25 novembre, 2022.

Dal blog personale di

http://fridalaloka.com

Ripubblicato su

Raccontino scritto in un’ora tanto per scacciare la noia che mi assale…

I due amici di vecchia data camminano di notte in una strada di periferia deserta. Vanno verso la macchina. La macchina è ancora lontana. Camminano mentre una pioggia fine lì bagna appena, ma loro non se ne curano.  Devono smaltire del pessimo vino, ingurgitato in fretta, tracannato per avere uno stato alterato di coscienza, per rompere gli schemi, per evadere dal grigiore abituale. Uno senza lavoro, disoccupato cronico e solo. L’altro invece sposato con prole, sempre di corsa, sempre stressato e indaffarato. Il disoccupato ha troppo tempo per pensare. Invece l’altro vorrebbe avere più tempo per sé.  Ognuno raccoglie gli sfoghi dell’altro. Ognuno cerca di comprendere l’altro. Parlano di vecchie amicizie, di vecchie conoscenze. Qualcuno ha detto che frequentandosi tra coetanei non si invecchia mai. 

Il disoccupato cronico esordisde: “Si è presa gioco di me. Mi ha fatto soffrire. Sono solo, mentre tutti si amano. E non posso dirlo che a te. I giovani ridono della solitudine perché pensano che non li riguarderà mai. Tutti qui sono deterministi economici. Per loro l’amore e le questioni esistenziali sono cose borghesi di nessun conto, a cui non bisogna prestare ascolto. Io ormai non sono neanche più borghese.  Tutti qui vogliono escludermi. Spesso penso che non mi perdo niente. Penso che per rompere la mia solitudine dovrei sopportare troppa superficialità,  troppa stupidità.  A volte mi dico che mi basta già la mia di stupidità; mi basta già il mio vuoto. Penso che il vuoto altrui non riempirà il mio vuoto. Al vuoto non si può aggiungere altro vuoto.”

“Si credeva una regina. Aveva molti privilegi. Aveva il privilegio di far innamorare, di giocare con i sentimenti altrui, di far soffrire. Rideva di te, della tua persona, delle tue parole, del tuo  lavoro… quando avevi un lavoro. Immaginiamoci come si comporterebbe con te ora che non hai un lavoro. Eri sotto scacco, non eri in te perché eri in suo potere. Lei non ti apprezzava, non ti voleva. Non sono questi i drammi. Comprendo i tuoi problemi. Il tempo passa, cura le ferite e fa scomparire la bellezza sui volti,  sui corpi. Si credeva invincibile, eterna, bellissima. Pensava che niente e nessuno avrebbero potuto fermarla. Aveva i suoi amanti e rideva di te con loro. Guardala ora come è patetica. Guardala ora che cerca una rispettabilità piccolo-borghese, che si è sposata e ha un figlio. Adesso è la sua stagione dei rimorsi, dei sensi di colpa. Adesso rinnega la sua giovinezza. Ma nel suo sguardo c’è ancora una luce, che ricorda vagamente quell’ardire, quella fierezza, quella presunzione. La vecchiaia, la malattia, la morte vincono sull’amore, che è una sciocchezza e niente più.”

“A me non è stato dato l’amore ricambiato. A me non è toccato l’amore. Passano gli anni e mi dico che ho sofferto e vissuto inutilmente, se poi alla fine morirò solo. E per la gente qui io sono solo uno che ha il lusso di poter sprecare il suo tempo. Quante parole sull’amore quando in amore tutto si riduce a un chiedere e a un dare, a un consenso o a un rifiuto. Tutto il resto è puro parlarsi addosso.”

“La vita è un senso unico alternato. Prima o poi tocca tutti a tutto. Dimenticatela. Ci sono miliardi di donne a questo mondo. È stata una ragazza qualsiasi che tu hai idealizzato. Solo un piccolo paese, una cittadina possono condannarti alla solitudine. Lo so. La gente di questo posto vuole importi la sua visione del mondo e condannarti alla solitudine. Poi vanno a servire e a strisciare come vermi di fronte ai nuovi potenti, ora che è cambiato il vento. Non sanno cosa siano la coerenza e la dignità.  Allora molto meglio la tua coerenza e la tua dignità di essere solo. Solo un piccolo mondo di provincia può condannarti alla solitudine. Solo alla morte non c’è rimedio. Si trova sempre il modo, la maniera. Non sprecare il tempo che ti rimane. Vai oltre la cattiveria locale. Il mondo è molto più grande di questa cittadina. Il mondo intero non condanna nessuno alla solitudine. Ricordati sempre che nel mondo tu non sei solo.”

I due amici di vecchia data camminano di notte in una strada di periferia deserta. Vanno verso la macchina. La macchina è ancora lontana. Camminano mentre una pioggia fina lì bagna appena, ma loro non se ne curano. Ci vuole una volta al mese un’uscita, una cena. Ci vuole qualcuno con cui ritrovarsi, ridere assieme, sfogarsi, raccontarsi vecchie storie andate e mischiarle con sciocchezze, come del resto è l’amore o la sua parvenza.  Bisogna ritrovarsi una sera tra amici per il solo gusto di chiacchierare assieme senza alcun secondo fine, senza alcuna ipocrisia e senza alcun filtro,  mentre tutto il mondo sembra imporre la scelta solita abituale, ovvero fottere o farsi fottere. 

 Poi all’improvviso i due amici guardano di sfuggita il cielo. Ora non è più tutto nuvoloso. Si è aperto un piccolo varco. C’è un piccolo corridoio nel cielo ritagliato apposta da chissà chi perché loro due guardino di sfuggita le stelle e si sentano allo stesso tempo più confusi, meno certi delle loro certezze e meno soli perché tutti apparteniamo a qualcosa di più  grande di cui ci sfugge il senso, la logica. 

“A Bindo Altoviti fece il ritratto suo quando era giovane, che è tenuto stupendissimo”, di Anselmo Pagani

“A Bindo Altoviti fece il ritratto suo quando era giovane, che è tenuto stupendissimo”, di Anselmo Pagani

“A Bindo Altoviti fece il ritratto suo quando era giovane, che è tenuto stupendissimo”: così il Vasari, nella biografia di Raffaello, fa riferimento ad uno dei più famosi ritratti eseguiti dal grande Maestro urbinate attorno al 1514.

Il bel giovane, dall’età apparente d’una ventina d’anni circa, è raffigurato di spalla mentre si volge quasi di scatto verso l’osservatore, come se si sentisse chiamato. In effetti coi suoi occhi azzurri, i tratti delicati e sensuali, la lunga capigliatura fluente e infine la basetta che costituisce l’unico accenno di peluria presente su un viso altrimenti imberbe, non può non richiamare l’attenzione altrui.

Il suo abbigliamento, al tempo stesso semplice ma raffinato ed elegante, insieme all’anello d’oro che porta al dito indice, ci fa capire che siamo di fronte ad un personaggio forse aristocratico, di certo benestante, in ogni caso ben rappresentativo dello splendore del nostro Rinascimento.

E Bindo Altoviti, nato a Roma il 26 novembre del 1491, nobile e ricchissimo lo era per davvero, essendo l’erede dell’aristocratico fiorentino Antonio, trasferitosi nell’Urbe durante il penultimo decennio del Quattrocento dopo aver sposato Dianora Cybo, nipote di Papa Innocenzo VIII, ed essere così diventato tesoriere pontificio, carica che in pochi anni gli permise di accumulare un’ingente fortuna.

Rimasto orfano del babbo a sedici anni, il bel Bindo seppe non soltanto conservare, ma anche ampliare il già considerevole giro d’affari della famiglia, sempre all’ombra delle corte papale, della quale si contese anche a colpi d’intrighi e bustarelle varie i favori e i lavori con l’altro “Rockefeller” romano dell’epoca: il ricchissimo banchiere Agostino Chigi, di origini senesi.

Già il suo matrimonio con la fiorentina Fiammetta Soderini, appartenente ad una famiglia di note simpatie repubblicane, costituì per lui una precisa scelta di campo in chiave antimedicea, cui sarebbe rimasto fedele per tutta la vita, al costo persino d’armare di tasca sua alcune compagnie di ventura, poi impegnate con scarso successo nelle battaglie di Montemurlo, nel 1537, e infine di Marsciano, nel 1554, combattute sempre dalla parte dei fuoriusciti fiorentini contro le truppe del duca Cosimo I de’ Medici.

E all’insegna ancora dei famosi versi danteschi “Libertà vo’ cercando ch’è sì cara / come sa chi per lei vita rifiuta”, riportati persino sul suo vessillo personale, si spense il 22 gennaio del 1557, poco dopo aver prestato la colossale somma di 300.000 scudi al re di Francia Enrico II, marito di un’altra acerrima nemica di Cosimo I, la lontana cugina Caterina de’ Medici, nella vana speranza che quest’ultimo l’impiegasse per muovere contro la Firenze medicea per liberarla dal “giogo dell’oppressione”.

Nello splendido Palazzo cinquecentesco degli Altoviti, situato proprio davanti a Ponte Sant’Angelo a Roma, questo capolavoro di Raffaello sarebbe rimasto sino al 1808, per poi prendere mestamente la via della Baviera e infine degli Stati Uniti d’America.

La stessa residenza familiare non sarebbe sopravvissuta molto al suo allontanamento, perché nel 1888 sarebbe stata una delle tante vittime sacrificali delle “ruspe postunitarie”, venendo impietosamente demolita per lasciare spazio al lungotevere e relativi muraglioni.

Accompagna questo scritto il “Ritratto di Bindo Altoviti”, di Raffaello, 1514 circa, National Gallery of Art, Kress Collection, Washington.

(Testo di Anselmo Pagani)

Lo scopo della lettura, di Cinzia Perrone – Autrice

Lo scopo della lettura

Tanto tempo fa, c’era un insegnante che aveva tanti studenti.

Un giorno, uno dei suoi studenti gli chiede

Ho letto moltissimi libri, ma ho dimenticato tutto quanto. Qual è lo scopo della lettura?

Sentendo quella domanda, l’insegnante rimase zitto.

Da lì a pochi giorni, l’insegnante dette allo studente un setaccio logoro ed in bruttissime condizioni.

L’insegnante gli chiese di recarsi nel fiume vicino per portargli l’acqua.

Allo studente non piacque affatto questa richiesta, ma non poté rifiutare.

Si recò sulle sponde del fiume, riempì il setaccio di acqua ed iniziò il suo viaggio di ritorno.

Qualche passo dopo aver iniziato a camminare, tutta l’acqua che prima c’era nel setaccio è andata via attraverso i buchi.

Tornò sulle sponde del fiume a riempire di nuovo il setaccio.

Fece questa cosa tutto il giorno, ma non riuscì a portare a termine il compito.

Ritornò dall’insegnante e disse con l’espressione tipica di chi dice di aver fallito: “Non sono capace di portarle l’acqua con questo setaccio. Sono proprio una delusione!”

Il suo insegnante gli sorrise.

“no, non hai fallito”.

Gli indica il setaccio.

“è diventato come nuovo. Quando tentavi di portarmi l’acqua, si è pulito”.

Gli spiegò il reale motivo dietro a tutto ciò.

Disse: “Mi hai chiesto il reale scopo della lettura se non ricordi cosa hai letto; Ora, considera questo esempio.

Setaccio = intelletto

Acqua = scibile umano

Fiume = libro

Se non ricordi tutto quello che hai letto, è perfettamente normale!

Nonostante ciò, la tua mente sarà diventata più lucida.

La lettura ha un impatto notevole nella nostra mente, nel nostro cervello.

Ti aiuta ad essere una migliore versione di te stesso. Avviene nel tuo subconscio.

Lapislazzuli e pepite d’oro

Lapislazzuli e pepite d’oro, di Federica Campanella

30 marzo 2022

Federica, le parole non servono

Tutto quello che non ti ho detto l’ho chiuso in uno scrigno di ottone intarsiato di lapislazzuli e pepite d’oro.

L’antica chiave di ferro che lo apre l’ho nascosta in fondo all’ultimo cassetto della biancheria e presto me ne dimenticherò.
Ti ho scritto parole su fogli che profumano d’albero, lo stesso su cui salivamo e guardavamo giù meravigliandoci di quanto fosse essenziale la vertigine.

Non avevamo paura quando oltrepassavamo il ruscello delle nostre emozioni saltando da una roccia all’altra in bilico sul filo della nostra innocenza.

Bevevamo acqua limpida e ci prendevamo cura delle nostre anime che si specchiavano sulla superficie. I nostri amici erano il vento, il buio e i lupi. La nostra medicina il veleno dei serpenti. Invincibili non avevamo paura di niente nemmeno di noi.
Tutto quello che non ti ho detto l’ho chiuso in uno scrigno di ottone intarsiato di lapislazzuli e pepite d’oro che si trova al centro del mio cuore. Trova la chiave e vieni a prenderlo.

Illustrazione di Janeen Constantino

Mele rosse

Mele rosse, di Federica Campanella

15 ottobre 2022

Federica, le parole non servono

Tutto si tinge di rosso, il colore del sangue e delle viscere della terra. Il serpente attorcigliato su se stesso si risveglia dall’arcaico torpore e ha fame.

Il suo cibo son frutti che maturano in lande profonde. Il rettile si muove deciso, conosce la sua direzione e strisciando solca il sentiero. Il suo veleno è medicina, i suoi denti affilati annientano sogni.

La sua dimora è il cielo.

Lo seguo con il mio occhio magico e trovo il suo giardino nell’abisso della terra. I suoi frutti sono rossi, grandi, succosi, goduriosi e brillanti nell’oscurità. Con la mano ne prendo uno. Un morso, poi un altro. È dolce più del miele.

Lo sguardo del serpente che si nasconde tra le foglie pare mostrarmi visioni contrastanti. Un fuoco che arde nel mare, una stella che brilla al centro della terra. Negli occhi le galassie.

Cado in terra immobile e senza respiro. Il serpente strisciando pesante sul mio corpo mi sussurra un canto lasciandomi abbandonata in un sonno profondo.

All’ombra di un albero di mele rosse apro gli occhi. Il sole forte rischiara ogni ambiguità, anche l’ombra più cupa del serpente. 

Nella mia pancia egli ha trovato la sua dimora. 

illustrazione di Lisa Gelli

Profumi d’autunno

Profumi d’autunno, di Federica Campanella

Federica, le parole non servono

3 novembre 2022

La luce penetra dalle imposte chiuse della camera e Alma si risveglia dal torpore del dormiveglia mattutino. La notte appena trascorsa è un flebile ricordo oppure solo uno strano sogno ma in ogni fibra della sua pelle vive un sottile cambiamento. 

Sposta le lenzuola a fiori aggrinzite e si mette seduta sul letto. Quando poggia i piedi sul pavimento freddo si irrigidisce. Vorrebbe tornarsene nel ventre caldo da cui è sgusciata qualche minuto fa ma lo stomaco borbotta e rivendica qualche biscotto di frolla alla cannella e un pezzo di crostata di mele, prelibatezze entrambe preparate per lei dalla nonna. 

Infila i piedi nelle pantofole ed esce dalla camera abbracciandosi nello scialle di lana. 

Si ferma ad osservare il dipinto appeso al muro del corridoio che ritrae una imponente balena regina del mare che nuota nel suo regno. Lo scruta come se fosse la prima volta. I colori intensi e sfaccettati che identificano quell’angolo di mare impresso su tela le solleticano la voglia di scendere di nuovo giù nelle profondità del sonno e del sogno. Ma lo stomaco borbotta ancora.

In cucina il profumo di mele e cannella è come una carezza che Alma assapora tutta. La nonna non c’è, sul tavolo il cappuccino è ancora caldo. 

“Nonna?”

Nessuna risposta. 

Alma si dirige verso la finestra. Il sole d’autunno le fa socchiudere gli occhi e le riscalda i punti del viso più esposti alla luce. La bocca si scioglie in un sorriso quando vede la nonna nel frutteto che coglie le mele cotogne. Accanto a lei un gatto nero dagli occhi magnetici la fissa attraverso il vetro. Al collo porta una chiave, la stessa che la notte scorsa tremolava nel muro e lo sgretolava, mattone dopo mattone.

L’infinitezza dei campi arati della campagna all’orizzonte fa meno paura di quella degli stessi celati al buio di una notte senza luna. La chiave adesso brilla al riflesso del sole. 

“Bambina mia queste cotogne sono perfette per la marmellata!”

Dice la nonna ad Alma rientrando in casa con gli occhi lucenti e il cestino pieno di mele. Un incontro di sorrisi e un abbraccio al profumo di chiodi di garofano e narcisi. 

Illustrazione di Nicola Magrin
Illustrazione di Nicola Magrin

Una piccola meschinità (miniracconto di fantasia)…

Ha preso una tachipirina. Ha mangiato solo due crostini tanto per non essere digiuno, tanto per fermarsi lo stomaco.  Accende la radio. La stazione sta passando una canzone straniera  di moda negli anni ’80, di cui non riesce a ricordarsi il titolo. Fa degli sforzi di memoria, proprio non riesce a ricordarlo. Sono arrivati a un paese del circondario dove c’è un panificio che fa una buona schiacciata. Suo padre parcheggia. Poi va a comprarla. Lui aspetta in macchina. Dopo cinque minuti suo padre mette sui sedili posteriori la busta con dentro la schiacciata. Gli fa cenno di uscire fuori dell’abitacolo e andare in un bar vicino, distante solo trenta metri, per prendere qualcosa. Piove a dirotto, ma loro si incamminano, incuranti di tutto. Due schizzi d’acqua non hanno mai rovinato la salute a nessuno! Entrano. Il titolare è cinese. La barista è italiana. Suo padre ordina un caffè.  Lui prende un cappuccino. Ci sono degli avventori che parlano tra di loro. Scherzano, ridono, parlano del tempo. Lui prende il cappuccino e si mette seduto a un tavolino. Prima si gusta la schiuma con dei colpi di cucchiaio. Quindi apre la bustina dello zucchero, che gira e rigira. Infine si sorbisce lentamente il liquido. È un buon cappuccino perché il latte e il caffè sono di qualità. Si guarda intorno. Arriva una donna sulla quarantacinquina.  È lei o non è lei? È una sua vecchia conoscenza? Rimane interdetto. I suoi pensieri sembrano fermarsi. Il tempo sembra fermarsi. Sono istanti di incertezza e di sospensione. Molti anni fa quando lei era una bella ragazza lo aveva illuso. Passava sempre davanti al suo negozio. In realtà lei aveva solo giocato. Lei aveva molti uomini e lui non significava niente per lui. Solo un gioco di sguardi molto prolungato, durato delle settimane, ma che non aveva portato a nulla. Appena lui aveva provato ad approcciarla, lei si era rivelata ferma, decisa, categorica, risoluta. Lo aveva preso a male parole e il giorno dopo si era presentata davanti al suo negozio con un uno dei suoi amanti a scambiarsi effusioni. La delusione era stata cocente, ma erano altri i drammi, le vere sofferenze nella vita. Bisognava non pensarci, andare avanti, fare finta di niente, sopportare tutto. Lei continuava a passare davanti al luogo dove lavorava come se fosse invincibile, irreprensibile, totalmente padrona del mondo o almeno di quel piccolo mondo di provincia, dove le belle ragazze potevano permettersi tutto. Lui non sapeva il suo nome, sapeva solo dove lavorava. Poi lui aveva chiuso il negozio e non l’aveva più vista. Poco male! Meglio così! Quindi un giorno morì un ex collega di lavoro di sua madre. Lui andò a visitare il profilo Facebook del defunto e trovò che lei era una sua amica sui social. Solo allora seppe il suo nome e cognome. Poi seppe, leggendo il giornale, che il  padre di lei era morto. Forse è lei in quel bar. È quasi irriconoscibile.  Quello è un vero tuffo nel passato. È un vero tuffo al cuore. Prende la tazza e la riporta al banco. In quel breve tragitto la guarda. È davvero lei. È appoggiata al banco di tre quarti. Lei lo guarda di sguincio, con la coda dell’occhio. I loro sguardi si incrociano, ma senza alcuna curiosità né elettricità né erotismo da parte di entrambi. Lei forse si chiede cosa mai ci faccia lì. Lui sa già che quello è il suo paese. Nota che la sua bellezza è sfiorita.  Lei mormora qualcosa, mentre lui posa sul banco la tazza. Lei sussurra queste parole: “il tuo problema è che non hai il fisico”. Le bisbiglia, le pronuncia in modo appena percepibile. I due uomini che sono con lei, forse suoi amici o forse suoi amanti, lo guardano male, lo apostrofano con due insulti. Cercano la rissa. Sono disposti a venire alle mani. Lui capisce che non tira aria, che quel luogo non fa per lui. Chiede a suo padre che sta leggendo un giornale sportivo se possono andare via. Il padre annuisce.  Vanno verso la macchina. Lui è totalmente immerso nei suoi pensieri. Non l’attrae più quella donna e poi è una vecchia ferita ormai interamente cicatrizzata.  Però non riesce a non pensarci. Pensa che a volte il destino gioca dei brutti scherzi. Pensa che è strano e davvero buffo rivederla dopo poco più di quindici anni. Quante cose sono avvenute in quel periodo! Pensa a un mare di cose. Pensa che lei prima poteva puntare sulla bellezza e ora non è altro che una donna rozza, sgraziata,  ormai non più appariscente, non più piacente. Certo il suo pensiero o questa sua semplice constatazione di fatto non è da comunicare al prossimo perché sarebbe stato ritenuto cinico, odioso, politicamente scorretto, insensibile nei confronti delle donne. Certe grandi intellettuali femministe se sapessero questi suoi pensieri lo considererebbero un omuncolo banale, scontato, sotto la media. Lui se ne frega altamente. Questa sua idea cattiva, spietata gira e rigira nella sua mente e lui quella mattina è davvero di buon umore. Sa che è senza lavoro, che ha solo un amico fidato, che non ha una donna, che forse i suoi soldi finiranno presto, che c’era stata una pandemia terribile e una terribile guerra è in corso. Sicuramente questo è  segno inequivocabile che è meschino, ma ognuno ha la sua meschinità che nasconde a tutti in fondo all’animo. Sono piccoli pensieri da non rivelare al prossimo, ma esistono e ci fanno talvolta stare meglio, sono garanzia di momenti di felicità. Non fate finta di essere puri e candidi come gigli! Ammettetelo serenamente. Non cercate di dimostrare una grandezza d’animo che non avete. Confessatelo che è la vostra gretta meschinità che vi fa tirare avanti in questa vita! E lui quella mattina si sente solo ma felicemente solo. È stato rifiutato da quella ragazza anni fa.  Non ha avuto baci, carezze, calore, orgasmi da lei.  Ma ora a 50 anni è felice di essere stato rifiutato, di non esser il suo uomo, di non avere figli da lei e si sente davvero un uomo fortunato. Pensa a tutti i problemi del mondo,  ma non può  fare a meno di essere di buon umore e niente e nessuno possono togliergli quello stato d’animo,  pensando a come è diventata ora quella ragazza che un tempo stordiva tutti con la sua bellezza. È di nuovo in macchina. Partono. Sono di nuovo in un ambiente caldo e confortevole. Accende di nuovo la radio. La stazione passa una canzone straniera di moda negli anni ’80, di cui lui proprio non riesce a ricordarsi il titolo, nonostante gli sforzi di memoria. 

Due parole sole sul web oggi… di Davide Morelli

Anche Internet è cambiato molto in questi anni. Se prima si chattava da anonimi con persone sconosciute, oggi l’anonimato si sta riducendo. Non è più tempo di giochi di ruolo. Non è più tempo come nei primi anni 2000 di sperimentare nuove subpersonalità.  Oggi l’identità personale e sociale è determinata in buona parte dai social. Si diffonde a macchia d’olio il personal branding; molti cercano di presentarsi meglio che possono, di farsi un’ottima reputazione online. C’è sempre una confusione tra Sé effettivo e Sé desiderato, tra reale e virtuale, tra atto e potenza. Alcuni si perdono in questo guazzabuglio. Tutti vogliono essere online.

La dipendenza da Internet come la dipendenza dalla televisione sono menzionate entrambe dal DSM. Tutti vogliono testimoniare la loro esistenza. Essere online a qualsiasi livello è un certificato ineludibile della propria esistenza. C’è chi va in un posto nuovo e lo fotografa. C’è la mania dei selfie. Ogni evento, ogni accadimento deve essere immortalato, eternato.  Per dirla alla Goethe “fermati attimo”! C’è anche chi si filma nei propri momenti di intimità (è lapalissiano che il reato di revenge porn non ha scuse né giustificazioni e va perseguito in ogni sede). Condividere qualsiasi cosa sui social dal punto di vista neuropsicologico è spiegabile con la scarica di dopamina dei like nella corteccia orbitofrontale e nel nucleo accumbens. Anche la quantità di visualizzazioni dà  scariche di dopamina. Ma c’è qualcosa di più profondo, ovvero l’affermazione dell’ego e della propria esistenza. Condividere qualcosa significa contemporaneamente esserci, dire “io sono”, dire “io esisto”.

Molti devono dimostrarlo agli altri ma anche a sé stessi di esserci, di esistere. Cercano conferme e approvazione dagli altri. C’è un modo probabilmente più nobile di stare su Internet, cioè aggiornare il profilo social come se fosse un diario online in cui promuovere i pensieri, le impressioni, scrivendo in modo indipendente, strafregandosene della reazione altrui. Talvolta è  per autopromuoversi.  Anche questo modo più nobile di stare nel web è un piccolo lascito intellettuale, la testimonianza certa di ciò che pensavamo e sentivamo, nel caso in cui dovessimo morire.

Ci sono tantissimi profili social di persone morte. Ogni tanto mi ci imbatto e mi fanno sia un poco di impressione che di tristezza e di nostalgia.  Mi è successo di avere qualche contatto social che è scomparso. Ognuno dissemina tracce nel web. Ognuno lascia una minuscola traccia nel mondo virtuale, a cui la stragrande maggioranza dell’umanità non farà minimamente caso. Come io che scrivo in vari siti. Probabilmente io scrivo per mantenere in esercizio la mente, per esprimermi, ma anche per lasciare le mie piccole idee, le mie sensazioni a qualcuno.

Il bello e allo stesso tempo il brutto di diffondere parti di sé nel web è che non ci sono destinatari precisi, noti e non si sa che cosa ne penserà la maggioranza di coloro che le conoscono. Però in fondo cosa importa? Ognuno contribuisce a suo mondo all’intelligenza collettiva del web nel migliore dei casi oppure nel peggiore al gran calderone, all’orripilante pandemonio internettiano.  Una volta una tale mi ha detto ironicamente: “tu continua a fare lo splendido sui social, a fare l’intellettualoide del web”. Informo tutti che la libertà delle proprie idee è garantita dalla Costituzione e ognuno lo fa nel modo che ritiene più consono oppure anche come sa fare meglio. A ogni modo queste frasi sferzanti da fini dicitori o da fini dicitrici non mi tangono minimamente.

Io ho il mio piccolo dovere.  Mi obbligo ogni giorno a scrivere una riflessione breve, un articolo semplice. È una cosa che mi impongo ogni giorno.  Non sarà poesia memorabile. Non sarà prosa da grande casa editrice. Ne sono consapevole. È roba mia. È gratuita. Se volete potete favorire. Può darsi che ogni tanto ci sia del buono che stimoli altre riflessioni, altro pensiero. Può anche darsi di no e io scrivo col beneficio d’inventario quando invece nel mondo delle patrie lettere molti pensano di scrivere capolavori. Insomma si sta tutti sul web per condividere, esprimersi, esibirsi, guardare, farsi i fatti degli altri, etc etc. A volte la stupidità o la creatività altrui possono stupirci, estasiarci, rassicurarci o infastidirci. Poi i nostri scritti  al momento della dipartita  saranno solo piccole tracce disseminate nel mare magnum del web, di cui potranno accorgersi solo persone a noi care e altre che non abbiamo mai visto nella vita reale perché il web, anche nel 2022, è sempre rizomatico, casuale, comunque asettico. 

Il Sig. Tizio esce dopo pranzo e sogna Eraclito, di Carlo Congia

Alessandria, pubblicato da Pier Carlo Lava – Social Media Manager – https://alessandria.today/

Categoria: riflessioni

Trascurabili contributi all’inutilità del raziocinio

Il Sig. Tizio esce dopo pranzo e sogna Eraclito

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Sedeva sull’orlo del meriggio

il cuore in mano

come una sentenza incomprensibile

e piano mormorava qualche frase

ma come fosse 

un gioco inconcludente.

Attorno cose vuote, innecessarie

con appena una parvenza 

di vita appiccicata sopra con lo sputo.

La colla che teneva in piedi il tutto

s’era ormai disfatta e i pezzi

per una cupa e ferrea statica

crollando toccavano la terra

col suono 

di un carillon inceppato.

Arrugginito, il mondo

si rispecchiava 

su poche timide pozzanghere

ONDA

Le Attese Di Carta

ONDA

Spinta dalle correnti, schiumava, rotolava e ritornava al mare. Non sapeva quale fosse la sua destinazione ma si lasciava trascinare, era nata onda e null’altro conosceva se non questo modo di echeggiare. Infrangendosi sugli scogli, respirando affannosamente, toccando cale sperdute e sempre nuove, pensava di esistere solo per questo, fino a quando rotolò, insinuandosi, in una baia dal morbido profilo, silenziosa. Si sentì inadeguata a tanta meravigliosa distesa dorata, non riusciva a credere che, al di là delle maree, potesse esistere una calma così dolce, accogliente, calda. E si sentì odorare di brezza, respirare, sussurare dolcemente, come mai era riuscita prima, senza l’eco delle risacche e dei gorgoglii che l’avevano da sempre accompagnata. In quel preciso istante comprese che era parte indissolubile del tutto, di quella distesa azzurra che all’orizzonte diventava infinita.

TUTTE LE STRADE PORTANO A VEZZANO LIGURE

Vezzano Ligure

Vezzano Ligure, collocato a cavallo tra il Golfo dei Poeti e la valle del Magra, lo si può notare per il suo antico borgo sul cocuzzolo della collina, per cui impossibile passare inosservato. E proprio per i buon intenditori di borghi e panorami mozzafiato, Vezzano Ligure fa a caso vostro e… del mio fidanzato. Originario della Puglia ha subito colto la bellezza e le particolari caratteristiche del borgo ligure, esprimendo da ben due anni il desiderio di visitarlo. Il tempo passava e ogni giorno lungo le strade incontrava indicazioni per Vezzano, sui social leggeva le pubblicità di sagre ed eventi in paese a Vezzano e in treno passava sempre alla stazione di Vezzano… sembrava che ogni strada portasse a VEZZANO! 

Indicazioni per Vezzano

Quale migliore occasione, quindi, se non portarlo alla tipica Sagra dell’Uvae del Vino? Nata nel 1962 per celebrare il più antico rito della vendemmia, era un momento di festa per mettere fine alle fatiche dei contadini che duramente lavorano la terra. Ogni anno la sagra presenta banchi gastronomici colmi di prodotti tipici, intrattenimenti musicali e l’esposizione di antichi attrezzi contadini tra i vicoletti del borgo.

Passeggiando tra i vicoli

All’interno del centro medievale, circondato da vigneti, si può passeggiare immersi nella tipica aria di festa tra artigiani, cibo e vini tipici di produttori locali, sfilate dei rioni, produttori di vino e tanta musica. La Sagra dell’uva per i paesani non è solo un giorno di festa ma è anche il Palio dei Rioni, per contendersi il famoso “strazo” (ossia il palio) attraverso numerose prove come gli addobbi dei rioni sul tema della vendemmia, la sfilata in costume, la disfida in dialetto e la finale Gara dei Vendemmiatori che vede i Rioni impegnati nella pigiatura dell’uva con i piedi. 

Uva pronta per la pigiatura

ISABELLA DE’ MEDICI: UNA STORIA SOSPESA TRA REALTÁ E FANTASIA

Per la notte più spaventosa dell’anno, voglio raccontarvi la storia della bellissima Isabella De’ Medici, una storia che racconta di fantasmi, tradimenti e assassini. Si narra del fantasma della donna, in veste cinquecentesca, avvistato sulle rive del lago di Bracciano, nel Castello Orsini-Odescalchi, durante le notti di tempesta. C’è chi sostiene di aver percepito la sua presenza aggirarsi proprio nella camera da letto, la cosiddetta Stanza Rossa. Non si è a conoscenza se questa fu davvero la camera della giovane, ma per secoli questo è stato il luogo in cui prese vita la sua leggenda. Il racconto inizia nel 1558 quando la quattordicenne Isabella De’ Medici viene costretta dal fratello maggiore a sposare l’insensibile e violento Paolo Giordano Orsini.

Castello Orsini-Odescalchi, lago di Bracciano

Nel 1576 Isabella muore molto giovane a causa di una grave malattia, ma attraverso bocche malevoli passa una terribile notizia: per vendicare i tradimenti di Isabella, Paolo Giordano la uccise. Nel castello la leggendaassume le tinte più torbide, a tal punto che il letto a baldacchino presente nella camera diventa il simbolo dei tradimenti della donna a dir poco spietata. Consumato l’atto invitava lo sventurato ad entrare in una porta che lo avrebbe condotto in un salottino, assicurandogli di raggiungerlo poco dopo, ma dietro la porta l’uomo, ignaro di tutto, sarebbe stato inghiottito da una botola aperta sul pavimento, precipitando in un pozzo pieno di calce viva.

La Stanza Rossa

Storia terrificante di un amore altrettanto spaventoso, ma se vi dicessi che in realtà si tratta di una storia di amore all’altezza dei magici film Disney? Furono infatti scoperte le oltre 700 lettere che Isabella e Paolo si scambiavano durante i periodi di lontananza. Non si era mai preso in considerazione che i due giovani sposi potessero volersi davvero bene, come attesta una dolce lettera in cui Paolo Giordano scrisse «Io ti adoro bella, credi che quando mi morirò né figli, né Stato, né amici, né dame, né niun’altra cosa si ricorderà di me, se non che io ti adoro». Quindi a cosa dobbiamo credere? Che Isabella fosse una donna spietata e depravata o una ragazza moderna capitata in un’epoca in cui non riusciva ad essere compresa?

Isabella De’ Medici

Qualunque sia la storia di Isabella, sembrerebbe che per il modo in cui le fu sottratta la vita, il fantasma della donna si vendichi contro chi si sposa nel castello, lanciando una maledizione. Che la maledizione sia reale, così come quale sia la vera storia di Isabella De’ Medici, non si sa, ma questi racconti danno sicuramente maggiore fascino ad un meraviglioso castello, nel quale ci si può ritrovare all’epoca di Isabella e Paolo Giordano passeggiando tra camere, saloni e scale a chiocciola, circondati da un’aria regale, colma di tradizioni e leggende

Giardini del Castello

Risvegliarsi

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Risvegliarsi

V.R.

Finalmente. 
Esatto, finalmente mi ritrovavo dentro un teatro. Guardavo incredula e con occhi lucidi ogni cosa intorno a me: dallo schermo che cambiava immagini a un ritmo vorticoso, ai sedili in pelle bordeaux ordinatamente in fila, fino a tutta quella gente che parlava entusiasta, quanto lo ero io. Sembrava che fossimo tutti lì per la prima volta e forse lo era per davvero.
Una marea semi composta di persone continuava a entrare, pronti a prendere posto in platea per l’evento. A quanto pare, quella era una serata speciale; infatti si festeggiavano i settant’anni di un film che ha segnato la storia del cinema, con Audrey Hepburn come protagonista.
Una volta raggiunto il mio posto, accanto ad altre persone allegre e agghindate a festa, ricordo che non riuscii a stare seduta per la frenesia del momento. 
Mi sentivo nuovamente una bambina, in attesa che Babbo Natale arrivasse con i doni; oppure ancora un’adolescente, trepidante, nel momento prima che si spegnessero le luci dell’anfiteatro per dare inizio al concerto della sua band preferita.
Ad ogni modo, mancava ancora tempo prima dell’inizio della pellicola. Dunque, una volta chiesto permesso alle tante gambe comodamente sedute perché si spostassero in modo da lasciarmi passare, riuscii infine a uscire dalla sala per raggiungere la hall: e fu solo in quel momento che mi accorsi di essere al MET di New York.

I luoghi dell’arte in funzione del cinema, il quale divulga la cultura come se si trattasse di una nuova primavera. Sembrava un altro mondo, una nuova era, e forse, magari, chissà che non lo fosse sul serio.
E mentre signore e signori inzuppati, con l’ombrello ancora aperto, si facevano strada verso l’interno del teatro, una volta varcate le grandi porte a vetro scorrevoli, io, incurante della pioggia torrenziale che imperava per la città, con il cellulare tra le mani, decisi di uscire fuori. Volevo immortalare quello spettacolo: un grande schermo posto sulla costruzione permetteva anche ai passanti non paganti di ammirare il ritorno di un capolavoro ancora tanto amato, mettendo il cinema a disposizione di tutti e portandolo tra le strade della Grande Mela.

Una volta inquadrato con il telefono lo schermo variopinto con la scritta MET come firma, sulle note languide di Henry Mancini, molte teste distratte subito alzarono il naso all’insù, richiamate dalla dolce melodia di Moon River. E tra quelle c’ero anche io, che con la pelle d’oca, soltanto allora realizzai come tutta New York stesse festeggiando proprio Breakfast at Tiffany
Presi a sorridere inconsapevolmente, mentre intanto continuavo a guardare il film da quella inedita postazione. Un croissant, un lungo tubino di raso nero Givenchy che tocca terra e una donna che si riflette sulle vetrate di un negozio ormai senza tempo. I miei occhi erano incantati dalla visione del mondo sentimentale di Blake Edwards, e mentre una parte di me veniva letteralmente rapita da quelle scene di una città sempre attuale, riuscendo perfino a dimenticare come la pioggia fosse riuscita ad inzupparmi ormai fino ai capelli, non potei fare a meno di pensare a quanto la realtà si avvicinasse al sogno. Un meraviglioso sincretismo artistico, questo il regalo di New York. L’abolizione dei confini, del ‘mio e tuo’, una libertà che va a braccetto con una rinnovata tolleranza: che siano stati questi alcuni degli effetti positivi di due lunghissimi anni di pandemia?
Finalmente la vita ci offriva uno spettacolo più democratico e l’arte era pronta ad aprire le sue porte per risollevare lo spirito umano dopo questa lunga guerra.
Cosa volere di più? “Beh, forse semplicemente un phon per asciugare i capelli, prima di beccarmi una semplice influenza”. Così, risposi tra me e me, mentre tornavo sui miei passi per varcare nuovamente e al contrario le porte scorrevoli del MET. Dopotutto, il mio posto a sedere in platea, finalmente, mi aspettava.

Dopo di ciò, mi svegliai.

Il vecchio diario

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Il vecchio diario

V.R.

11/11/18

Vai sereno, cuore di pietra. Vai e sgambetta pure liberamente di fiore in fiore, proprio come ti piace fare. Dopotutto, che importanza hanno avuto tutti i nostri lunghi anni insieme? Il tempo passato l’uno accanto all’altra, uniti a tutti quei soldi che mi avresti fatto risparmiare. Che poi, era necessaria quella attrezzatura per risistemare la tua barca? E di tutti gli strumenti per andare a fare le tue cose spericolate con i tuoi amichetti poco furbi, non potevi farne a meno?
I tuoi giochi ti hanno portato così lontano che non ti sei neanche preso la briga di avvisare che te ne andavi; anzi, preso dalla tua vita com’eri, ti sei pure dimenticato di salutare. E mentre tu socchiudevi la porta di casa per quella che non sapevi fosse l’ultima volta, all’ennesima crepa del mio cuore, ho buttato finalmente la chiave e ti ho lasciato fuori. Tanto, ero certa che non avrei ricevuto neanche un messaggio del tipo: “Non so se tu sia viva o no, e ancora sto cercando di capire quanto la cosa mi interessi, ma spero solo che la botta che ti ho inflitto nuovamente non ti abbia fatto molto male questa volta”. Eh, no, mica l’hai fatto; sennò non saresti il famoso Mr Narcisista, quale tu sei. 
Eppure sai che ti dico, mio caro? Un giorno io e te ci rincontreremo. 
Oh, sì che ci rincontreremo e puoi giurarci. E ti assicuro che io non sarò più la tua fragile “pupetta” con gli occhi chiari e il cuore spezzato. Eh no, quella versione lascerà il posto a una me fatta di cicatrici e un cuore di pietra, proprio come il tuo. 
E accadrà più o meno così: dopo tanti anni da quella porta chiusa alle tue spalle ormai lontane, noi ci rivedremo lì, in una triste sala comune di un ospizio per anziani. Tu sarai quello con la giacca blu e il tuo stupido solito fiore all’occhiello, manco fossimo nell’Ottocento. Io sarò quella ancora figa per i miei anni, che penserai non essere cambiata di una virgola. Allora ti avvicinerai a me, mentre io sarò girata a guardare un’altra anziana suonare una malinconica melodia al pianoforte. Finché mi busserai alla spalla, e dopo aver speso l’ennesimo secondo importante della mia vita per tornare a guardare indietro verso te, tu mi dirai: “Emma, dopotutto questo tempo… Il destino ci ha riuniti”. Dunque, soltanto in quel momento, io ti guarderò con i miei occhi grandi oceano-mare, poi accennerò un sorriso tenero che ti parrà di ricordare e infine ti risponderò delicatamente con: “E tu chi sei?”. 
E allora sarà lì che ti verrà quel principio di infarto che porrà fine alla tua misera vita, e sarà lì che finalmente avrai capito: che una persona non la perdi anche quando ti chiude la porta alle spalle e butta la chiave, che non la perdi nemmeno quando sono gli anni a dividervi. Ma, attento! Che il tempo stringe e poi ci pensa la vita, in questo caso l’alzheimer, a farti perdere l’unico tesoro puro e di valore che ancora rimaneva.
“Signora Emma, è il momento di tornare alla sua camera. Saluti il signor Benito, lui sta tornando al suo ospizio dall’altro lato della città”. Ed io: “Arrivederci signor Benito, è stato un piacere conoscerla.”

“Mamma cosa stai leggendo?”, mi chiese Isabel, mentre feceva capolino nel salotto dove stavo seduta a ripassare tutti i ricordi racchiusi nei miei vecchi diari. “Nulla, tesoro” dissi, prendendola in braccio e facendola sedere sulle mie gambe. “Che cosa sono tutti questi libriccini?”, mi domandò, indicando le copertine variopinte dei tanti blocchetti. “Vedi, c’è stato un tempo in cui la mamma era molto arrabbiata e allora scriveva”, le spiegai, sistemandomi meglio sulla poltroncina gialla. La bambina non capiva, prima guardò le pagine scritte fitte fitte e a tratti scarabocchiate e poi si voltò a indagare il mio viso: “Arrabbiata con chi? Con me?”. “Oh, no amore, non con te!”. 
Ma lei non si dava pace, il suo volto turbato era lo specchio del suo dubbio interiore: “E allora con papà, perché spesso fa le monellerie?”. Io la guardai; accidenti, come somigliava a suo padre. “È vero, papà fa le sue monellerie e la mamma lo sgrida, ma poi ci mettiamo sempre a ridere, non è così?”. La bambina ci pensò su un attimo e sorrise: “Sì, tu ridi e lui ti abbraccia e poi mi prende in braccio e mi fa fare l’aeroplano”. Io la strinsi, ma poi la mia piccola si fermò nuovamente: “E allora mamma, non eri arrabbiata con papà?”, tornò a fissarmi con occhi seri per un’ultima volta. “No tesoro, anzi, è stato proprio dal giorno in cui ho conosciuto il tuo papà che ho definitivamente smesso di essere arrabbiata”.
Dopo aver pronunciato quella frase, stetti in silenzio; era come se per la prima volta, il mio cuore si fosse quasi fermato a realizzare quelle parole, a mo’ di delicata e intima rivelazione. Semplicemente sorrisi, come un riflesso incondizionato o forse fin troppo condizionato da verità a lungo sotterrate nel mio inconscio. Di seguito, i miei occhi si poggiarono automaticamente nella foto di noi tre, posta sul tavolinetto di fianco a me. In un grande parco, c’ero io, in fondo, immortalata nel bel mezzo di una frase di ammonimento, tra il finto arrabbiato e il divertito, mentre davanti a me guardavo Isabel che faceva l’aeroplanino con suo padre.
Dunque, istintivamente chiusi il diario, e lanciai un’occhiata a tutte quelle pagine ingrigite dal tempo e ormai obsolete, sparpagliate sul tavolinetto. Allora feci un respiro profondo e mi alzai dalla poltrona, prendendo in braccio la piccola che guardava ancora incuriosita quella montagna di pensieri lontani in forma scritta: “Dai Isabel, aiuta la mamma a preparare la cena. Sai dov’è papà?”, le chiesi, intuendo già la risposta. Ma la bambina non disse nulla; semplicemente indicò con il suo ditino affusolato e roseo fuori dalla finestra. “Di nuovo tutto sporco di fango per giocare con Rudi! Ah, si salvi chi può!”.
E sorrisi nuovamente. E sorrisi davvero, finalmente.

Il mio lagotto Argo…

Ora io per dimostrare di essere una persona intellettualmente seria e valida dovrei affrontare grandi tematiche, fare sottili distinguo, fare polemiche al vetriolo, cercare di usare parole difficili per far vedere quanto sono bravo e colto, etc etc. Invece il mio minimalismo esistenziale e non solo prende spesso il sopravvento e così oggi vi parlerò del mio cane. Qualche professore impegnato storcerà il naso e disapproverà fortemente queste righe, ma tant’è…d’altronde io scrivo anche per sputtanarmi e una dose di ironia ci vuole sempre per scrivere: mai assumere una posa, mai atteggiarsi troppo, mai prendersi troppo sul serio! Il mio lagotto si chiama Argo e ha dieci anni. Se tutto va bene ha ancora 5-7 anni di vita. Per ora gode di buona salute. Lo si nota dal fatto che è iperattivo e non sta mai fermo. Non lo porto a fare tartufi perché nei boschi di San Miniato c’è in corso una guerra tra trifolai e mettono delle polpette avvelenate. Io e mio padre lo portiamo a fare le scampagnate sullo scolmatore.  Allora insegue gabbiani, annusa per terra, segue delle tracce, corre a perdifiato.  Bisogna stare attenti perché alcune volte c’è il pastore con le sue pecore e con il suo cane, che potrebbe aggredire Argo. Così cerchiamo sempre di metterci molto lontani dal pastore (almeno tre km distanti) oppure ritorniamo a casa e desistiamo se quel giorno c’è troppa gente (ma è raro). Lui gradisce molto le scampagnate e lo si vede dal fatto che ogni volta che apriamo la bauliera, per qualsiasi motivo, lui salta sopra e sale in macchina perché crede di andare a zonzo. È molto impegnativo invece portarlo al guinzaglio in città perché tira molto; non sei tu a guidarlo, ma è lui a guidare te. Inoltre non si diverte e non ha la stessa libertà di azione di quando è in aperta campagna.  Così accade che sia molto difficile che lo porti a fare il giro del quartiere. Una volta, quando era piccolo, ha tirato talmente tanto il guinzaglio  che per un giorno ho avuto il dolore alla spalla. Il guinzaglio è il suo nemico. Appena lo vede vuole morderlo. Argo è intelligente. Capisce sempre tutto. Conosce tutto di noi, delle nostre abitudini e dell’ambiente circostante. Sa tutto quello che c’è da sapere. Impara in fretta. Si adatta presto.  In casa passa il suo tempo sdraiato oppure abbaia ai cani che passano coi padroni, alle ambulanze, ai vigili del fuoco, agli operatori ecologici. Un suo passatempo è cercare di prendere delle lucertole. A volte scava nel giardino perché è il suo istinto quello di essere uno scavatore. Quando era più piccolo, appena aprivamo il cancello, lui scappava e mi toccava rincorrerlo per acchiapparlo.  Oggi invece non lo fa più, anche se è sempre un giocherellone, un mattacchione. È molto sensibile e affettuoso;  anche con gli estranei si mette supino e si fa accarezzare. Diciamo che non ha paura degli estranei. Per lui gli esseri umani sono tutti amici e quindi non potrebbe fare il cane da guardia. Ha un indole buona come molti lagotti. Va benissimo come cane da compagnia. È buono e attaccato ai padroni,  al limite della ruffianeria.  Potrebbe ringhiare o mordere solo se qualcuno lo disturba mentre mangia. A onor del vero ruglia  anche quando è a riposarsi in casotto e io mi avvicino per vedere se sta bene. Una volta è stato operato all’occhio. Lo abbiamo portato a Firenze. Due ore di operazione  e tre veterinari per togliergli un pezzo di forasacco, che gli era andato in un occhio. Argo vuole sempre compagnia. Se qualcuno stende i panni lui va lì a strusciarsi. Se in soggiorno qualcuno guarda la televisione lui si mette sdraiato sopra il tappetino di un gradino dell’ingresso di casa e ascolta il rumore della TV, talvolta stiracchiandosi.  Ad Argo non togli mai l’appetito. Fa due pasti e poi quando noi mangiamo fa due spuntini, che consistono nel mangiare bucce di mele, di pesche o di pere. Argo d’estate soffre il caldo e allora fa il bagno ogni giorno nella tinozza in giardino, che gli prepariamo sempre. Argo deve essere tosato 3 o 4 volte l’anno per stare bene. Anche i suoi croccantini costano. Però nonostante queste spese ne vale la pena, dato che ci ripaga con tutto il suo amore. Argo ormai è un membro della famiglia e noi viviamo in simbiosi con lui. Dargli da mangiare, accarezzarlo, sincerarsi se sta bene, portarlo in campagna sono ormai dei rituali quotidiani che scandiscono la mia giornata. Parafrasando una celebre pubblicità degli anni scorsi un lagotto allunga la vita e di certo dispensa il buonumore, poiché è di una simpatia unica. 

Racconti: La stupidità e la Saggezza, di Antonino Salsone

La stupidità e la Saggezza.

Milan Kundera, celebre scrittore, poeta, drammaturgo e saggista, spiega che “La stupidità deriva dall’avere una risposta per ogni cosa. La saggezza deriva dall’avere, per ogni cosa, una domanda”.

Il poeta ci ricorda l’importanza di porci delle domande.

Spesso si crede erroneamente che l’uomo saggio sia colui che dispone di tutte le risposte.

In realtà la presunzione di avere già la soluzione a ogni quesito inibisce la curiosità che tiene vivo l’essere umano.

Al contrario, è l’umiltà dovuta alla consapevolezza di non conoscere la verità che motiva ognuno di noi a migliorarsi senza sosta e a percorrere incessantemente la propria via.

Ogni risposta genera a sua volta un’infinità di ulteriori domande e solo chi è davvero saggio ha il buonsenso per capire il dono che si riceve scavando nella profondità delle cose.

Quanto più si approfondisce e si scava, tanto più occorre approfondire ed estrarre.

Racconti: L’Uomo puó guardare oltre la siepe?, di Antonino Salsone

L’Uomo puó guardare oltre la siepe?

“Sempre caro mi fu quest’ermo colle, e questa siepe, che da tanta parte dell’ultimo orizzonte il guardo esclude. Ma sedendo e mirando, interminati spazi di là da quella, e sovrumani silenzi, e profondissima quïete io nel pensier mi fingo, ove per poco il cor non si spaura. E come il vento odo stormir tra queste piante, io quello infinito silenzio a questa voce vo comparando: e mi sovvien l’eterno, e le morte stagioni, e la presente e viva, e il suon di lei. Così tra questa immensità s’annega il pensier mio: e il naufragar m’è dolce in questo mare”.

*

L’Infinito è un’avventura della mente.

Il poeta è sopra un colle e c’è una siepe che gli impedisce di vedere oltre. Ma è proprio questo ostacolo a permettergli di immaginare cosa c’è aldilà.

Verso dopo verso lo sgomento lascia spazio alla dolcezza e il limite visivo diventa un’opportunità per andare oltre usando l’immaginazione.

L’Infinito è una esperienza intima a cui il poeta di Recanati si abbandona, ben rappresentata nei versi “… tra questa immensità s’annega il pensier mio: e il naufragar m’è dolce in questo mare”.

L’immaginazione, essendo un’attività dell’intelletto, non puó essere impedita da un limite fisico. Dunque, facendola divenire il proprio costume di vita, senza peró disancorarla dalla banchina delle virtù e della misura, l’Uomo, se è coraggioso, se ha la forza di nuotare tra i tumultuosi flutti delle avversità che agitano il mare della vita e se possiede i doni dell’intelletto, dell’intuito e dell’equilibrio, puó veramente andare oltre e portare nella realtà ció che ha visto al di là della siepe.

Racconti: La Dimora del Pensiero, di Antonino Salsone

La Dimora del Pensiero.

“Un’antica leggenda indiana narra che un Serpente senza scrupoli, individuata una Lucciola, iniziò a seguirla con l’intento di nutrirsene. La piccola creatura, in preda alla paura, cercò in tutti i modi di sfuggire alla cattura, finché, dopo tre giorni di persecuzione, allo stremo delle forze, decise di porre fine ad un’insostenibile agonia, affrontando il proprio destino. Fermatasi davanti al suo carnefice, prima che potesse avventarsi sul suo corpo, gli chiese di rispondere a 3 interrogativi.

– Non è mia abitudine dare risposte al mio “pasto”, tuttavia, con te, farò un’eccezione – esclamò la serpe affamata.

– Appartengo alla tua catena alimentare? – fu il primo quesito.

– No – la risposta secca.

– Ti ho fatto qualcosa di male? – il secondo.

– No, assolutamente no! – continuò a rispondere.

– Spiegami, allora, perché vuoi divorarmi? – incalzò, la Lucciola, con il terzo.

– Non posso sopportare il tuo brillare! – concluse la serpe, ponendo fine alla sua vita”.

La morale di questa leggenda orientale è chiara. Il serpente rappresenta l’invidia che avvolge l’uomo in una velenosa spirale allorchè, in relazione ad un bene o ad una qualità posseduta da un altro uomo (la luce, rappresentata dalla lucciola), si insinua nel suo animo il dispiacere, che può trasformarsi anche in astio, prima, e in odio, poi, di non possedere anche lui quel bene o quella qualità. Tanto da desiderare il male di colui che lo possiede e fare che ció accada.

Questa è l’Invidia, uno dei sette vizi capitali!

A ciascun uomo spetta liberamente scegliere se, nei rapporti con il proprio simile, vuole essere serpente o lucciola.

Io ho scelto: desidero essere la lucciola perchè non voglio che nella mia coscienza dimori il peso insostenibile di essere stato serpe verso un altro uomo.

Racconti: La piramide della mente, di Antonino Salsone

La piramide della mente.

Parlare, leggere, scrivere, pensare, sono quattro tappe in ascesa verso una vetta.

Parlare si è capaci presto e molti si fermano a quel punto, facendo spesso scadere la parola nella chiacchiera.

Segue un secondo impegno, il leggere, non praticato da molti ma utile per arricchire cuore e mente.

Puó poi subentrare in alcuni la scrittura di testi, atto importante per offrire ad altri il frutto della parola, della lettura e della conoscenza.

Decisiva è peró l’ultima tappa verso l’apice della piramide, il pensare: molti parlano, leggono e scrivono con un sostanziale vuoto di idee o contrabbandano solo dei luoghi comuni e delle banalità.

Il pensare autentico è, invece, elaborazione, esplorazione, introspezione, scavo in profondità per scoprire il mistero che è in noi e ci avvolge.

Le quattro operazioni della mente, tutte necessarie, sono dunque la parola, la lettura, la scrittura e il pensiero.

Ma, senza l’ultima, le altre si afflosciano, e i grandi maestri sono quelli che hanno messo in pratica il detto dei “Pensieri” di Pascal: “Impegnarsi a pensare bene è il principio della morale”.

Per essere uomini liberi, consapevoli e senzienti bisogna salire in cima alla piramide e pensare, perchè solo pensando e facendo della morale il proprio costume di vita si puó scegliere bene.

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Racconti. “Istruzioni per l’uso”: umiltà, pazienza e coraggio, di Antonino Salsone

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Al termine “resilienza”, oggi abusato da tanti perché fa “trendy” ed è perciò omologato e omologante, voglio opporre un famoso proverbio siciliano: “Calati juncu, ca la china passa”.

Mi piace di più, lo sento mio, è pieno di immagini forti, rimanda alla mia infanzia trascorsa nei campi che trasudano di selvaggio, di natura, di Aspromonte. Perché il giunco, così umile, si piega ma non si spezza.

Il sapore del proverbio è “gattopardesco, ma trovo un rimando anche con la ginestra leopardiana, anch’essa umile e fragile, che però spande il suo profumo anche dove c’è distruzione.

Nei momenti bui della nostra vita, quelli in cui non siamo compresi o veniamo denigrati strumentalmente, oppure una cosa bella costruita con sacrificio e dedizione viene violentemente attaccata con azioni che portano divisione e distruzione, trasformiamoci in “giunco” e “ginestra”.

Se saremo umili e sapremo continuare ad effondere incessantemente il profumo che promana dalla nostra caverna interiore e dal nostro cuore, l’alba sorgerà inesorabile e per i demoni della notte non vi sarà scampo.

Si tratta solo di pazientare e di essere umili ma senza cedere, perchè la saggezza popolare che è insita nel proverbio insegna il coraggio, non la resa.

Racconti: La fontana della giovinezza

Me Piemont: La fontana della giovinezza

Tanti anni or sono, in un luogo imprecisato del nostro Piemonte, vi era una fontana che vantava una caratteristica eccezionale: posticipava la vecchiaia.

Se ci si immergeva in essa non si ringiovaniva, la sua peculiarità era quella di rallentare l’invecchiamento corporale bevendo la sua acqua.

Il segreto era conosciuto da Antonio che l’aveva scoperta in una grotta poco distante da casa sua e vi si recava nottetempo.

L’intuizione gli era venuta osservando alcuni animali che lì si abbeveravano ed erano più vispi rispetto agli altri esemplari della stessa specie.

E, sempre con l’osservazione, scoprì che quell’acqua speciale aveva un duplice effetto, rinvigorire il fisico e renderlo longevo in modo particolare.

L’acqua portentosa riduceva della metà gli effetti nefasti del tempo sull’organismo, passati vent’anni l’invecchiamento corporale era soltanto di dieci anni.

Antonio e la sua famiglia bevvero per tutta la loro lunga vita quell’acqua miracolosa in segreto, senza condividere il segreto con nessuno.

Antonio, che ben conosceva l’animo umano, comprendeva che la condivisione di tale scoperta avrebbe scatenato gravi conseguenze per l’accaparramento della fontana.

E così Antonio e la sua famiglia si godettero i benefici di quell’acqua portentosa; i compaesani credevano che fossero longevi di natura.

Se vi capita di vedere degli animali del bosco particolarmente vispi e sentite gorgogliare dell’acqua in una grotta vicina state ben accorti.

Potrebbe trattarsi della miracolosa fontana della giovinezza che vi garantirebbe una lunga vita; in ogni caso l’acqua di fonte male non fa.

Racconto inedito scritto da Ernesto Martinasso

“I racconti del giovedì”.

Racconti: Si critica ogni cosa, di Marina Donnaruma

Buongiorno ☀️🌻🍁🍂

Stamattina vorrei esprimere un mio parere, si critica ogni cosa, il peso di un attrice, le rughe sul viso, ogni imperfezione sottoposta al vaglio e critiche, anche aggressive, offensive ed in genere ad umiliare la persona. Vorrei annunciare, ad esempio, a quelli che criticano le rughe di una donna, forse non le avete? Vorrei dire a chi critica quelli che hanno qualche anno in più, forse la vecchiaia non è per tutti? Faccio un lieto annuncio, chi ha venti, trenta anni, anche loro ne avranno sessanta, settanta ecc.

Quindi da che pulpito viene la critica? Da chi è immortale? Chi critica un attrice con qualche chilo in più, forse non ha problemi di peso o cellulite? Forse voi tutti non avete cellulite, pellecchie, peso in eccesso e avete pelle tonica e soda? Non siamo perfetti, la perfezione non esiste, invecchiamo e può capitare che ingrassiamo, Bisogna farsene una ragione.

Chi combatte il tempo ha un viso plastificato, zigomi innaturali, tette finte, tutto ricostruito,e alla fine si muore tutti e si invecchia tutti. Fatevene una ragione😁

UNO SPIRITO DECISO, di Silvia De Angelis

Nella piana di Amarna  il faraone Onuris ama stabilire la sua elegante residenza, indiscussa, naturalmente per solidità ed eleganza.Infatti è immersa in ampi e verdi cortili rettangolari, ravvivati dal turchino d’una piscina in cui sguazzano pesci  variopinti, alla mercè di vistose piante acquatiche.
L’atmosfera vivacissima nelle ore del giorno, si tinge di mistero, nelle ore del buio, velato di sussulti  e aliti arcani , che rendono ancora più intriganti i  respiri di quegli ambienti.
E’ Nefret  la ragazza enigmatica, che da qualche giorno s’addentra fra le stanze della suntuosa dimora e Onuris, che  ne ha notato la presenza, per l’indicibile bellezza , cerca di sondare il terreno, circa notizie che la riguardano,rimanendo il più possibile nell’anonimato.
L’entourage del sommo, rende noto allo stesso,che la donna è una delle ancelle addette al controllo delle stanze e al riordino dei papiri, riguardanti  trame ataviche e tracce di mappe astronomiche, in corso di aggiornamento.
In una sera particolare, in cui l’acqua del Nilo è bassa, e un vento di tramontana fa sentire il suo sibilo, fino all’udito di Onuris, questi si sente pervaso da un incomprensibile inquietudine, che rende agitate e schiuse le sue palpebre….come se una invincibile contrasto, gli impedisse un sonno tranquillo…
Il re, allora, si avvicina al tavolo per bere una morbida tisana, che col suo calore renderà più facile il rilassamento delle ore notturne….ma quando cerca di allungare il braccio, per afferrare la bevanda,  una mano, lo trattiene,accarezzandolo con dolcezza, e con voce suadente. Narra di essere lo spirito di Isis, la figlia morta dopo poche ore dalla nascita. L’eterea fanciulla, afferma, di voler incarnarsi in una delle donne che si addentrano nella residenza, per riprendere, il posto e l’autorità che le spettano, e che le sono sfuggite di mano per la morte prematura.
Onuris è quanto mai sbigottito, per l’incredibile evento, e certo che si tratti di un’allucinazione, si corica, cercando di non dare importanza all’accaduto. Isis insiste, e sedendosi accanto al padre, inizia a parlargli con un tono quasi trascendente, indicando in Nefret, la persona in cui lei immedesimerà il suo spirito.
All’alba il faraone si sofferma con gli scribi per delle missive importanti, quando ecco comparire, bellissima, negli abiti smaglianti, Nefret….subito Onuris torna col pensiero a quanto accaduto la sera prima, ma cerca di convincersi, che ha sognato e chiede udienza alla donna non appena lui avrà congedato gli amanuensi.
Nefret è ragazza dolcissima, e affascinante, e il re è quasi rapito dal suo raffinato porsi e  dalla sua voce aggraziata,mentre lei  lo aggiorna sul significato di complicati geroglifici, riportati sugli antichi papiri.
Ma inaspettatamente, mentre la donna sta esprimendo il suo dire, muta il timbro di voce, assumendone un  altro, assai cupo e velato, e iniziando a muoversi  lentamente… indi si rivolge al sovrano in modo del tutto anomalo,  facendo chiaramente capire che non è altri che Isis, che si è introdotta nel corpo di Nefret, prendendone le  sembianze.
La ragazza fa capire chiaramente al padre che intende portare avanti, in modo definivo, la situazione, ma cercherà di non farlo intendere, al resto dei presenti, nella regia dimora.
Il suo scopo è quello di riappropriarsi di una vita, che le è stata negata sul nascere, per via di una malformazione…ma il suo spirito ha continuato a vivere ed è carico di energia.
Il sovrano è sconcertato, dalla rivelazione di Isis, e molto pensieroso si rivolge, al sacerdote, suo fedele consigliere, e amico,per avere un parere sulla situazione e su che tipo di atteggiamento assumere per l'occasione.
Naturalmente il religioso rende noto al sovrano che nessuno si può impossessare della vita d’un'altra creatura, tanto più che ormai sia stato designato alla tenebra, quindi dona al re un manoscritto, con una formula, che il sovrano dovrà recitare, alla presenza di Isis, per farla tornare nella dimensione remota da cui è venuta.
Così, suo malgrado, e molto combattuto, Onuris decide di optare per la soluzione proposta dal religioso, e non appena Isis è alla sua presenza, recita “il dictat” per farle lasciare il corpo di Nefret…immediatamente la ragazza inizia a tremare, poi innalza un acuto gemito e cade a terra svenuta.
Soccorsa e curata dai medici, dopo molte ore, riprende conoscenza e con grande sollievo del re, la ragazza ha la voce  di Nefret, che è ritornata perfettamente lucida nel suo corpo.
Trascorrono molti giorni e non ve ne è uno in cui  Onuris non pensi a Isis e le dedichi  profondi pensieri affettuosi, anche se fortemente rammaricato per le sue decisioni.
Ma è in un dì fatale, durante un viaggio del faraone sul  Nilo, che d’un tratto, il fiume comincia ad agitarsi e ad elevare  onde altissime, che fanno sobbalzare l’imbarcazione…l’equipaggio precipita rovinosamente in acqua, ed è quel punto che si sente la voce di Isis inferocita, perché è stata fatta tornare, contro la sua volontà, dove non c’è luce, e, per vendetta, attirerà  nella tenebra lo spirito paterno e quello di Nefret, perché soffrano in eterno nella dimensione del buio e  della solitudine.


@Silvia De Angelis

Basta chiudere gli occhi 30

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Basta chiudere gli occhi 30.

E di natura mi nasce nostalgia. Ch’io amo l’acqua così come anche le solitudini silvane. Mentre ancora soffermo lo sguardo sugli alberi divelti, sui marmi freddi che fanno da giaciglio al barbone smarrito, penso fortemente che questo freddo lo scalda il mare. Quel mare che evapora in respiro donando di salsedine il maestrale che spazza via il grigiore urbano e che regala selvaggio al paesaggio dei palazzi il sibilo della sua purezza. Questo pensiero m’accompagna verso altre solitudini. Eh si! Questo vagare mi fa smarrito. Alzo gli occhi al cielo a cercare il bagliore delle prime stelle, ma l’oscena illuminazione al quarzo tra il castello e la piazza mi obnubila la vista. E penso ad altro mare, ad un mare verde tra pascoli e faggeti, ad un fruscio di foglie che somiglia al soffio ruvido della battigia.

LA MIA VALLE.

Vedi, figlio mio, quella è l’orsa minore,

dice mio padre…

-osserva la coda, l’ultimo brillore,

quella è la stella polare,

chiamala, se vuoi piccolo carro.

E mi figuro campi celesti,

lì su su in alto, osservando la volta

lì dal mio giardino di montagna.

-Se un giorno andrai per mare

e la bussola perderai…

segui quella luce, ti darà il nord.

Io vedo nei suoi occhi lo stesso bagliore,

penserò a quelli, al loro nitore,

quando, per terra o per mare,

smarrirò della via l’ardore.

Indicibile

stellare

Sei un Marinaio o Capitano?

PENSIERO E SENTIMENTO

Sei un Marinaio o Capitano?

V.R.

Scritto in piena pandemia

È un po’ un incubo, se ci pensi: non poter andare dove vuoi, non essere libero di fare ciò che senti, non poter amare chi desideri. 
Viviamo sottostando a regole invisibili, mentre siamo convinti di essere noi al timone. 
E intanto siamo così piccoli, talmente piccoli che bastano degli eventi un poco più grandi di noi a farci barcollare. Allora, ci sentiamo in gabbia, ci comportiamo come se avessimo perso un equilibrio che, in realtà, non avevamo nemmeno prima.

Ah, sì, mi rivolgo a te: ti ricordi anche tu quel via vai di gente, treni in corsa, appuntamenti in ritardo che ti facevano ritornare a casa a un orario decisamente sbagliato per la cena? 
Ricordi quando viaggiare era ormai così tanto scontato, che quasi non ti andava più?
Ci ripensi mai alla sensazione di vivere nel lato giusto del mondo e di essere fortunato per le cose -scontate- che avevi? Gli amici, le solite uscite, i soliti discorsi. Quanto avresti dato per rimanere a casa il sabato sera?

Eccolo, mio caro marinaio, il sogno è stato esaudito; la risposta inattesa, la pausa, la sosta ti aspettano nel tuo salotto di casa.
Ecco che sebbene non sia padrone del tuo destino, almeno puoi fingere di esserlo all’interno del tuo appartamento.
Ecco che quella libertà normale, scontata, superflua, adesso l’hai persa, non ce l’hai più.
Ecco che il “quando potevi farlo, non l’hai fatto” ti bussa alla porta.
E adesso, quasi quasi, ti manca il mare.

Ti sei fermato, marinaio, in questa vita che sembra tutt’un tratto fluttuare?
Ti sei perso? O sai perfettamente che quella è casa tua, che quello è il tuo posto?
Mentre la giostra si è bloccata, tu eri nel luogo giusto oppure no?
Quando la corsa si è arrestata, chi avevi accanto?

Eppure niente è definitivo, vecchio lupo di mare.
Come quell’amore che avevi per l’andare a cavalcioni sulle onde di velluto, di punto in bianco, ti è sparito.
Guarda questo periodo tanto strano e inatteso; figlio del tempo, non temere, anche ciò ha una scandenza.
La Fortuna corre ancora con i capelli al vento e la nuca scoperta; e quando lo farà nuovamente, tu, marinaio, avrai imparato come acciuffarla al suo passare?

Hai visto tanti tramonti e innumerevoli albe che non ti serviva più altro; volevi morire perché stanco dell’apatia, senza accorgerti che attorno ad essa, quella era vita. 
Muoversi, 
correre, navigare, 
sempre andare.
E tu, in che porto ti sei fermato, marinaio? Dove ti ha condotto la nave su cui viaggiavi? Chi la guidava? Chi ha deciso di farti allontanare?
Tanto lo sai che a decidere in quale porto straniero gettare l’ancora, è sempre il conducente.
Dunque, ti sei chiesto chi è il capitano della tua nave? Chi è più il forte, tra di voi? Sei tu che comandi o è lui che decide per te, e tu obbedisci?

Eppure, sai: da dentro la tua casa, fin dentro il tuo ufficio, tu sei libero di volare con l’anima e ad occhi chiusi, planando ad ali spiegate su ogni aspetto della tua vita.
È questo il punto di svolta: adesso hai il tempo di fermarti; ora è tempo di avere il lusso di rivalutare e di rivalutarti.
Allora prendi carta e penna, e comincia a scegliere per te stesso.
Dove vuoi andare, marinaio, alla fine di questo blocco generale?
Dove vuoi che ti spinga il vento?
Vuoi essere marinaio o vuoi essere capitano? 
Come non capisci che è proprio questo il momento per trasformarti in capitano.
E quindi, capitano: che piani hai per il tuo futuro?

Devi sempre avere una valigia pronta con te; devi essere tu quella valigia, pronto a ripartire quando la vita riprenderà il suo normale corso stravagante.
Perciò disegna una mappa, armati di pazienza e di conoscenza.
Tieni gli occhi bene aperti, sii lesto ad acchiappare la Fortuna.
Porta la Prudenza e l’Astuzia, che servono entrambe per cavalcare le onde.
Perché quelle onde ritorneranno, stanne certo, e allora tu sarai nuovamente pronto ad affrontarle.

Eh, Marinaio?
Eh, Capitano?

Adesso, chiudi gli occhi e dormi;
dormi e sogna benevoli mari in tempesta, che movimento non significa presagio di eventi malevoli; ma moto che ti spinge altrove, dove tu non sei ancora stato.
Che domani o forse il giorno dopo ancora, 
sarà un altro anno 
e, giusto in quel momento propizio, ricomincerà al tua vita.

Ri-Cominciare

PENSIERI DELLA SERA CHE MAGARI NON PARLANO SEMPRE DI AMOREPENSIERO E SENTIMENTO

Ri-Cominciare

V.R.

Fruscio di venti lontani vengono a farmi visita, in questa sera di inizio ottobre. Mi mandano saluti provenienti da mondi remoti, al ritmo di finestre distanti che sbattono freneticamente. 
Pareti spoglie, inabitate da anni. Una luce fioca e tremolante padroneggia sul tavolo vuoto nella stanza, mentre scrivo queste parole intrise di malinconia.
La valigia è ancora chiusa accanto a me; al suo interno, i vestiti sono custoditi insieme al calore della mia casa, di colpo, fin troppo distante.

Sono in Francia. 
Già, l’ho rifatto un’altra volta. 
Ho impacchettato i ricordi di anni; li ho presi con cura, uno a uno, sistemandoli stretti stretti in scatole troppo piccole, e che ho sballottato di città in città. 
Fino ad arrivare qui.

Abbasso gli occhi sulla valigia azzurra, mia compagna fidata di mille viaggi. Soltanto per oggi, il suo nome è Pandora; chissà quali ricordi dolceamari possono scivolarvi via e colpirmi bruscamente, se solo la aprissi.

E dunque prendo un respiro profondo, mentre i lampioni nella strada davanti alla mia finestra tornano ad accendersi. L’aria di Marsiglia è frizzantina in questo periodo dell’anno, e questa è la mia prima scoperta.

E quindi, forza! Che si ritorna a essere viaggiatrice del mondo.
E così, coloro che non riescono a tollerare il distacco, imparano a richiudere gli occhi per poter vedere nitidi gli sguardi di chi li ama, anche da lontano. Allo stesso modo faccio io, che nel cuore trattengo con forza ogni istante, ogni sorriso e ogni gesto d’amore; tre alberelli rigogliosi che ho coltivato sin dall’ultimo mio arrivo in una terra che col tempo ha smesso d’essere straniera.

Allora, si ricomincia; e il ricominciare porta con sé nuove strade da imparare, nuovi nomi da memorizzare, nuove facce che forse un giorno saranno amiche, e un nuovo letto su cui dormire. 
In questo modo, si riparte col vivere una vita che non mi apparteneva, ma che da domani lo farà.
Si riprende a distendere le labbra in un sorriso automatico, mentre la mente è rivolta ad altre terre. Ma il gioco sta proprio in questo: tenerla impegnata e aggrappata al presente. E per fare ciò, tenterò d’imparare questa lingua ancora sconosciuta proprio per non rischiare di cadere nel silenzio dei ricordi; ché soltanto così, uno dopo l’altro, passeranno i miei giorni.

E da qui riparte l’avventura, dopo anni di apatia.
E con ciò, rinascerà quella forza che sembrava essersi nascosta.
Perché da oggi ricomincia la mia vita, con un capitolo nuovo e inaspettato.
E io concludo questo scritto, sebbene un piede sia tuttora ancorato alla vecchia casa, mentre l’altro è già ben piantato sul domani.

E Margherita?

PENSIERI DELLA SERA CHE MAGARI NON PARLANO SEMPRE DI AMOREPENSIERO E SENTIMENTO

E Margherita?

V.R.

La vita è un po’ come il libro Il Maestro e Margherita di Bulgakov. Sei curioso di capire finalmente chi è questa Margherita, ma devi aspettare e aspettare.

E così vale anche per i momenti di gioia: parti dal giorno uno, quando esprimi un desiderio, e dunque cominci ad attendere che esso si avveri. Ciononostante, quella gioia, un po’ come la nostra Margherita, sembra sfuggirci: riusciamo a intravederla sì, proprio a qualche giorno dall’inizio dell’attesa, ma giusto per un attimo fugace. Difatti, ella subito sparisce e così ritorna il silenzio più assoluto.

Finché, quando ormai ti sei pure quasi dimenticato dell’esistenza di quel sogno, o della stessa Margherita, la vita, proprio come Bulgakov, comincia ex abrupto il “Libro II”, il cui primo capitolo è intitolato per l’appunto “Margherita“. E tu, lettore, non te l’aspettavi mica che il narratore che lo guida e ci guida potesse essere così biricchino.
E allora sì che capisci che la copertina del libro che avevi tenuto in mano fino a quel momento non mentiva; che non era stata scambiata e messa sopra un altro libro. Adesso hai le conferme che inconsciamente cercavi e la tranquillità di non aver perso tempo sul libro sbagliato.

E come per il Maestro e Margherita, così anche, lo ripeto, la vita: che per un lasso di tempo lento e noioso ti è sembrata sbagliata, di colpo comincia ad avere senso.
Insomma, grazie Bulgakov per confondermi e farmi redimere, insieme.

Messaggio per i miei lettori: 
scusate la mia lunga assenza, ma sto lavorando per il mio futuro. E in questo futuro vedo certamente ancora la scrittura, quindi a presto!
V.R.

Un sogno che si realizza

ABOUT R.O.

Un sogno che si realizza

V.R.

Carissimi Lettori, 
il mio silenzio è durato quasi un anno. 
E no, vi rispondo subito: il mio vecchio credere ciecamente nell’Amore, con la A maiuscola, non mi ha abbandonata e, con lui, nemmeno la solita voglia di scrivere. 
Eppure, la vita ha trascinato a lungo i miei pensieri in luoghi remoti, dove non c’era spazio per fermarmi a creare racconti. 
Purtroppo.

Tuttavia, come in ogni bella storia, anche qui arriva il colpo di scena. Infatti, in questo silenzio, qualcosa comunque è successa: si è andata concretizzando un’idea, che da piccolo semino, grazie a un buon giardiniere che ha creduto in me, sta ormai diventando una piantina dai colori azzurro-mare.

Pertanto, con infinito piacere, vi annuncio l’uscita del mio primo libro, dedicato proprio a quella che per me è stata una palestra di scrittura, conforto personale e tantissimo altro, nonché questo mio blog.

Grazie a @Vj Edizioni ed @Edoardo Ferrario a Natale uscirà Racconti Ondivaghi, e questo lo devo anche a Voi che mi avete incoraggiata e sempre sostenuta, in mezzo a quella sinusoide di emozioni e sentimenti che, negli anni, ho racchiuso tra gli angoli multiformi disegnati dalle mie parole.

Per adesso mi fermo qui, lasciandovi solamente un link, insieme a tutta la mia riconoscenza: il resto lo vedremo insieme, per come ce lo riserverà il futuro.

A voi tutti, fatene buon uso: Racconti Ondivaghi – Facebook

A presto, 
Valeria

ABOUT PROMENADE…

ABOUT PROMENADE…

canti… per Eva,

L’io, l’intimità, l’amore, cosa c’è di più personale e più intimo dell’amore? Niente probabilmente, anche perché racchiude un’infinita scala e varietà di sentimenti: l’amore davvero, se mi si consente la licenza, si può graduare come un vino, dal più forte al più leggero, da quello dolce a quello secco e si potrebbe continuare con le distinzioni. Sicuramente ogni amore è diverso, ma la gradazione può accomunarli nella diversità. Quelli dolci sono piacevolissimi, non danno grandi fastidi, quelli forti possono far male, sono struggenti, uniscono la gioia, il piacere, alla passione e talvolta alla sofferenza, al dolore, eppure sono quelli più voluti, mai dimenticati.

Questi ultimi amori, essendo di meno, sono più facili da ricordare. Immagino che ciascunǝ abbia un personale metodo per individuarli. Per quanto mi riguarda è tutto molto naturale, vi sono alcune gradazioni di passione, sentimento, riconoscibili nell’immediato o anche con il tempo e quelle più alte oltre ad essere riconoscibili per le caratteristiche e le comuni emozioni, rimangono indimenticabili e permanenti, i sentimenti persistono al di là dell’effettiva continuità del rapporto, perché il problema è che spesso nell’amore non vi è convergenza assoluta e duratura.

Mentre espongo un po’ sommariamente, ho in mente l’ultimo amore intenso, intensissimo; non devo ora raccontarlo, necessiterebbe, tenuto conto di vari aspetti, di un contenuto piuttosto voluminoso e complesso, intendo trattare qui di un sogno, immagino sia stato il primo che ha riguardato Lei, e se non è stato il primo, è comunque quello che appena sveglio ho subito annotato appena sveglio su carta di fortuna. Era allora talmente intenso il sentimento, la prima fase dell’innamoramento, durata peraltro molto a lungo, per cui sentivo il bisogno irrefrenabile di gridare al mondo che amavo lei, che il mio cuore era impegnato e voleva essere una sorta di impegno anche nei suoi confronti e lo feci dove tutto ebbe inizio.

Si è trattato di un amore abbastanza letterario, parlo ovviamente dal mio punto di vista, pertanto ogni momento, fin dal principio, è stato funzionale allo scopo, al sogno e quant’altro.

Anche i sogni sono di un’infinita tipologia, con differenti gradazioni di interesse. Non è mia abitudine trascrivere o ricordare i sogni, quando accade è perché mi hanno profondamente colpito, sono particolari e interessanti, danno magari lo spunto per scrivere, perché spesso si presentano in forma di racconto, seppur surreale talvolta, come una specie di dettato, di messaggio. Il senso di annotare il sogno è che capita di dimenticarlo dopo alcune ore, ma anche appena svegli non si ricorda per intero, solo sprazzi della parte finale…

Nell’autunno precedente avevo presentato a Roma la mia prima monografia, un saggio storico; lei non c’era, ma lo avrei tanto voluto. Peraltro potrei dire che quel libro, non solo, ma è anche stato “galeotto”: era in cantiere quando ci siamo conosciuti e lei ha seguito intensamente ogni momento della preparazione, tutto il percorso dell’editing fino alla pubblicazione e oltre… Lo stesso percorso c’è stato per me durante la formazione e la pubblicazione del suo.

Ormai è primavera, il tempo va a ritroso, sono di nuovo a Roma per la stessa presentazione, ma con lei. L’evento è previsto per il pomeriggio. Utilizziamo la mattina per una passeggiata. Ci troviamo all’imbocco di via Giulia, dal lato vicino al Vaticano. Via Giulia ha un grande significato per me, quando capito a Roma, se ne ho il tempo, la raggiungo e visito i luoghi memorabili, in particolare il liceo Virgilio.

Via Giulia è una via lunghissima, una passeggiata importante, la percorriamo tutta, ebbri di passione, fin dove congiunge con il Lungotevere a ponte Sisto. Ora, se si indaga sui titolari dei toponimi spesso si hanno brutte sorprese; quando è possibile li cito come indicazione decontestualizzata, tuttavia non riesco a citare quelli ancora intitolati ai Savoia, nemici della Repubblica e di tanto altro, lo so, tergiverso, ma è importante.

A proposito della passeggiata, essa è guidata da una marea di suggestioni: Minerva spira e conducemi Appollo (Canto II, Paradiso, Divina Commedia, verso 8). Sapienza e poesia scosse, sorprese, dalle nostre notti e dalla paura della libertà del nostro amore. Percorriamo via Giulia avvinghiati, ogni pochi passi un bacio sulla bocca, poi giunti in fondo, nello spiazzo che si apre verso il ponte, ci spogliamo del nostro casual e ci stendiamo sui sampietrini, mentre le acque del Tevere scorrono tranquille e sembrano approvare la nostra passione, così come il traffico che pare ammiccante e non ci dà fastidio… La presentazione sarà stupenda!

About promenade… (106 – XXV.XLI – 28.3 a) a 26.02.2022