“A Bindo Altoviti fece il ritratto suo quando era giovane, che è tenuto stupendissimo”, di Anselmo Pagani

“A Bindo Altoviti fece il ritratto suo quando era giovane, che è tenuto stupendissimo”, di Anselmo Pagani

“A Bindo Altoviti fece il ritratto suo quando era giovane, che è tenuto stupendissimo”: così il Vasari, nella biografia di Raffaello, fa riferimento ad uno dei più famosi ritratti eseguiti dal grande Maestro urbinate attorno al 1514.

Il bel giovane, dall’età apparente d’una ventina d’anni circa, è raffigurato di spalla mentre si volge quasi di scatto verso l’osservatore, come se si sentisse chiamato. In effetti coi suoi occhi azzurri, i tratti delicati e sensuali, la lunga capigliatura fluente e infine la basetta che costituisce l’unico accenno di peluria presente su un viso altrimenti imberbe, non può non richiamare l’attenzione altrui.

Il suo abbigliamento, al tempo stesso semplice ma raffinato ed elegante, insieme all’anello d’oro che porta al dito indice, ci fa capire che siamo di fronte ad un personaggio forse aristocratico, di certo benestante, in ogni caso ben rappresentativo dello splendore del nostro Rinascimento.

E Bindo Altoviti, nato a Roma il 26 novembre del 1491, nobile e ricchissimo lo era per davvero, essendo l’erede dell’aristocratico fiorentino Antonio, trasferitosi nell’Urbe durante il penultimo decennio del Quattrocento dopo aver sposato Dianora Cybo, nipote di Papa Innocenzo VIII, ed essere così diventato tesoriere pontificio, carica che in pochi anni gli permise di accumulare un’ingente fortuna.

Rimasto orfano del babbo a sedici anni, il bel Bindo seppe non soltanto conservare, ma anche ampliare il già considerevole giro d’affari della famiglia, sempre all’ombra delle corte papale, della quale si contese anche a colpi d’intrighi e bustarelle varie i favori e i lavori con l’altro “Rockefeller” romano dell’epoca: il ricchissimo banchiere Agostino Chigi, di origini senesi.

Già il suo matrimonio con la fiorentina Fiammetta Soderini, appartenente ad una famiglia di note simpatie repubblicane, costituì per lui una precisa scelta di campo in chiave antimedicea, cui sarebbe rimasto fedele per tutta la vita, al costo persino d’armare di tasca sua alcune compagnie di ventura, poi impegnate con scarso successo nelle battaglie di Montemurlo, nel 1537, e infine di Marsciano, nel 1554, combattute sempre dalla parte dei fuoriusciti fiorentini contro le truppe del duca Cosimo I de’ Medici.

E all’insegna ancora dei famosi versi danteschi “Libertà vo’ cercando ch’è sì cara / come sa chi per lei vita rifiuta”, riportati persino sul suo vessillo personale, si spense il 22 gennaio del 1557, poco dopo aver prestato la colossale somma di 300.000 scudi al re di Francia Enrico II, marito di un’altra acerrima nemica di Cosimo I, la lontana cugina Caterina de’ Medici, nella vana speranza che quest’ultimo l’impiegasse per muovere contro la Firenze medicea per liberarla dal “giogo dell’oppressione”.

Nello splendido Palazzo cinquecentesco degli Altoviti, situato proprio davanti a Ponte Sant’Angelo a Roma, questo capolavoro di Raffaello sarebbe rimasto sino al 1808, per poi prendere mestamente la via della Baviera e infine degli Stati Uniti d’America.

La stessa residenza familiare non sarebbe sopravvissuta molto al suo allontanamento, perché nel 1888 sarebbe stata una delle tante vittime sacrificali delle “ruspe postunitarie”, venendo impietosamente demolita per lasciare spazio al lungotevere e relativi muraglioni.

Accompagna questo scritto il “Ritratto di Bindo Altoviti”, di Raffaello, 1514 circa, National Gallery of Art, Kress Collection, Washington.

(Testo di Anselmo Pagani)

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