Non guardate le stelle

Tutto l’universo piange le ingiustizie del mondo, gli orrori degli uomini fanno vergognare anche le stelle che preferiscono spegnersi davanti al sangue e al pianto dei bimbi. In tutte le epoche i poeti hanno scritto pagine meravigliose contro la guerra, spesso un grido inascoltato.

NAPOLI

Lo sai le stelle
dove vanno a dormire?
Nel buio più fitto
per dimenticare quello
che hanno visto…
E quando il peso
delle loro lacrime
è troppo gravoso
si lasciano cadere,
spegnendosi in
un’ultima dolente scia.
Non guardate alle stelle
voi macchiati di sangue,
piange l’universo
dove un bambino piange,
piange l’universo
dove un bambino muore,
piange l’universo
dove non c’è più pace.
Non guardate alle stelle
anche loro non hanno più luce.

Imma Paradiso

I poeti e la pace, una speranza o una chimera?

Jorge Carrera Andrade (Quito, 18 settembre 1902 – Quito, 9 novembre 1978) è stato un poeta, storico e diplomatico ecuadoriano, considerato uno dei più originali poeti dell’America spagnola contemporanea. Nato nel 1903, pubblicò la sua prima raccolta di poesie nel 1922, a soli diciannove anni. Così dai suoi versi, ma anche dalla precoce età in cui le poesie videro la luce ufficiale si deduce che possedesse uno spiccato animo sensibile, dote indissolubile dei poeti. Vanta una tale produzione dedita all’elogio della natura e del mondo che si è guadagnato l’epiteto di pioniere ambientalista. Diplomatico, consigliere, ambasciatore, non solo poeta ma anche storico, scrittore di saggi e negli ultimi anni della sua vita divenne persino docente universitario. Ma soprattutto un entusiasta viaggiatore. L’opera Poemas como la vida del 1962 rappresentò uno dei momenti più alti della lirica creativa di Carrera, grazie all’orchestrazione di colori, suoni, immagini, volti, emozioni e cose, tutte trasfigurate in un’atmosfera magica. Intorno agli anni sessanta rappresentò la sua nazione presso l’UNESCO.
Nel 1972 venne pubblicata la raccolta Obra poetica completa, un’antologia comprendente tutto il suo lavoro precedente. Trascorse gli ultimi anni di vita nella sua città nativa, occupandosi della gestione della National Library of Ecuador.

NAPOLI

Le sue sono poesie che parlano di tutto ciò che è puro, leggero, quasi infantile, esattamente come è cercare le nuvole e magari fantasticare sulla forma che esse, in quell’esatto istante, hanno e offrono ai piccoli e grandi osservatori.
L’intento poetico di Jorge Carrera Andrade è contemplare la natura associandola spesso alle emozioni più semplici, elogiandola e venerandola.
Credente, menziona in più versi Dio, ma non si esime dall’immaginare un pianeta perfetto, chiamato dal poeta Aurosia.
Nella poesia “Verrà un giorno” si parla di una utopia: la pace su tutta la Terra. L’impressione che si ha è quella di un sogno ad occhi aperti; un ottimismo che va al di là di ogni più rosea previsione fa immaginare al poeta che in un imprecisato futuro arriverà il giorno in cui finiranno per sempre gli odi e le guerre tra gli esseri umani.

Jorge Carrera Andrade, Verrà un giorno

Verrà un giorno più puro degli altri:
scoppierà la pace sulla terra
come un sole di cristallo.
Una luce nuova
avvolgerà le cose.
Gli uomini canteranno per le strade
ormai liberi dalla morte menzognera.
Il frumento crescerà sui resti
delle armi distrutte
e nessuno verserà
il sangue del fratello.
Il mondo apparterrà alle fonti
e alle spighe che imporranno il loro impero
di abbondanza e freschezza senza frontiere.

*Un poeta visionario, viaggiatore del mondo che auspica finalmente una pace universale in un mondo nuovo, dove gli uomini canteranno per le strade e tutto sarà avvolto dalla luce…la realtà sembra molto lontana da ciò ma i poeti continuano a sognare.

I poeti e la pace, una speranza o una chimera?

Jorge Carrera Andrade (Quito, 18 settembre 1902 – Quito, 9 novembre 1978) è stato un poeta, storico e diplomatico ecuadoriano, considerato uno dei più originali poeti dell’America spagnola contemporanea. Nato nel 1903, pubblicò la sua prima raccolta di poesie nel 1922, a soli diciannove anni. Così dai suoi versi, ma anche dalla precoce età in cui le poesie videro la luce ufficiale si deduce che possedesse uno spiccato animo sensibile, dote indissolubile dei poeti. Vanta una tale produzione dedita all’elogio della natura e del mondo che si è guadagnato l’epiteto di pioniere ambientalista. Diplomatico, consigliere, ambasciatore, non solo poeta ma anche storico, scrittore di saggi e negli ultimi anni della sua vita divenne persino docente universitario. Ma soprattutto un entusiasta viaggiatore. L’opera Poemas como la vida del 1962 rappresentò uno dei momenti più alti della lirica creativa di Carrera, grazie all’orchestrazione di colori, suoni, immagini, volti, emozioni e cose, tutte trasfigurate in un’atmosfera magica. Intorno agli anni sessanta rappresentò la sua nazione presso l’UNESCO.
Nel 1972 venne pubblicata la raccolta Obra poetica completa, un’antologia comprendente tutto il suo lavoro precedente. Trascorse gli ultimi anni di vita nella sua città nativa, occupandosi della gestione della National Library of Ecuador.

Le sue sono poesie che parlano di tutto ciò che è puro, leggero, quasi infantile, esattamente come è cercare le nuvole e magari fantasticare sulla forma che esse, in quell’esatto istante, hanno e offrono ai piccoli e grandi osservatori.
L’intento poetico di Jorge Carrera Andrade è contemplare la natura associandola spesso alle emozioni più semplici, elogiandola e venerandola.
Credente, menziona in più versi Dio, ma non si esime dall’immaginare un pianeta perfetto, chiamato dal poeta Aurosia.
Nella poesia “Verrà un giorno” si parla di una utopia: la pace su tutta la Terra. L’impressione che si ha è quella di un sogno ad occhi aperti; un ottimismo che va al di là di ogni più rosea previsione fa immaginare al poeta che in un imprecisato futuro arriverà il giorno in cui finiranno per sempre gli odi e le guerre tra gli esseri umani.

Jorge Carrera Andrade, Verrà un giorno

Verrà un giorno più puro degli altri:
scoppierà la pace sulla terra
come un sole di cristallo.
Una luce nuova
avvolgerà le cose.
Gli uomini canteranno per le strade
ormai liberi dalla morte menzognera.
Il frumento crescerà sui resti
delle armi distrutte
e nessuno verserà
il sangue del fratello.
Il mondo apparterrà alle fonti
e alle spighe che imporranno il loro impero
di abbondanza e freschezza senza frontiere.

*Un poeta visionario, viaggiatore del mondo che auspica finalmente una pace universale in un mondo nuovo, dove gli uomini canteranno per le strade e tutto sarà avvolto dalla luce…la realtà sembra molto lontana da ciò ma i poeti continuano a sognare.

Ascolta figlio…

Ernest Miller Hemingway (Oak Park, 21 luglio 1899 – Ketchum, 2 luglio 1961) è stato uno scrittore e giornalista statunitense. Fu autore di romanzi e di racconti.Soprannominato Papa, fece parte della comunità di espatriati americani a Parigi durante gli anni Venti, conosciuta come “la Generazione perduta” e da lui stesso così chiamata nel suo libro di memorie Festa mobile, ispirato da una frase di Gertrude Stein.Raggiunse già in vita una non comune popolarità e fama che lo elevarono a mito delle nuove generazioni. Hemingway ricevette il Premio Pulitzer nel 1953 per Il vecchio e il mare e vinse il Premio Nobel per la letteratura nel 1954.

Poesia di Ernest Hemingway
Raccomandazione a un figlio

Non fidarti d’un bianco,
un ebreo non ammazzare,
non firmare mai un contratto,
un banco in chiesa non affittare.
Non arruolarti nell’esercito;
pigliare troppe mogli non bisogna;
non scrivere mai per le riviste:
non grattarti la rogna.
Metti sempre una carta sul sedile del cesso,
con la guerra sta in campana,
tieniti pulito, non essere malmesso,
non sposare una puttana.
Non pagare i ricattatori,
gli avvocati tieni a bada,
non fidarti degli editori,
o finirai in mezzo a una strada.
Tutti gli amici ti lasceranno
prima o poi moriranno, lo sai,
che la tua vita sia sana e pulita
e in paradiso li ritroverai.

*Versi forti, crudi, consigli che sembrano sentenze,  come nello stile di questo grande scrittore di cui amo quel capolavoro che è ” Il vecchio e il mare”. Di certo poteva parlare a ragione, data la sua enorme esperienza di vita e la voglia di poter risparmiare al figlio l’amarezza di errori e delusioni.

UNA VITA, UN ROMANZO, ERNEST HEMINGWAY

Ernest Miller Hemingway (Oak Park, 21 luglio 1899 – Ketchum, 2 luglio 1961) è stato uno scrittore e giornalista statunitense. È stato un autore di romanzi e di racconti. Nasce il 21 luglio 1899 a Oak Park (sobborgo di Chicago). Secondogenito di Clarence Edmonds, medico di famiglia benestante e di Grace Hall, ex aspirante cantante d’opera lirica, quando aveva appena un anno fu portato in una casa estiva nel Michigan vicino a un lago. Poté abituarsi quindi presto all’aria aperta e alla natura. Il padre lo conduceva spesso con sé quando andava a visitare nella riserva indiana i suoi pazienti (molti ricordi di questo periodo rientreranno nei suoi racconti) e da qui si rafforzò nel ragazzo l’amore per la natura, per la caccia, la pesca e l’avventura. Aveva solamente dieci anni quando gli fu regalato il suo primo fucile da caccia che imparò presto a usare con grande maestria suscitando l’invidia dei compagni, tanto che un giorno, a causa di un bottino di quaglie che stava portando a casa, venne assalito da un gruppetto di ragazzi che lo picchiarono e fu probabilmente questo episodio che gli fece nascere il desiderio di imparare la boxe. E’ il 1917 quando comincia a maneggiare carta e penna, dopo essersi diplomato, lavorando come cronista al “Kansas City Star”. L’anno dopo, non potendo, a causa di un difetto all’occhio sinistro, arruolarsi nell’esercito degli Stati Uniti appena scesi in guerra, diventa autista di autoambulanze della Croce Rossa e viene spedito in Italia sul fronte del Piave. Ferito gravemente dal fuoco di un mortaio l’8 luglio del 1918 a Fossalta di Piave, mentre sta salvando un soldato colpito a morte, viene ricoverato in ospedale a Milano, dove s’innamora dell’infermiera Agnes Von Kurowsky, che però non mantenne la promessa di sposarlo, perché considerava il rapporto con lui una relazione giovanile, fugace e platonica. La vicenda ispirò qualche anno dopo (1929) A Farewell to Arms (Addio alle armi). Dopo essere stato decorato al valor militare, nel 1919 torna a casa. Dopo il rientro a casa, Hemingway ricominciò a scrivere, ad andare a pesca e a dare conferenze nelle quali raccontava i giorni drammatici trascorsi sul fronte italiano. Si dedica alla stesura di racconti, del tutto ignorati da editori e dall’ambiente culturale. Scacciato di casa dalla madre che l’accusa d’essere uno scapestrato, si trasferisce a Chicago dove scrive articoli per il “Toronto Star” e “Star Weekly”. Ad una festa conosce Elizabeth Hadley Richardson, di sei anni più grande di lui, alta e graziosa. I due s’innamorano e nel 1920 si sposano, contando sulla rendita annua di tremila dollari di lei e progettando di andare a vivere in Italia.Quell’autunno decise di trasferirsi a Parigi, su suggerimento di Sherwood Anderson, che gli fornì alcune lettere di presentazione per la scrittrice statunitense espatriata Gertrude Stein affinché lo presentasse a James Joyce e a Ezra Pound, un incontro fondamentale per lui, nell’ambiente degli espatriati statunitensi e della “generazione perduta”, che considerò fin dall’inizio un maestro e grazie al quale cominciò a pubblicare alcuni racconti e poesie su riviste letterarie.Nel 1926 escono libri importanti come “Torrenti di primavera” e “Fiesta”, tutti grandi successi di pubblico e di critica.
Nel 1928 eccolo di nuovo ai piedi dell’altare per impalmare la bella Pauline Pfeiffer, ex redattrice di moda di “Vogue”. I due fanno poi ritorno in America, mettono su casa a Key West, Florida e danno alla luce Patrick, il secondo figlio di Ernest.
Nello stesso anno però un evento tragico,il padre, Clarence Hemingway, in preda a problemi finanziari, si suicidò con la sua Smith & Wesson. Nel 1930 ha un incidente automobilistico e si frattura il braccio destro in più punti. E’ uno dei molti incidenti in cui incappa in questo periodo di viaggi e di avventure: il fisico muscoloso, il carattere da attaccabrighe, la predilezione per le grandi mangiate e le formidabili bevute lo rendono un personaggio unico dell’alta società internazionale. E’ bello, duro, scontroso e, nonostante sia poco più che trentenne, è considerato un patriarca della letteratura, tanto che cominciano a chiamarlo “Papa”. Partecipa al suo primo safari in Africa, un altro terreno per saggiare la propria forza e il proprio coraggio. Nel 1935 esce “Verdi colline d’Africa”, romanzo senza trama, con personaggi reali e lo scrittore protagonista. Nel 1937 pubblica “Avere e non avere”, il suo unico romanzo d’ambientazione americana. Si reca in Spagna, da dove manda un reportage sulla Guerra civile. “Breve la vita felice di Francis Macomber” e “Le nevi del Chilimangiaro”, ispirati al safari africano, sono due testi che entrano a far parte della raccolta “I quarantanove racconti”, pubblicata nel 1938, che resta tra le opere più straordinarie dello scrittore. E’ il 1940 quando divorzia da Pauline e sposa la scrittrice Martha Gellhorn, anche lei corrispondente di guerra. Alla fine dell’anno esce “Per chi suona la campana” sulla guerra civile spagnola ed è un successo travolgente. Nel 1941 marito e moglie vanno in Estremo Oriente come corrispondenti della guerra cino-giapponese. Quando gli Stati Uniti scendono in campo nella seconda Guerra, partecipa davvero alla guerra per iniziativa della bellicosa Martha, inviata speciale in Europa della rivista Collier’s, che gli procura l’incarico della RAF, l’aeronautica militare inglese, di descrivere le sue gesta. Il 6 giugno è il D-day, il grande sbarco alleato in Normandia. Sbarca anche Hemingway e Martha prima di lui, costituisce una sua sezione del servizio segreto e una unità partigiana con la quale partecipa alla liberazione di Parigi, viene decorato con la ‘Bronze Star’. Divorzia da Martha e nel 1946 sposa Mary, quarta e ultima moglie. Nel 1952 pubblica “Il vecchio e il mare”, un romanzo breve, che commuove la gente e convince la critica,vende cinque milioni di copie in 48 ore. Vince il Premio Pulitzer. I numerosi incidenti occorsigli nella sua vita in buona misura sono conseguenti al suo voler vivere sempre esperienze al limite, come quelle della guerra o di altre situazioni estreme nelle quali “mettersi alla prova”. D’altra parte vi sono almeno tre aspetti del suo carattere emersi sin dall’adolescenza e sottolineati dagli studiosi. Essi sono il narcisismo, l’amore per le situazioni di pericolo e il senso della morte. Il 21 gennaio 1954 partì con Mary dall’aeroporto di Nairobi, ma la “sfortuna” lo stava perseguitando. Il pilota dell’aereo sul quale viaggiava, per evitare uno stormo di ibis, colpì un filo del telegrafo e, con l’elica e la fusoliera danneggiata, tentò un atterraggio di fortuna in Uganda dove, con una spalla rotta, Hemingway e la moglie furono costretti a trascorrere la notte all’aperto e al freddo. Il mattino, avvistati da una grande barca e fatti salire a bordo, furono trasportati a Butiaba dove Reggie Cartwright si offrì di portarli fino a Entebbe col suo piccolo aereo, ma l’aereo prese fuoco e lo scrittore, nel tentativo di sfondare un portello con la testa, subì danni fisici molto gravi dai quali non si riprese mai più. Solo alla fine di marzo, dimagrito di dieci chili, poté raggiungere Venezia dove il conte Federico Kechler lo raggiunse e lo accompagnò in varie cliniche per esami radiografici e visite più complete. Il 28 ottobre del 1954 Hemingway ricevette per telefono la notizia che gli era stato assegnato il premio Nobel per The Old Man and the Sea (Il vecchio e il mare), ma non fu in grado di viaggiare fino a Stoccolma per la cerimonia del 10 dicembre, così il premio fu ritirato dall’ambasciatore John Cabot. Si dice che quando gli portarono il premio lo scrittore commentò «Troppo tardi». Nel gennaio 1960, accompagnato da Valerie, Hemingway andò a Miami e continuò a scrivere la storia delle corride, che ormai era un manoscritto di 688 pagine. Ossessionato dal lavoro, in giugno lo scrittore chiese all’amico Aaron Edward Hotchner di raggiungerlo alla Finca per aiutarlo a sfrondare il testo che sarebbe poi diventato The Dangerous Summer (Un’estate pericolosa). Scrive “Festa mobile”, un libro di ricordi degli anni parigini, che uscirà postumo (1964). Un altro libro postumo è “Isole nella corrente” (1970). Intanto i segni di squilibrio mentale si facevano sempre più evidenti:gli fu diagnosticata una emocromatosi, fu sottoposto a numerosi elettroshock e venne colpito da afasia. Debole, invecchiato, malato si ricovera in una clinica del Minnesota. Profondamente depresso perché pensa che non riuscirà più a scrivere, la mattina di domenica 2 luglio 1961 si alza di buon’ora, prende il suo fucile a canna doppia, va nell’anticamera sul davanti della casa, appoggia la doppia canna alla fronte e si spara.
Lo stile narrativo di Ernest Hemingway si basa sulla semplicità e su una prosa essenziale caratterizzata da frasi brevi, semplici e concise, prive di parole superflue, i suoi romanzi e racconti sono ricchi di dialoghi che egli preferiva a uno stile descrittivo. Infatti, Hemingway limitò affermazioni esplicite, introspezione, descrizioni di stati d’animo e sentimenti, preferiva che i lettori, piuttosto che ricevere la descrizione di un’emozione, vedessero le cose e i fatti che producevano le emozioni stesse.

NAPOLI:

“Il mondo è un bel posto e per esso vale la pena di lottare.”

“L’uomo non è fatto per la sconfitta. Un uomo può essere distrutto ma non sconfitto”

*Davvero nel leggere la biografia di questo grande “personaggio” molto più di uno scrittore sono rimasta allibita. La vita stessa, da lui consumata fino allo spasimo, è un romanzo di avventure, incredibile coinvolgente. Guerra, sfide, viaggi, amori, successi letterari, di tutto e di più. Un uomo forte, appassionato, assetato. Ha vissuto i più grandi momenti della storia a cavallo delle due guerre, lo sbarco in Normandia, rivoluzioni. Tutto sul filo del pericolo come una continua sfida alla morte e alla fine ha vinto lui. Quando si è reso conto di essere troppo malato e di poter impazzire ha fatto quello che riteneva opportuno,
niente lo aveva terrorizzato che perdere la lucidità, il suo patrimonio, il cervello.
.

Le favole di Settembre

È uno dei ricordi più cari della mia infanzia, le domeniche in famiglia e la nonna che raccontava favole. “Il principe Felice” ” La Bella Addormentata” uno stimolo meraviglioso per una bimba che già viaggiava sulle ali della fantasia. Raccontate favole ai bimbi, è un patrimonio di inestimabile valore che arricchirà il loro animo.

NAPOLI:

Che meraviglia il sole di
Settembre, ha una luminosità
che si tocca!! Se lo accarezzi
non fa male, se gli sorridi,
sorride con te…
È buono il sole di settembre
sa di uva, di mele cotte,
e case coperte di edera…
Fatti accogliere dal sole
di settembre, sa di favole antiche,
quelle che raccontava la nonna
davanti alla stufa, prima di pranzare.

Imma Paradiso

Il cibo e i poeti, a tavola con Hemingway

Sin dalla sacre scritture, per poi arrivare alla Divina Commedia e a risalire la storia tutta della letteratura italiana, il cibo ha negli scritti un valore simbolico sempre diverso e una grande valenza emotiva: dal frutto primigenio delle Sacre Scritture ai formaggi della grotta di Polifemo nell’Odissea; dalla simbologia boccaccesca, fino alla carestia dei Promessi Sposi, sempre la letteratura e la poesia italiane hanno incastonato il cibo al centro di ragionamenti ben più complessi di un semplice ingrediente quotidiano.

NAPOLI

«C’è della poesia nel cibo, mentre è scomparsa da qualsiasi altra cosa, e finché la digestione me lo permetterà io seguirò la poesia», assicurava Ernest Hemingway, che i sapori della vita li conosceva, li amava davvero e ne gustò tanti. E, certamente, il cibo e il bere sono sempre stati elementi centrali di questo forte connubio. Ristoranti e trattorie, bar e caffè hanno rappresentato luoghi di incontro, ispirazione e conoscenza determinanti nei romanzi di Ernest, grande anche come divoratore di vita. Hemingway era un mangiatore (e bevitore) formidabile. Esplorava i cibi con lo stesso appetito con cui si appassionava ai luoghi. Amava  la trota fritta che andava a pescare da ragazzo e poi cucinava sul fuoco da campo nelle foreste del Michigan, e il filetto di leone ucciso personalmente nei safari in Africa, ma ci sono anche piatti italiani, francesi, spagnoli (come il baccalà di Pamplona, che Hemingway definì uno dei suoi piatti preferiti).

Racconto di Ernest Hemingway

Le trote nel fiume

Al margine del prato scorreva il fiume. Nick fu contento d’esser arrivato al fiume.
Attraversò il prato dirigendosi verso monte, i calzoni gli s’inzuppavano di rugiada mentre camminava. Dopo la giornata calda la rugiada era venuta presto ed abbondante.
Il fiume non faceva rumore. Era troppo veloce e tranquillo. Al margine del prato, prima di salire su un rialzo di terreno per piantarvi la tenda, Nick guardò nel fiume le trote che affioravano.
Venivano alla superficie per gli insetti che al calar del sole giungevano dalla palude posta oltre il fiume. Le trote saltavano fuori dall’acqua per afferrarli. Mentre Nick percorreva la stretta striscia di prato lungo il fiume, alcune trote. erano saltate alte fuor d’acqua.
Ora, mentre guardava il fiume, gli insetti dovevevano essersi disposti su tutta la superficie, perché in tutta l’acqua le trote si muovevano alla conquista del cibo.
Fin dove egli poteva vedere c’erano trote che saltavano, formando circoli su tutta la superficie
dell’acqua, come se stesse per piovere…

*Uno scrittore formidabile, coinvolgente, sensibile, con uno stile asciutto, senza fronzoli.
Bellissima la descrizione di queste trote che saltano fuori dall’acqua come se piovesse…
 

BRAMA DI VIVERE

Il lento avanzare della sera rende più stanchi i nostri pensieri e un velo di malinconia scende nella nostra anima…come se sentissimo che un altro giorno sì è consumato nel tramonto e un po’ di noi con esso. E le stagioni passano fra chi arriva chi se ne và senza però saziarci di questa brama di vivere.

Stretta nel mio scialle
di malinconia,
gli occhi si consumano
nell’ultimo alito del giorno.
E struggente il ricordo
di chi non c’è,
di chi da lontano
aspetta sul ciglio della vita.
Sale la luna a salutare
i giorni stanchi
e le stagioni passate
e gli istanti cristallizzati
in un’intensa brama di vita.

Imma Paradiso

TEMPO CHIAROSCURO

Il tempo come le stagioni è in continuo mutamento, qualsiasi cosa, anche la più immota è assoggettata ad esso…a volte quasi non ce ne accorgiamo, a volte il cambiamento ci sorprende come una tempesta improvvisa e devastante.

Napoli

È lento questo tempo chiaroscuro,
isola persa, immobile nell’oceano.
Abbarbicata alla dura roccia
dalle radici profonde,
sferzata dalle impetuose onde.
I venti scuotono gli
antichi palmeti e
nembi minacciosi si
stagliano all’orizzonte.
Mare che lambiva
come carezza ora
si abbatte infuriato
pronto a strappare
quello che lieto
sorrideva al sole.
È lento il tempo e
mutevole, ciò che
era non è più e ciò
che sarà vivrà i suoi istanti.

Imma Paradiso

La fine dell’estate con Hermann Hesse

La fine della stagione estiva mette sempre un po’ di malinconia addosso a tutti noi. Non è da meno il mondo della poesia, i cui autori hanno affrontato la fine dell’estate con toni quasi tra il malinconico e il speranzoso
Una delle figure più importanti del ‘900 letterario tedesco, Herman Hesse, così innamorato della natura, come avrebbe non potuto scrivere una poesia perfetta sulla fine dell’estate? Ha saputo cogliere il sentimento di vaga malinconia , rimpianto e rimorso che accompagna ogni essere umano quando la bella stagione vola via.
Nonostante il caldo il poeta stava fuori ugualmente godendosi gli ultimi giorni, gli ultimi scenari. Alla fine stremato tornava a casa per cercare di intrappolare inutilmente sulla carta i momenti vissuti.

Napoli

Nonostante il caldo opprimente di questi giorni, sto molto fuori.
So fin troppo bene quanto questa bellezza sia effimera,
come rapidamente si accomiata ed io sono così bramoso,
così avido di questa bellezza dell’estate che declina!
Vorrei vedere tutto, toccare tutto, odorare e assaporare
tutto ciò che questo rigoglio estivo offre,
vorrei conservare tutto questo e tenermelo per l’inverno,
per i giorni e gli anni futuri, per la vecchiaia.

In giardino, sulla terrazza, sulla torretta sotto la meridiana,
ogni giorno sto seduto per ore, e con matita e penna,
con pennello e colori disegno accuratamente le ombre mattutine
sulla scala del giardino e le contorsioni dei grossi serpenti
del glicine e cerco di riprodurre le lontane, limpide tinte
delle montagne al crepuscolo, diafane come un sospiro
eppure fulgide come gioielli.

Quindi rientro in casa stanco, molto stanco,
e quando la sera metto i miei fogli nella cartella,
quasi mi dà tristezza vedere quanto poco del tutto
ho potuto segnare e fissare per me.

*Una poesia struggente dove è espresso bene il senso di perdita per qualcosa che sta rapidamente volgendo a termine. Il poeta con una smania quasi febbrile vorrebbe colmarsi di questi ultimi giorni con tutti e cinque i sensi, riprodurre ciò che vede con il disegno, ciò che prova nei versi ma è tutto molto limitato. Le stagioni della vita sono effimere e possono rimanere solo nei ricordi. Una metafora intensa sulla fugacità della vita, al tramonto della propria esistenza si rimpiange amaramente le giovanili estati passate troppo in fretta

Eugenio Montale, il poeta del disincanto

Tra i massimi poeti italiani del Novecento, già dalla prima raccolta Ossi di seppia (1925) fissò i termini di una poetica del negativo in cui il “male di vivere” si esprime attraverso la corrosione dell’Io lirico tradizionale e del suo linguaggio. Dopo la raccolta La bufera e altro (1956) che raccoglie le poesie degli anni della guerra (Bufera) e quelli immediatamente successivi, per un decennio non scrive quasi nulla. Nel 1963 muore la moglie e ciò dà avvio a una nuova fase di poesia, dunque a nuovi temi e stile: Satura (1971), Diario del ’71 e del ’72 (1973) e Quaderno di quattro anni (1977).

Napoli

Nel 1967 è nominato senatore a vita e nel 1975 riceve il premio Nobel per la letteratura.
Eugenio Montale nacque a Genova, in un palazzo dell’attuale corso Dogali, nella zona soprastante Principe, il 12 ottobre 1896, ultimo dei sei figli di Domenico Montale e Giuseppina Ricci, esponenti della media borghesia genovese. Inizia gli studi presso l’istituto “Vittorino Da Feltre” di via Maragliano, gestito dai Barnabiti. A causa della sua salute precaria, che lo porta a contrarre varie broncopolmoniti, vengono preferiti gli studi tecnici, invece dei più lunghi classici, così nel 1911 viene iscritto all’istituto tecnico commerciale “Vittorio Emanuele” dove nel 1915 si diplomerà in ragioneria con buoni voti; Ebbe la possibilità di coltivare i propri interessi prevalentemente letterari, frequentando le biblioteche cittadine e assistendo alle lezioni private di filosofia della sorella Marianna, iscritta a Lettere e Filosofia. La sua formazione fu quindi quella tipica dell’autodidatta, che scopre interessi e vocazione attraverso un percorso libero da condizionamenti. Letteratura e lingue straniere furono il terreno in cui gettò le prime radici, la sua formazione e il suo immaginario, assieme al panorama, ancora intatto, della Riviera ligure di Levante: Monterosso al Mare e le Cinque Terre, dove la famiglia trascorreva le vacanze. Chiamato alle armi (1917-19), prese parte alla prima guerra mondiale come sottotenente di fanteria. Legato ai circoli intellettuali genovesi, dal 1920 ebbe rapporti anche con l’ambiente torinese, collaborando al Baretti di P. Gobetti. Conosce Camillo Sbarbaro e pubblica la sua prima raccolta poetica sotto il titolo Ossi di Seppia (siamo nel 1925). In questi anni comincia a conoscere e apprezzare anche la scrittura di un altro importante autore italiano che non tutti tenevano in considerazione, cioè Italo Svevo che proprio Eugenio Montale aiutò a far conoscere agli intellettuali e agli editori del suo tempo. Trasferitosi a Firenze (1927), dove frequentò il caffè delle Giubbe Rosse e fu vicino agli intellettuali di Solaria, dal 1929 fu direttore del Gabinetto scientifico-letterario Vieusseux, incarico da cui fu rimosso nel 1938 perché non iscritto al Partito fascista (nel 1925 aveva aderito al Manifesto degli intellettuali antifascisti di B. Croce).La vita a Firenze però si trascina per il poeta tra incertezze economiche e complicati rapporti sentimentali; nel 1933 conosce l’italianista americana Irma Brandeis, con cui avvia una quinquennale storia d’amore, cantandola con il nome di Clizia in molte poesie confluite ne Le occasioni. Nonostante questo ritiro sono anni molto importanti per il poeta: nel 1939 pubblica una nuova raccolta, Le Occasioni, e conosce Drusilla Tanzi che sarà sua moglie e il grande amore di tutta la sua vita. Una nuova importante stagione per Montale comincia a partire dal 1948 quando, trasferitosi a Milano, inizia a collaborare con il Corriere della Sera. Contemporaneamente pubblica altre poesie e la sua opera è tanto amata che nel 1975 gli viene assegnato il Premio Nobel per la Letteratura. Eugenio Montale morì a Milano la sera del 12 settembre 1981, un mese prima di compiere 85 anni, nella clinica San Pio X dove si trovava ricoverato per problemi derivati da una vasculopatia cerebrale. I funerali di Stato furono celebrati due giorni dopo nel Duomo di Milano dall’allora arcivescovo della diocesi Carlo Maria Martini. Venne sepolto nel cimitero accanto alla chiesa di San Felice a Ema, sobborgo nella periferia sud di Firenze, accanto alla moglie Drusilla. Nella seduta del successivo 8 ottobre, il Senato commemorò la figura di Montale, attraverso i discorsi del presidente Amintore Fanfani e del presidente del Consiglio Giovanni Spadolini.
Rassegnazione e negatività caratterizzano la poesia di Eugenio Montale: la vita appare priva di un senso profondo, c’è una grande disillusione verso la realtà. Montale vede l’esistenza come qualcosa senza un senso e comunque caratterizzata da una serie di eventi decisamente negativi e dolorosi. Troviamo soprattutto rappresentato il paesaggio ligure, sia marino che montuoso. Il linguaggio si presenta subito diretto e preciso: parlando del mondo vegetale e animale l’autore usa anche dei termini tecnici.

Il paesaggio è molto importante perché appare secco, abbandonato, battuto dal vento e il poeta fa spesso riferimento anche alle ore del primo pomeriggio in estate quando tutto è fermo, assolato e quasi morto.

Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d’orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.

Nelle crepe dei suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch’ora si rompono ed ora s’intrecciano
a sommo di minuscole biche.

Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.

E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com’è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia

*Un altro grande esponente della letteratura italiana del Novecento. Un uomo che si è creato una cultura profonda da autodidatta fino a diventare lui stesso un critico e scopritore di talenti. La sua concezione della vita è alquanto pessimista un lungo e pesante cammino, l’inutile tentativo di scalare un muro con in cima dei cocci aguzzi di bottiglia. Una considerazione amara ma veritiera, avendo lui conosciuto la tragedia della guerra, la durezza del fascismo, le ingiustizie del suo tempo e di ogni tempo. Un poeta che ritiene la poesia l’unico mezzo per raggiungere quello spazio oltre il muro della nostra mediocrità.
Un mezzo ma non una soluzione che ognuno deve cercare da solo.

Eugenio Montale, il poeta del disincanto

Eugenio Montale (Genova, 12 ottobre 1896 – Milano, 12 settembre 1981) è stato un poeta, traduttore, scrittore, filosofo, giornalista, critico letterario, critico musicale e politico italiano.
Nel 1967 viene nominato senatore a vita e nel 1975 riceve il premio Nobel per la letteratura. Muore nel 1981.

«QUALCHE STORTA SILLABA»

Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.

Ah l’uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l’ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!

Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.

*In questi meravigliosi versi, il grande poeta riflette sul significato della poesia… non è un’illuminazione per chi legge o voler insegnare verità assolute, nessuno lo può fare perché nessuno conosce il vero senso della vita, ma proprio nella poesia si possono celare quei limiti e quei dubbi che ognuno ha.

Click

Oggi immortalarsi in un selfie è diventata un’abitudine comune sia tra i giovani che tra gli adulti. Con le nuove tecnologie è una cosa semplice, immediata. Un po’ d’anni fa era diverso, c’era il famoso rullino da portare a sviluppare e richiedeva tempo. Forse come ogni cosa c’è un lato positivo e negativo, tutto sta nel saper agire con buon senso e misura, senza strafare.

Napoli

La vita si può cristallizzare
in un click,
un momento impresso
per sempre.
Il potere di una foto
dove il tempo
si ferma.
E tu rimani lì
un sorriso
un pensiero
un’emozione
l’illusione di
essere dove non puoi.

Imma Paradiso

UN DISCORSO DIMENTICATO. Pascoli: «Salviamo la domenica»

“In questo mondo nel quale ora viviamo, affaticato e affannato, suoni il cantico della risurrezione! Si restituisca al lavoro ciò che lo distingue dalla pena; si renda al lavoratore ciò che lo distingue dal forzato e dal dannato; riabbia il popolo umano ciò che gli era già stato dato: la sua domenica!
Senz’essa, non c’è settimana: la vita dell’uomo è una successione di giorni e notti, di giorni in cui il lavoro dispone il corpo al sonno della notte, di notti in cui il sonno dispone le membra al lavoro del giorno; e sempre così alternamente, eternamente, finché giorno e notte si fondano in una sola oscurità e immobilità!Un ergastolo, senz’essa, è questa società; un ergastolo in cui se non c’è la solitudine del silenzio, c’è però la solitudine del rumore: ogni uomo è segregato dall’altro dall’assordante fracasso dei magli e delle macchine. Un inferno, senz’essa, è questa umanità; un inferno pieno di vane implorazioni, di orrende bestemmie, di grida d’angoscia. Un ergastolo e un inferno, in cui l’anima degli uomini oscilla in delirio sospesa ai due moti convulsi : sempre… mai, sempre… mai. Ma no! Dice la fede: «Riposate l’un dì dei sette, o uomini, le cui membra sono gravi e frali: anche Dio riposò nel settimo giorno, egli che crea con un fiat».

La canzone del girarrosto (dai Canti di Castelvecchio , 1903),la domenica “il dì che a mattina | sorride e sospira al tramonto”. In questa poesia il Pascoli ci parla di una massaia che torna a casa dalla messa, con il vestito nuovo e profumato e, senza toglierselo di dosso, passa subito a cucinare: può farlo perché ha avuto un valido aiuto nel girarrosto! E poi arriva mezzogiorno, con la padrona di casa che chiama a raccolta: In tavola! In tavola! E allora la domenica sarà una vera festa. La canzone del girarrosto Domenica! il dì che a mattina sorride e sospira al tramonto!… Che ha quella teglia in cucina? che brontola brontola brontola… È fuori un frastuono di giuoco, per casa …

Giovanni Pascoli – La canzone del girarrosto

Domenica! il dì che a mattina
sorride e sospira al tramonto!..
Che ha quella teglia in cucina?
Che brontola brontola brontola.
È fuori un frastuono di giuoco,
per casa è un sentore di spigo..
Che ha quella pentola al fuoco?
Che sfrigola sfrigola sfrigola..
E’ già la massaia ritorna da messa;
così come travasi adorna s’appressa:
la brace qua copre, là desta,
passando, frr, come in volo,
spargendo un odore di festa,
di nuovo, di tela e giaggiolo…

*Meravigliosa, allegra, un’atmosfera di casa, di famiglia, di buon cibo. Questa è la domenica del Pascoli, questa è la domenica ideale che sa di tempi andati e che magari dovremmo ritrovare.

Il cibo e i poeti, a tavola con Trilussa

Il cibo, il vino e gli umani vizi sono amabilmente raccontati da Trilussa, sagace, pungente, preciso e lucido se non attratto dalle lusinghe del nettare degli dei.
Al secolo Carlo Alberto Salustri (1871-1950).
Un interprete divertente ed acuto della romanità, dei vizi e e delle virtu’ della bella capitale. Tanti gli scritti, i sonetti in romanesco, i detti, le massime e le poesie, che parlano di cibo e problematiche sociali.

La madre panza

Vedete quel’ometto sur cantone
che se guarda la panza e se l’alliscia
con una specie de venerazzione?
Quello è un droghiere ch’ha mischiato spesso
er zucchero còr gesso
e s’è fatta una bella posizzione.
Se chiama Checco e è un omo che je piace
d’esse lasciato in pace.
Qualunque cosa che succede ar monno
poco je preme: in fonno
nun vive che per quella
panzetta abbottatella.
E la panza j’ha preso er sopravvento
sur core e sur cervello, tant’è vero
che, quanno cerca d’esternà un pensiero
o deve espone quarche sentimento,
tiè d’occhio la trippetta e piano piano
l’attasta co’ la mano
perché l’ajuti ner raggionamento.
Quanno scoppiò la guerra l’incontrai.
Dico: – Ce semo… – Eh, – fece lui – me pare
che l’affare se mette male assai.
Mò stamo a la finestra, ma se poi
toccasse pure a noi?
Sarebbe un guajo! In tutte le maniere,
come italiano e come cittadino
io credo d’avè fatto er mi’ dovere.
Prova ne sia ch’ho proveduto a tutto:
ho preso l’ojo, er vino,
la pasta, li facioli, er pecorino,
er baccalà, lo strutto…. –
E con un’aria seria e pensierosa
aggricciò l’occhi come pe’ rivedé
se nun s’era scordato quarche cosa.
Perché, Checco, è così: vô la sostanza,
e unisce sempre ne la stessa fede
la Madre Patria co’ la Madre Panza.

*Gran poeta Trilussa, sagace, originale, il primo ad usare la satira per evidenziare le ingiustizie e il malcostume del suo tempo.
Anch’egli amante della buona tavola e del vino di cui ha scritto molto per poi esprimere verità più amare e profonde sulla differenza tra ricchi e poveri. Qui descrive un personaggio alquanto attuale, per Checco ormai il mondo si riduce ai suoi bisogni di “Panza” quindi venisse la guerra, poco importa avendo già arraffato ciò che ha potuto.

Un amico per sempre

Il 26 agosto è la Giornata Mondiale del Cane: nata nel 2004 negli Stati Uniti, la celebrazione si è poi diffusa in tutto il mondo.

Un amore quello per gli amici a quattro zampe che non fa eccezione nemmeno in Italia dove, secondo gli ultimi dati, sono oltre 14 milioni i cani domestici. “Sempre più italiani scelgono di avere un animale domestico e se ne prendono cura come un vero e proprio membro della famiglia.

Lui era un cuore d’oro
su quattro zampe
la tua ombra muta,
ma con gli occhioni
saggi e comprensivi.
Tu ti fissavi
in quegli occhi innocenti
nudo e senza difese,
finalmente libero
di poter amare.

Imma Paradiso

Il cibo e i poeti, a tavola al tempo del “Gattopardo”

Prima del 1870 e dell’Unità d’Italia in Sicilia regnava il maggiorasco, un diritto ereditario che prevedeva come il patrimonio familiare rimanesse indivisibile e venisse ereditato solo dal primogenito. Per i fratelli minori si prospettavano dunque la povertà, anche se provenivano da famiglie ricche e aristocratiche.
Il pensiero di guadagnarsi dei soldi lavorando, non gli balenava certo per la mente. E dunque ai nobili di secondo grado non rimaneva che la carriera ecclesiastica. Per alleggerire la durezza del loro destino i figli e le figlie di principi, baroni, e conti cercavano di condurre una vita adeguata al loro stile di vita dentro le mura dei monasteri.
Questo in qualche modo spiega come mai la cucina feudale siciliana dell’Ottocento disponga di due stili differenti, che però in molti punti si assomigliano in maniera sorprendente. Da un lato c’è l’ostentazione tecnico culinaria del lusso dei grandi palazzi, dall’altro la generosa cucina dei monasteri, che si concedevano volentieri un monzu, sorta di cuoco a tre stelle dell’epoca:
“I monaci facevano l’arte di Michelasso: mangiare, bere e andare a spasso. Levatasi la mattina, scendevano a dire ciascuno la sua messa, giù nelle chiese, spesso a porte chiuse, per non essere disturbati dai fedeli; poi se ne andavano in camera a prendere qualcosa, in attesa del pranzo a cui lavoravano nelle cucine spaziose come una caverna, non meno di otto cuochi, oltre agli sguatteri. In città, la cucina dei Benedettini era passata in proverbio; il timballo di maccheroni con la crosta di pasta frolla, le arancine di riso grosse come un melone, le olive imbottite, i crespelli melati, erano piatti che nessun altro cuoco sapeva lavorare; e poi gelati, per lo spumone, per la cassata gelata…”. Giuseppe Tomasi di Lampedusa cresciuto con i nonni materni a Santa Maria Belice, aveva grande familiarità con la cucina del castello di Palma di Montechiaro, e perciò la descrizione del banchetto del Gattopardo va letta come una summa storica dell’epoca precedente all’unità d’Italia, dove sono protagoniste le abitudini gastronomiche delle classi nobili siciliane.
Nel Gattopardo, in cui l’opulenza connota la classe nobile e la differenzia dalle altre classi sociali. Dalle parole di Giuseppe Tomasi di Lampedusa emerge che non solo il sapore dei cibi ha la sua importanza, ma anche il loro aspetto e la loro presentazione: basti pensare al «torreggiante timballo di maccheroni» servito a Donnafugata la sera in cui Angelica viene presentata in casa Salina, quando l’involucro di pasta dorata che racchiude un ricchissimo ripieno sembra il trionfante prodotto di venticinque secoli di gastronomia siciliana, il cibo diventa un’esperienza estetica non solo per il gusto.
Giuseppe Tomasi da Lampedusa scrive il bel romanzo Il Gattopardo, opera pubblicata solo nel 1958, un anno dopo la morte.
E’ una storia che racconta i fasti di una nobile famiglia siciliana, una vicenda che diventa un film firmato da Luchino Visconti e interpretato da Claudia Cardinale e Alain Delon. Il romanzo ripercorre le vicende della storia d’amore tra la bella Angelica e Tancredi. L’imponente palazzo coi suoi sette balconi, attiguo alla Chiesa Madre e la villa a Donnafugata sono i luoghi della vicenda. Molte scene del romanzo e del film si raccontano attorno al sontuoso tavolo da pranzo, sotto il pregiato lampadario di Murano. Tutti a tavola, senza esclusione, quattordici commensali, tra figli, precettori e governanti.
Un piatto su tutti, il Timballo di maccheroni.
Un piatto offerto in occasione della cena di fidanzamento di Angelica e Tancredi.

Napoli

Timballo di Maccheroni

“Quando tre servitori in verde, oro e cipria entrarono recando ciascuno uno smisurato piatto d’argento che conteneva un torreggiante timballo di maccheroni, tutti manifestarono il loro sollievo in modi diversi. Buone creanze a parte, l’aspetto di quei monumentali pasticci era ben degno di evocare fremiti di ammirazione. L’oro brunito dell’involucro, la fragranza di zucchero e cannella che ne emanava, non erano che il preludio della sensazione di delizia che si sprigionbava dall’interno quando il coltello squarciava la crosta: ne erompeva dapprima un fumo carico di aromi e si scrgevano poi i fegatini di pollo, le ovette dure, le filettature di prosciutto, di pollo e di tartufi nella massa untuosa, caldissima dei maccheroncini corti, cui l’estratto di carne conferiva un prezioso color camoscio.”
G. Tomasi di Lampedusa, “Il Gattopardo”

*Un capolavoro, meraviglioso spaccato della società siciliana al tempo del Risorgimento tra il rimpianto del passato, di una nobiltà rappresentata dal principe Salina che stenta ad adattarsi ai cambiamenti inevitabili portati dalla rivoluzione. Emerge il pensiero dell’autore che vede nell’apatia e nella diffidenza del popolo siciliano il risultato di secoli di dominazione straniera.

Tutto è relativo

Forse il segreto è accontentarsi delle piccole gioie, di quei preziosi momenti che possono capitarti…il famoso carpe Diem, fatto di gocce…piccole, che possono col tempo diventare mare, basta aspettare.

Com’è strana la vita
come tutto è relativo.
Taluni vogliono il mare
bagnarsi nelle sue profondità,
riempirsi gli occhi con la
sua infinita distesa.
Altri guardano la goccia,
la piccola stilla che cade
dall’alto, minuta, che,
quasi scompare quando
arriva al suolo.
E ad essa ambiscono,
la cercano e la
conservano gelosamente.
Se non puoi avere il mare
accetta le piccole gocce.
La felicità spesso è
nella prospettiva in cui
si apprezzano le cose.

Imma Paradiso

I “Muri” che ci delimitano l’Oltre.

Ci sono Muri fisici e muri interiori, linee di demarcazione, protezione, divisori: i muri della nostra vita sono dentro di noi e intorno a noi. La storia dell’umanità è ricca di muri costruiti e abbattuti col significato di avvicinare e allontanare i popoli. Il muro, dal latino “mūrum” viene solitamente conosciuto come una costruzione in muratura, sassi o altro materiale che può svolgere differenti funzioni. Tuttavia, questo è vero per i muri che comunemente si possono definire “fisici”, altri sono invece quelli che si costruiscono e regnano dentro ognuno di noi. Ci sono poi quei muri che si muovono tra l’interno e l’esterno poiché sono delle barriere costruite internamente per ridurre o gestire paure, difficoltà, sofferenze o disagio, ma che inevitabilmente modificano il comportamento verso l’esterno, agendo anche da fortezza fisica vera e propria.

Il muro è un tema importante nella poetica di Eugenio Montale (1896-1981).
La prima raccolta di poesie di Montale, Ossi di seppia, viene pubblicata dalla casa editrice di Pietro Gobetti nel 1925. Composto da 61 liriche e in base a un disegno concettuale preciso e non in ordine cronologico, il libro si apre con I limoni, testo del 1924 e si chiude con Riviere, componimento del 1920. La raccolta di divide inoltre in quattro sezioni: Movimenti, Ossi di seppia, Mediterraneo e Meriggi e ombre. Il tema della raccolta poetica è quello dell’aridità, da lui chiamata “arsura”: gli ossi di seppia sono infatti quei residui calcarei dei molluschi che rimangono depositati sulla riva, che rimandano a una condizione vitale impoverita. Per questo la sua poesia si bassa su realtà marginali, con un linguaggio secco e spoglio e mai ricercato.
Un altro oggetto molto significativo è il muro, un ostacolo impossibile da valicare perché “scalcinato e con in cima cocci aguzzi di bottiglia”: l’uomo rimane perciò intrappolato in questa realtà materiale, senza una consistenza unitaria, e incapace di raggiungere il senso di integrità. Tutto ciò si traduce in una perdita di identità individuale e in un distacco dal mondo esteriore: un’irrequietezza che diventa un male di vivere che è possibile superare solamente attraverso l’indifferenza e l’impossibilità di provare dei veri sentimenti.Gli Ossi si concludono in modo positivo però: in Riviera infatti Montale alimenta la speranza che l’anima un giorno non sia più divisa e trovi la sua armonia con la realtà.

Se il mare rappresenta la felicità, la terra rappresenta l’opposto: è il luogo dove il poeta si ritrova dopo essere stato esiliato dal mare e dove è costretto a fare i conti con l’esclusione dalla beatitudine naturale pura. Il mare è l’infinito, la terra è il limite. Montale non si lascia sopraffare e fa della terra anche il luogo dove l’uomo può, seppur in modo non tradizionalmente eroico, mostrare il proprio valore, che consiste principalmente nell’accettazione stoica della propria condizione.
Negli Ossi di seppia c’è ancora questo muro grafito a limitare il cielo – un’altra immagine per quell’«oltre» che è impedito al poeta e che rimane al di là come “il palpitare lontano di scaglie di mare”
In questa poesia, il tono dominante è di rassegnazione di fronte ad un mondo in cui l’abitudine ha preso il sopravvento, abitudine che da una parte è una conferma che ci avvolge e ci conforta, ma dall’altra può essere anche una gabbia che ci assilla e ci snerva.
Le mattine future sono ancorate come barche in un’insenatura: il dilemma della vita è tutto qui. Da una parte l’insenatura tranquilla è una consolazione, una conferma, è la bellezza e la sicurezza del quotidiano, dall’altra ancorate ci fa pensare a qualcosa di pesante, difficile da smuovere, una condanna alla consuetudine.

Sul muro grafito
che adombra i sedili rari
l’arco del cielo appare
finito.

Chi si ricorda più del fuoco ch’arse
impetuoso
nelle vene del mondo; – in un riposo
freddo le forme, opache, sono sparse.

Rivedrò domani le banchine
e la muraglia e l’usata strada.
Nel futuro che s’apre le mattine
sono ancorate come barche in rada.   

(da Ossi di seppia, 1925)     

*Una realtà che il poeta descrive in una serie di efficaci e meravigliose metafore. Muri, invalicabili, alcuni con in cima taglienti cocci di bottiglia…quanti muri che ci costruiamo negli anni per proteggerci. Dall’ardente giovinezza piena di curiosità e di entusiasmo, fino all’isolamento nella piccola rada tranquilla dove ci sentiamo sicuri quasi prigionieri come barche ancorate.

Al di là della nebbia

Non siamo mai totalmente felici, i nostri giorni, anche i più lieti sono sempre velati da una sottile cortina di nebbia. C’è sempre un vago senso d’inquietudine…

Io non so cosa c’è nella nebbia…
ah godete il piccolo istante di sole!
Ti riscaldi, ti illumina la strada
e pensi che sia un’eterna estate
e pensi che sia il sorriso
quello che ti mancava…
E pensi…
Io non so cosa c’è nella nebbia…
Ma avanza e ti coglie improvvisa.
E copre anche te.

Imma Paradiso
 

UN GRIDO PER LA PACE”Sarebbe una festa per tutta la terra fare la pace prima della guerra” ☮️☮️

Il simbolo della pace (☮) fu creato da Gerald Holtom nel 1958, disegnatore commerciale e pacifista, su commissione della CND, all’epoca guidata dal filosofo e matematico Bertrand Russell e raggiunse il successo nel decennio successivo prima a sostegno della Campagna per il disarmo nucleare e successivamente più in generale dell’antimilitarismo. Il successo del simbolo si deve probabilmente alla sua semplicità e fu interpretato falsamente anche come la rappresentazione stilizzata di un amplesso, aderendo così allo slogan sessantottino «Fate l’amore, non fate la guerra».Il simbolo, secondo la sua versione iniziale, rappresenterebbe le lettere N e D, appunto Nuclear Disarmament. Inizialmente Holtom aveva pensato di ricorrere al simbolo della croce cristiana inserito in un cerchio, ma alcuni preti con cui si consultò non si dichiararono entusiasti di usare la croce in marce di protesta. La prima apparizione pubblica del simbolo della pace avvenne quello stesso anno nella Marcia di Aldermaston (o Marcia di Pasqua), una grande manifestazione anti-nucleare in Gran Bretagna, iniziata a Trafalgar Square a Londra e terminata ad Aldermaston, a 80 km dalla capitale, dove venivano prodotte le armi nucleari britanniche.  Il simbolo non fu mai, volutamente, protetto da copyright, e anche per questo è divenuto un linguaggio universale, nel bene e nel male. L’attivista statunitense Bayard Rustin, consigliere di Martin Luther King, lo importò negli Stati Uniti, dove ben presto divenne icona dei movimenti per i diritti civili e simbolo delle proteste contro la guerra del Vietnam. Ma il ☮ è stato anche impiegato da movimenti ambientalisti, nella difesa dei diritti delle donne o degli omosessuali, nella lotta all’apartheid.

Dopo la pioggia è una filastrocca di Gianni Rodari, tratta dalla raccolta I cinque libri. Storie fantastiche, favole e filastrocche edita da Einaudi nel 1997. Ancora una volta, con parole semplici ma dense di metafore, lo scrittore e pedagogista riesce a donarci un insegnamento prezioso che sembra derivare direttamente dall’armonioso ciclo della natura.
Pioggia, tempesta e arcobaleno diventano quindi simboli archetipici, immagini della “pace” e della “speranza”. Tramite un esplicito gioco di contrapposizioni, l’autore vuole porre l’accento su un modo di sentire comune a tutta l’umanità che pare rendersi conto del benessere solo dopo aver sperimentato la sventura. Racconta un fatto molto vero, quanto inevitabile.
Le cose infatti in questo nostro mondo sembrano definirsi tramite il loro opposto: la “pace” sarebbe un termine astratto, vacuo, svuotato di ogni senso senza la “guerra”.

Dopo la pioggia

Dopo la pioggia viene il sereno
brilla in cielo l’arcobaleno.
È come un ponte imbandierato
e il sole ci passa festeggiato.

È bello guardare a naso in su
le sue bandiere rosse e blu.
Però lo si vede, questo è male
soltanto dopo il temporale.

Non sarebbe più conveniente
il temporale non farlo per niente?
Un arcobaleno senza tempesta,
questa sì che sarebbe una festa.

Sarebbe una festa per tutta la terra
fare la pace prima della guerra.

*Eh sì sarebbe davvero un passo avanti nell’evoluzione della specie arrivare a questa considerazione così semplice eppure così importante. Rodari nella sua saggezza fanciulla lo pone nella giocosità di una filastrocca, da cantare ai bimbi sperando che diventino adulti più consapevoli.

Il miracolo della vita, raccontato da Quasimodo

Cosa è la vita? Come mai essa appare così rara, nell’universo sino ad ora esplorato, e così sovrabbondante e varia sulla Terra? Essa è frutto del caso o di un progetto? Esiste per fortunate coincidenze, o per volere di Qualcuno? Poche realtà suscitano altrettanti interrogativi filosofici e scientifici come la vita. L’unica certezza a cui gli scienziati sono arrivati è che vi è un importante legame tra l’evoluzione cosmica e quella biologica; vi sono profonde connessioni tra stelle e atomi, cosmo e uomo; vi sono condizioni cosmiche inziali molto particolari, mancando le quali non potrebbe nascere la vita: “Condizioni di per sé necessarie, ma non necessariamente sufficienti né per la vita, né, a maggior ragione, per la vita intelligente e libera“. Oltre alle particolari condizioni cosmiche, la comparsa della vita richiede anche particolari condizioni locali. E la Terra è l’unico pianeta, nel Sistema Solare, in grado di offrire tali condizioni.Ed il miracolo più grande è l’intera esistenza umana, nei suoi risvolti positivi che entusiasmano, danno energia, riempiono il cuore ed anche nei risvolti negativi della sofferenza che rattristano, che chiedono un perché, che chiedono una “resurrezione”.
Questa “resurrezione” che celebra la vita ben la esprime la poesia di Quasimodo, “Lo specchio”.

NAPOLI

Salvatore Quasimodo (Modica, 20 agosto 1901 – Napoli, 14 giugno 1968), vincitore del premio Nobel per la letteratura nel 1959.

Quel repentino cambiamento portato in natura dalla primavera e racchiuso bene in quel “ed ecco”, che introduce quello schiudersi delle gemme sui rami in apparenza secchi. Il tronco dell’albero che poco tempo prima sembrava morto, quasi ripiegato su se stesso, ora riprende vita. È la vita che rinasce dopo il lungo letargo invernale e il cuore del poeta non prova più ansia (che il cuore riposa). Tutto questo, per Quasimodo, ha del miracoloso (e tutto mi sa di miracolo).

Specchio

Ed ecco sul tronco
si rompono le gemme:
un verde più nuovo dell’erba
che il cuore riposa:
il tronco pareva già morto,
piegato sul botro.

E tutto mi sa di miracolo;
e sono quell’acqua di nube
che oggi rispecchia nei fossi
più azzurro il suo pezzo di cielo,
quel verde che spacca la scorza
che pure stanotte non c’era.

*Il tronco pareva già morto…tutto sembrava finito, perso e poi inatteso, incredibile, il miracolo! Nella scorza c’è un piccolo germoglio, il cielo fra le nuvole è più azzurro ed anche il cuore del poeta si apre alla speranza…l’iniziale prodigio, agli albori della storia avviene ogni attimo senza che quasi ce ne accorgiamo.

Promessa

Ogni nuovo giorno è una “Promessa” di vita, finché il sole si alzerà in cielo, a noi è concessa un nuova speranza e non è poco…

NAPOLI

Promessa
il primo raggio di sole.
Promessa
il primo canto del mattino.
Promessa
la brezza che mitiga
il caldo del giorno.
Promessa
lo struggente sentimento
che invoca versi
che si perdono in volo.

Imma Paradiso

La poesia di guerra, un grido per la pace

Tra i tanti elementi che hanno contribuito a rendere unica la Grande Guerra e a farne un autentico spartiacque nella storia contemporanea, va senz’altro segnalata la straordinaria abbondanza di testimonianze letterarie, pubblicate in parte quando il conflitto era ancora in corso e in parte nel dopoguerra, seppure a intervalli, per oltre quindici anni circa.

La poesia di guerra rientra nell’ampia produzione letteraria italiana che si riferisce al primo e al secondo conflitto mondiale.
È proprio con la Prima guerra mondiale infatti che l’intellettuale – in questo caso il poeta – si fa testimone della battaglia, raccontandola in prima persona, da combattente o da reduce. I poeti italiani furono i veri narratori-cronisti della guerra, se non altro i primi che la descrissero in tutta la sua reale atrocità. Nelle poesie di Giuseppe Ungaretti consacrata nella celebre raccolta Il porto sepolto (1916) troviamo tutto l’orrore provocato dalla guerra, sia sul piano fisico che dal punto di vista del tormento spirituale. Come Ungaretti, anche Clemente Rebora fu soldato sul Carso nel 1915 e descrisse, in un celebre componimento, lo strazio fisico vissuto da un soldato rimasto gravemente ferito. Umberto Saba dedica i Versi Militari contenuti ne Il Canzoniere all’esperienza della guerra e dell’addestramento militare.  In queste poesie è racchiusa una riflessione profonda sul senso di solidarietà tra eguali che il combattimento trasmette e il rifiuto della guerra al nemico là fuori. Eugenio Montale, infine, ne La bufera e altro raccoglie le poesie scritte tra il 1940 e il 1954 che raccontano l’orrore del secondo conflitto mondiale e la barbarie del nazifascismo, alludendo inoltre ai crimini attuati dalle dittature totalitarie del Novecento.
Nel 1946 il poeta ermetico Salvatore Quasimodo nella raccolta intitolata Giorno dopo giorno descrive l’eterno ritorno della guerra nelle esistenze dell’uomo con un tono accorato che sale in un crescendo nell’appello finale rivolto alle generazioni future.

“La guerra e’ nemica dell’umanita’.
Ogni essere umano ha diritto a non essere ucciso.
Per abolire la guerra e’ necessario il disarmo.
Solo la non violenza puo’ salvare l’umanita”

Uomo del mio tempo (dalla raccolta Giorno dopo giorno, 1947)

Sei ancora quello della pietra e della fionda,
uomo del mio tempo. Eri nella carlinga,
con le ali maligne, le meridiane di morte,
t’ho visto – dentro il carro di fuoco, alle forche,
alle ruote di tortura. T’ho visto: eri tu,
con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio,
senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora,
come sempre, come uccisero i padri, come uccisero
gli animali che ti videro per la prima volta.
E questo sangue odora come nel giorno
Quando il fratello disse all’altro fratello:
«Andiamo ai campi». E quell’eco fredda, tenace,
è giunta fino a te, dentro la tua giornata.
Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue
Salite dalla terra, dimenticate i padri:
le loro tombe affondano nella cenere,
gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore.

*1946, 2022, sei ancora uguale uomo del mio tempo, scriverebbe Quasimodo. Con la tua scienza esatta, i tuoi interessi, la tua miseria. Figli non avete dimenticato, né imparato niente, che amarezza !! Un grande esponente della letteratura italiana che con il suo stile diretto, conciso e privo di retorica esprime grandi verità.

*Se solo la guerra si limitasse ad altro…

UN’ALTRA GUERRA

Guerra.
Brutta parola, pesante,
come roccia che schiaccia.
Sinonimo di orrore, di paura…
se solo potesse assumere
altri significati…
Guerra i nostri sguardi
che si cercano, si misurano,
come avversari in attesa.
Guerra le nostre mani,
insaziabili esploratori alla
ricerca di angoli nascosti.
Guerra le nostre bocche
affamate di assaggiarsi,
di divorarsi l’anima.
Guerra corpi accesi
nell’affannosa voglia
di fondersi colpo su colpo,
in questa meravigliosa guerra,
che non nuoce e non fa vittime.

Imma Paradiso

NAPOLI

Salvatore Quasimodo, padre dell’ermetismo.

Salvatore Quasimodo (Modica, 20 agosto 1901 – Napoli, 14 giugno 1968) è stato un poeta e traduttore italiano, esponente di rilievo dell’ermetismo.
Il termine ermetismo fu introdotto all’inizio con intento dispregiativo, quasi sinonimo di oscurità e incomprensibilità. Oggi ermetismo ha assunto il significato di pratica della poesia come atto puro, come esercizio assoluto di linguaggio, come componimento concentrato ed essenziale, in cui l’anima si concede per “illuminazioni liriche” Salvatore Quasimodo nasce in provincia di Ragusa, precisamente a Modica, il 20 agosto del 1901. Lo scrittore trascorre l’infanzia a Modica, seguendo il padre nel suo lavoro come capostazione di Ferrovie dello Stato. La sua famiglia viene colpita dal terribile terremoto del 1908 e in seguito è costretta a trasferirsi a Messina, dove il padre è stato chiamato per riorganizzare la stazione locale.
Come molti dei superstiti, appena dopo la grande catastrofe Quasimodo deve vivere nei vagoni dei treni, esperienza che segna profondamente la vita del poeta. Il giovane Quasimodo si diploma a Messina presso l’Istituto Tecnico “A.M. Jaci” nella sezione fisico-matematica.  A Messina Quasimodo comincia, di tanto in tanto, a scrivere versi, che pubblica su riviste locali. Non appena conseguito il diploma, il giovane lascia l’adorata Sicilia e viene assunto, nel 1926, al Ministero dei Lavori Pubblici, venendo assegnato al Genio Civile di Reggio Calabria, nel ruolo di geometra, tecnico e magazziniere. Sempre nel 1926, per lavoro, si trova a Reggio Calabria. Qui ritrova la fiducia nelle sue capacità letterarie, soprattutto grazie al rapporto con Pugliatti, e riscopre la forza per perseguire il suo obiettivo, riprendendo in mano i versi scritti durante il suo periodo a Roma e lavorandoci su. La fase più creativa dell’opera poetica di Quasimodo si può far risalire ad Acque e terre (1930), Oboe sommerso (1932), e a Ed è subito sera (1930). In tali raccolte vengono rievocate l’infanzia in Sicilia e le figure dei cari lontani. Nel 1934 Quasimodo si trasferisce a Milano e riesce a trovare lavoro nel settore editoriale come segretario di Cesare Zavattini. Questi, più tardi, lo fa entrare nella redazione del settimanale “Il Tempo”.  In questo periodo scopre la sua profonda affinità con i lirici greci. In questo momento collimano alcuni aspetti della ricerca ermetica di Quasimodo e alcuni aspetti dell’antica letteratura greca. Risale al 1940 il primo ruolo come insegnante, precisamente per la cattedra di Italiano al Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano. Questo è il lavoro che farà fino al momento della sua morte.
Il suo più grande successo risale a due anni dopo, nel 1942: questo è l’anno della pubblicazione di Ed è subito sera. La Seconda guerra mondiale rappresenta uno spartiacque nella vita del poeta che, nonostante le mille difficoltà, continua a lavorare proficuamente ma avviene il cambiamento stilistico: la poesia di Quasimodo diventa più attenta alla società e impegnata.  Nel 1950 ottenne il Premio San Babila; nel 1953 condivise il Premio Etna-Taormina con il poeta gallese Dylan Thomas; nel 1958 ebbe il premio Viareggio; nel 1959 gli fu assegnato il premio Nobel per la letteratura «per la sua poetica lirica, che con ardente classicità esprime le tragiche esperienze della vita dei nostri tempi» che gli fece raggiungere una definitiva fama. A esso seguirono le lauree honoris causa dalla Università di Messina nel 1960 e da quella di Oxford nel 1967.Il 14 giugno del 1968, mentre il poeta si trovava ad Amalfi, dove doveva presiedere un premio di poesia, venne colpito da un ictus (aveva avuto già un infarto mentre visitava l’Unione Sovietica), che lo condusse alla morte poche ore dopo.
Quasimodo fu membro della Massoneria, iniziato il 31 marzo 1922 presso la Loggia “Arnaldo da Brescia” di Licata.La sua adesione alla fratellanza massonica è resa più manifesta nella poesia Uomo del mio tempo, una denuncia contro la barbarie nazifascista di una “scienza esatta votata allo sterminio, senza amore, senza Cristo”, e un invito al ritorno alla vita dei figli senza memoria del sangue versato dai padri e speranza di vederli risorgere dalla cenere.

NAPOLI:

Nella sua opera letteraria egli rivelò il suo carattere pensoso e profondamente umano e nello stesso tempo giunse, attraverso un itinerario ricco di svolte e di approfondimenti, a soluzioni originali e ricche sul piano intellettuale ed artistico. Egli aderì all’Ermetismo spontaneamente, per la sua naturale esigenza di concretezza e perchè vide nella nuova poesia un sussidio contro il Romanticismo; il suo ermetismo risultò in ogni caso originale, poiché egli aderì ad un linguaggio scarno ma non privo di sfumature musicali e caratterizzato da un velo di tristezza. Il paesaggio della Sicilia è quindi al centro della sua ispirazione nella prima parte della sua produzione letteraria ma non viene meno nei successivi momenti della sua storia spirituale. Le tragiche esperienze del conflitto indussero in particolare il poeta ad allontanarsi dagli aspetti più rigidi dell’Ermetismo, ad abbandonare le meditazioni solitarie e ad avvicinarsi a tutti gli uomini, nel tentativo di aiutarli nella ricostruzione degli antichi valori.

La poesia “Natale” noto anche con il titolo di Presepio, fu composta nel 1952 per celebrare la bellezza di un presepe ligneo. La poesia a un primo sguardo potrebbe apparire come un elogio della bellezza del presepe, un classico della tradizione natalizia cristiana; eppure, a una lettura più profonda, si può cogliere in questo componimento tutta l’inquietudine esistenziale del poeta, la pace fittizia rappresentata dal presepe, osserva Quasimodo, non si riflette nel cuore umano.

Natale. Guardo il presepe scolpito,
dove sono i pastori appena giunti
alla povera stalla di Betlemme.
Anche i Re Magi nelle lunghe vesti
salutano il potente Re del mondo.
Pace nella finzione e nel silenzio
delle figure di legno: ecco i vecchi
del villaggio e la stella che risplende,
e l’asinello di colore azzurro.
Pace nel cuore di Cristo in eterno;
ma non v’è pace nel cuore dell’uomo.
Anche con Cristo e sono venti secoli
il fratello si scaglia sul fratello.
Ma c’è chi ascolta il pianto del bambino
che morirà poi in croce fra due ladri?

*Sono versi potenti molto duri in contrasto con il messaggio sereno e lieto della nascita di Gesù. È un presepe finto come finti sono i sentimenti di pace e fratellanza che spesso vengono sbandierati durante le festività per essere poi dimenticati…la chiusa è amara, come se quel Gesù avesse fallito il suo compito morendo tra due ladri, anche lui vittima della crudeltà umana.
Bellissima, fa riflettere.

Ricordando Salvatore Quasimodo

Salvatore Quasimodo (Modica, 20 agosto 1901 – Napoli, 14 giugno 1968) è stato un poeta e traduttore italiano, esponente di rilievo dell’ermetismo.
Alle fronde dei salici è uno dei componimenti poetici più noti e importanti di Salvatore Quasimodo, che apre la raccolta Giorno dopo giorno (1947), segnata come quelle successive dall’esperienza dolorosa della guerra mondiale e dalle sue conseguenze sugli uomini e sulla natura. A differenza dei testi poetici precedenti, in cui prevalevano una piena adesione all’Ermetismo e il frammento, adesso Quasimodo predilige una poesia maggiormente accessibile e versi lineari e dal significato immediato.  Il poeta trae ispirazione dal Salmo 137 della Bibbia. La riflessione di Quasimodo in questa poesia è volta al significato e al ruolo della poesia stessa, muta e priva di valore dinanzi all’orrore e al dolore provocati dalla guerra.
NAPOLI:

Salmi 137
L’esilio
(La 1; 2) Ez 25:12-14; Gr 50; 51
1 Là, presso i fiumi di Babilonia,
sedevamo e piangevamo ricordandoci di Sion.
2 Ai salici delle sponde avevamo appeso le nostre cetre.
3 Là ci chiedevano delle canzoni quelli che ci avevano deportati,
dei canti di gioia
quelli che ci opprimevano, dicendo:
«Cantateci canzoni di Sion!»
4 Come potremmo cantare i canti del SIGNORE
in terra straniera?
5 Se ti dimentico, Gerusalemme,
si paralizzi la mia destra;
6 resti la mia lingua attaccata al palato,
se io non mi ricordo di te,
se non metto Gerusalemme
al di sopra di ogni mia gioia.
7 Ricòrdati, SIGNORE, dei figli di Edom,
che nel giorno di Gerusalemme
dicevano: «Spianatela, spianatela,
fin dalle fondamenta!»
8 Figlia di Babilonia, che devi essere distrutta,
beato chi ti darà la retribuzione del male che ci hai fatto!
9 Beato chi afferrerà i tuoi bambini
e li sbatterà contro la roccia!

“Alle fronde dei salici”

E come potevano noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore,
fra i morti abbandonati nelle piazze
sull’erba dura di ghiaccio, al lamento
d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese,
oscillavano lievi al triste vento.

*Di fronte all’orrore della guerra, all’oppressione nazista che uccideva persone innocenti per le strade, senza ritegno e pietà, è impietrito il cuore del poeta che perde fede anche nel suo canto. Anche le cetre devono fare silenzio di fronte alle lacrime delle madri…quante guerre, quante ingiustizie, quante lacrime ancora si versano nel mondo…

Sonò alto un nitrito

La cavalla storna è una poesia composta da Giovanni Pascoli in memoria del padre Ruggero, assassinato nel suo carro sulla strada di ritorno verso casa il 10 agosto 1867, quando il poeta aveva quasi dodici anni.

Gli autori di tale reato non vennero mai individuati, ma vennero fatte solo alcune supposizioni. L’evento lascerà un segno indelebile nell’animo del poeta, andando ad influenzare tutta la sua produzione.
La scena si svolge di notte, in un silenzio reso irreale dal fruscio dei pioppi mossi dal vento,e vede la madre di Pascoli, Caterina Vincenzi, parlare con l’unica testimone del delitto, la cavalla detta «storna» per il colore del mantello grigio-scuro, pezzato da macchie bianche.L’ambientazione è nella stalla della tenuta «La Torre», di cui il padre di Pascoli era amministratore, vicino al Rio Salto, un piccolo torrente che attraversa San Mauro di Romagna. La tematica di fondo della poesia è quella della morte, dell’ingiustizia e della sofferenza, comune ad altri componimenti del Pascoli, in particolare X agosto, incentrato analogamente sul doloroso ricordo dell’omicidio del padre per mano ignota. l’immagine della carrozza col cadavere del padre trainato dalla cavalla che fa ritorno a casa, al «nido» violato;uno struggimento evidenziato dal ripetersi ossessivo dei versi:

«O cavallina, cavallina storna,
che portavi colui che non ritorna.»

Il tema del “nido” spazzato via dalla tragedia ricorre spesso nelle liriche pascoliane, come nella celeberrima X agosto, in cui si rievoca l’immagine della rondine uccisa, che cade tra gli spini, e non può fare ritorno al nido per nutrire i suoi rondinini condannati a pigolare nel buio sempre più piano. Se in X agosto la morte del padre Ruggero veniva rievocata attraverso il parallelismo – come la rondine uccisa è l’uomo che tornava al suo nido -, nella poesia La cavalla storna il delitto viene invece raccontato a posteriori, dal punto di vista del suo unico testimone: la cavallina dal manto pezzato che viene interrogata invano dalla disperata madre del poeta. La poesia La cavalla storna, che a lungo è stata ritenuta una delle più celebri di Pascoli, fu scritta nel 1903 ed è contenuta nella raccolta I Canti di Castelvecchio in cui ricorre con frequenza ossessiva il tema della tragedia familiare. Nella natura, Pascoli coglie un rifugio rassicurante che pare consolare – nella ripetizione costante dei cicli stagionali e negli elementi inalterati del paesaggio – l’uomo dall’angoscia insita nell’esistenza.

“Quest’anno per agosto stamperò una specie di narrazione fosca dei guai della mia famiglia. Io non voglio morire senza aver fatto un monumento al mio babbo e alla mia mamma.” G.Pascoli

Giovanni Pascoli – La cavalla storna
Poesie scelte: GIOVANNI PASCOLI, Canti di Castelvecchio (Bologna, Zanichelli 1903).

Nella Torre il silenzio era già alto.
Sussurravano i pioppi del Rio Salto.

I cavalli normanni alle lor poste
frangean la biada con rumor di croste.

Là in fondo la cavalla era, selvaggia,
nata tra i pini su la salsa spiaggia;

che nelle froge avea del mar gli spruzzi
ancora, e gli urli negli orecchi aguzzi.

Con su la greppia un gomito, da essa
era mia madre; e le dicea sommessa:

“O cavallina, cavallina storna,
che portavi colui che non ritorna;

tu capivi il suo cenno ed il suo detto!
Egli ha lasciato un figlio giovinetto;

il primo d’otto tra miei figli e figlie;
e la sua mano non toccò mai briglie.

Tu che ti senti ai fianchi l’uragano,
tu dai retta alla sua piccola mano.

Tu c’hai nel cuore la marina brulla,
tu dai retta alla sua voce fanciulla”.

La cavalla volgea la scarna testa
verso mia madre, che dicea più mesta:

“O cavallina, cavallina storna,
che portavi colui che non ritorna;

lo so, lo so, che tu l’amavi forte!
Con lui c’eri tu sola e la sua morte

O nata in selve tra l’ondate e il vento,
tu tenesti nel cuore il tuo spavento;

sentendo lasso nella bocca il morso,
nel cuor veloce tu premesti il corso:

adagio seguitasti la tua via,
perché facesse in pace l’agonia…”.

La scarna lunga testa era daccanto
al dolce viso di mia madre in pianto.

“O cavallina, cavallina storna,
che portavi colui che non ritorna;

oh! due parole egli dové pur dire!
E tu capisci, ma non sai ridire.

Tu con le briglie sciolte tra le zampe,
con dentro gli occhi il fuoco delle vampe,

con negli orecchi l’eco degli scoppi,
seguitasti la via tra gli alti pioppi:

lo riportavi tra il morir del sole,
perché udissimo noi le sue parole”.

Stava attenta la lunga testa fiera.
Mia madre l’abbraccio’ su la criniera.

“O cavallina, cavallina storna,
portavi a casa sua chi non ritorna!

a me, chi non ritornerà più mai!
Tu fosti buona… Ma parlar non sai!

Tu non sai, poverina; altri non osa.
Oh! ma tu devi dirmi una una cosa!

Tu l’hai veduto l’uomo che l’uccise:
esso t’è qui nelle pupille fise.

Chi fu? Chi è? Ti voglio dire un nome.
E tu fa cenno. Dio t’insegni, come”.

Ora, i cavalli non frangean la biada:
dormian sognando il bianco della strada.

La paglia non battean con l’unghie vuote:
dormian sognando il rullo delle ruote.

Mia madre alzò nel gran silenzio un dito:
disse un nome . . . Sonò alto un nitrito

*Una cantilena struggente ed intensa, un’immagine viva, un dialogo drammatico e ricco di pathos che il poeta riesce a trasmettere in pieno. Un atto d’accusa indiretto, nella chiusa, con quel nitrito forte a quel nome non pronunciato.

Te vulesse…

La passione è sinonimo dell’amore vero che si traduce nel desiderio carnale di essere parte dell’altro quasi con dolce prepotenza…

Te vulesse piglià a’ muorze
doce, lente, pe’ te lascià
nu segno ca’ m’appartiene,
ca’ so pazze e’ te.
Te vulesse vasà
assaje, continue,
pure l’anima te vulesse
tuccà…
Te vulesse trasì
ind’o core
ind’a pelle
ind’o sangue
pe’ te fa sentì
o’ fuoco e’ sta passione.
Astrigneme chiù forte
nun me lassà…
Perdemmece…
Te porte fino e’ stelle
accussì tuccamme
pe’ na vota a’ felicità.

Ti vorrei dare dei morsi
dolci, lenti, per lasciarti
un segno che mi appartieni
che sono pazza di te.
Ti vorrei baciare
tanto, continuamente,
pure l’anima ti
vorrei toccare…
Vorrei entrare
nel cuore
nella pelle
nel sangue
per farti sentire
il fuoco di questa passione.
Abbracciami più forte
non lasciarmi…
Perdiamoci…
Ti porto fino alle stelle
così tocchiamo
per una volta la felicità.

Imma Paradiso

Ron Hicks e la dolcezza di un istante-Napoli:

Vola da me, amore, con l’aereplano di carta della mia fantasia

NAPOLI:
“Vola da me” è una poesia profonda e delicata di Alda Merini, tutti sappiamo quanto sia stata dura e difficile la vita di Alda Merini. La sua mente sensibile e il suo cuore delicato l’hanno resa diversa agli occhi degli altri, pazza perfino. Le sue poesie, grida di aiuto e sfogo esplosivo, le hanno dato quel conforto che non riusciva a ricevere, quasi fosse una maledizione. In “Vola da me” la poetessa dei Navigli invoca l’amato per raggiungerla, una presenza fatta di fantasia e sentimento.

“Vola da me”

Amore,

vola da me

con l’aeroplano di carta

della mia fantasia,

con l’ingegno del tuo sentimento.

Vedrai fiorire terre piene di magia

e io sarò la chioma d’albero più alta

per darti frescura e riparo.

Fa’ delle due braccia

due ali d’angelo

e porta anche a me un po’ di pace

e il giocattolo del sogno.

Ma prima di dirmi qualcosa

guarda il genio in fiore.

*Che versi dolci, lievi, colmi d’amore. Invocare un sentimento anche solo sognato per quel conforto dell’anima a cui tutti aspiriamo ma che spesso neghiamo chiusi nelle nostre ottuse paure…ma lei animo puro o povera pazza, esprimeva con disarmante sincerità i suoi bisogni, le sue mancanze, la luce che si può vivere solo attraverso il cuore non c’è altro modo.

Alda Merini, la forza di una donna, la grandezza di una poetessa

NAPOLI:

Alda Giuseppina Angela Merini, nota semplicemente come Alda Merini (Milano, 21 marzo 1931– Milano, 1º novembre 2009) è stata una poetessa, aforista e scrittrice italiana.
Alda Giuseppina Angela Merini nasce il 21 marzo 1931 a Milano. . Il padre, Nemo Merini, originario di Brunate, primogenito degli otto figli di un conte comasco diseredato per aver sposato una contadina, è impiegato di concetto presso le assicurazioni “Vecchia Mutua Grandine ed Eguaglianza”; la madre, Emilia Painelli, è casalinga. Alda vive tra un padre colto, affettuoso, dolce ed attento che a cinque anni le regala un vocabolario e che le spiega le parole tenendola sulle ginocchia, e una madre severa, pragmatica, distante ed altera, che tenta invano di proibirle di leggere i libri della biblioteca paterna in quanto vede per lei un futuro esclusivamente di moglie e madre. Emilia Painelli inoltre, quando la figlia, studentessa elementare, ha una crisi mistica, porta il cilicio, partecipa continuamente alle messe presso la vicina basilica di San Vincenzo in Prato e vuole farsi monaca, inizialmente scambia il suo malessere interiore per esteriore, e la riempie di vitamine. Poi, per farle passare l’impeto vocazionale, contatta la maestra per stabilire uno speciale ritiro scolastico. La figlia si vendica facendo dispetto all’alta considerazione dello status di famiglia che ha la madre: va a mendicare vestita di stracci, come se fosse di famiglia povera, per giunta dicendo di essere orfana. La madre la punisce con percosse. Dopo aver terminato il ciclo elementare con voti molto alti, è però il padre che le impone di frequentare i tre anni di avviamento al lavoro presso l’Istituto Professionale Femminile Mantegazza. Alda tenta in seguito di essere ammessa al Liceo – Ginnasio Alessandro Manzoni, ma non riesce in quanto non supera la prova di italiano. Nello stesso periodo si dedica allo studio del pianoforte, strumento da lei particolarmente amato. Esordisce come autrice giovanissima, a 15 anni. La sua insegnante la mise in contatto con Giacinto Spagnoletti, il quale divenne la sua guida, valorizzandone il talento. La quindicenne, torna a casa con una recensione di una sua poesia scritta da Spagnoletti; emozionatissima la mostra all’amato padre, che però la prende e straccia in mille pezzi dicendo alla figlia “Ascoltami, cara, la poesia non dà il pane”. Nel 1947, la Merini incontra “le prime ombre della sua mente”e viene internata per un mese nella clinica Villa Turro a Milano, dove le viene diagnosticato un disturbo bipolare. Giacinto Spagnoletti sarà il primo a pubblicarla nel 1950, nell’Antologia della poesia italiana contemporanea 1909-1949. Dal 1950 al 1953 frequenta per lavoro e per amicizia Salvatore Quasimodo. Terminata la difficile relazione con Giorgio Manganelli, il 9 agosto 1953 sposa Ettore Carniti, operaio e sindacalista, in seguito proprietario di alcune panetterie di Milano. Nel 1955 esce la seconda raccolta di versi, intitolata Paura di Dio, con le poesie scritte dal 1947 al ’53, alla quale fa seguito Nozze romane. Nasce in quello stesso anno, poco tempo dopo l’improvvisa morte per infarto del padre, la prima figlia, Emanuela[12]. Al suo pediatra, Pietro De Pascale, dedicherà la raccolta di versi Tu sei Pietro, pubblicata nel 1962 dall’editore Scheiwiller. Nel ’57 nasce la secondogenita Flavia. Dopo la pubblicazione di Tu sei Pietro inizia per lei un difficile periodo di silenzio e di isolamento, dovuto all’internamento nell’Ospedale Psichiatrico, con alcuni ritorni in famiglia, durante i quali nascono altre due figlie, Barbara e Simona, che saranno affidate ad altre famiglie. Si alterneranno in seguito periodi di salute e malattia, probabilmente dovuti al disturbo bipolare. Nel 1979 riprende a scrivere, dando il via ai suoi testi più intensi sulla drammatica e sconvolgente esperienza dell’ospedale psichiatrico, testi contenuti in quello che può essere inteso, “il suo capolavoro”: La Terra Santa con la quale vincerà nel 1993 il Premio Librex Montale. Il 7 luglio 1983 muore il marito; rimasta sola e ignorata dal mondo letterario, cerca inutilmente di diffondere i propri versi, inizia a comunicare telefonicamente con l’anziano poeta Michele Pierri, che, in quel difficile periodo di ritorno nel mondo letterario, aveva dimostrato di apprezzare le sue poesie. Nell’ottobre del 1984 sposa Michele e vanno a vivere a Taranto. È curata e protetta dal marito, che prima di andare in pensione era un medico. Nel luglio del 1986 fa ricorso alle cure del reparto di neurologia dell’Ospedale di Taranto. Sono questi anni fecondi dal punto di vista letterario e di conquista di una certa serenità. Nel 1991 escono Le parole di Alda Merini e Vuoto d’amore a cui fa seguito nel 1992 Ipotenusa d’amore; è questo l’anno in cui le viene assegnato il Premio Librex Montale per la Poesia, premio che la consacra tra i grandi letterati contemporanei. Nel luglio 1995 viene accettata la sua richiesta di poter usufruire del fondo destinato agli artisti che vivono in precarie condizioni economiche previsto dalla Legge Bacchelli, dati i debiti accumulati dall’autrice. Per cinque anni le era stato rifiutato a causa delle due pensioni che già riceveva. Risale al 1996 anche la pubblicazione di un libretto edito da La Vita Felice intitolato Un’anima indocile, composto da poesie vecchie e nuove, da un diario-confessione, da brevi racconti e da un’intervista fatta all’autrice. Sono questi gli anni in cui la sua produzione aforistica diventa molto ricca, nel 1999 in Aforismi e magie, pubblicato da Rizzoli, viene raccolto per la prima volta il meglio di quel genere. Molto importante è il carattere mistico della sua più recente poetica, che è connessa alla prima vena creativa con cui esordì e che aveva in sé una forte componente di misticismo e nascono una serie di libri editi da Frassinelli che hanno come filo conduttore la mistica della poetessa. Nel febbraio del 2004 viene ricoverata all’Ospedale San Paolo di Milano per problemi di salute. Da tutta Italia vengono inviate e-mail a sostegno di un appello lanciato da un amico della scrittrice che richiede aiuto economico. Sorgono numerosi blog telematici e siti internet nei quali viene richiesto l’intervento del sindaco di Milano Gabriele Albertini. Nel marzo del 2004 esce l’album, intitolato Milva canta Merini, che contiene undici motivi cantati da Milva tratti dalle sue poesie, il 21 marzo, presente la stessa poetessa, in occasione del suo settantatreesimo compleanno, viene eseguito un recital al Teatro Strehler di Milano, in occasione della presentazione del disco. Muore il 1º novembre 2009, all’età di 78 anni, a causa di un tumore osseo (sarcoma) all’Ospedale San Paolo di Milano, dopo l’allestimento della camera ardente, aperta il 2 e il 3 del mese, i funerali di Stato sono stati celebrati nel pomeriggio del 4 novembre nel Duomo di Milano.
Alda Merini è stata per molti anni la poetessa dei reietti e degli emarginati, di tutti quegli esclusi di cui è riuscita a esprimere dall’interno la condizione delicata derivante da problematiche estreme di disagio sociale.”Scrivere versi non è dunque qualcosa che astrae dal mondo, ma è vero piuttosto il contrario, giacché il poeta, per essere tale, non può che immergersi nella realtà quotidiana, direi che la poesia è vita e la vita è poesia. Bisogna soprattutto vivere, stare fra la gente, la prima condizione della poesia è la libertà, la gioia. La poesia è gioia, è transfert; non si può fare poesia in un luogo ristretto della dimora del proprio essere.”

“Sorridi donna” di Alda Merini è uno dei più bei canti poetici dedicati alla donna. Con la dolcezza del vocativo “donna” ed il tono deciso dell’imperativo “sorridi” la Merini esorta ogni donna a sorridere sempre, anche di fronte ai dolori ed alle sofferenze della vita. Il sorriso sarà “luce per il tuo cammino”, segno tangibile di forza, coraggio, speranza. “Sorridi sempre […] sorridi comunque”, sono parole forti, scritte da una donna per le donne, rivolte a tutte coloro che sentono di non farcela più, spingendole a non arrendersi, a non lasciarsi vincere dalle violenze subite, a non pensare di essere inferiori.

SORRIDI DONNA

Sorridi donna
sorridi sempre alla vita
anche se lei non ti sorride
Sorridi agli amori finiti
sorridi ai tuoi dolori
sorridi comunque.
Il tuo sorriso sarà
luce per il tuo cammino
faro per naviganti sperduti.
Il tuo sorriso sarà
un bacio di mamma,
un battito d’ali,
un raggio di sole per tutti.

*Che bel messaggio “Sorridi donna!”, un’esortazione che solo una donna forte e consapevole come la Merini poteva fare. Lei che certo, nella vita, ha avuto poco da sorridere eppure dà voce a questo bellissimo invito. Sa che malgrado tutta la sofferenza, il sorriso di una donna è un grande dono, una luce che può rischiarare ogni giornata, un vero raggio di sole ed oggi soprattutto servono tanti sorrisi, quindi “Sorridi donna, sempre”.