Un tempo portavo anche io un nome e in inverno un cappello contro il freddo, poi ho perso la strada, non so perché, sono la donna che alla sera dà da mangiare ai gatti, che sta con tutti un po’ ma non troppo, non amo il mio prossimo come me stessa, all’alba sono l’uomo alla fermata dell’autobus, a scuola, il bambino che tutti picchiano e tutti i suoi picchiatori, sono la donna alla finestra che fuma e quella della casa di fronte che la guarda, sono e qualche volta non sono, sono chi tu vuoi che io sia, eccomi, non so cantare, ma canto
Dove abito
Abito in una casa di antichi odori, il mio vicino è morto tempo fa, mi guarda dalla finestra mentre stendo i panni prima di sera, ci vediamo domani, vivo la vita di tutti, raccolgo briciole e le spargo sul davanzale prima di andare a dormire sempre alla stessa ora
Stefanie Golisch da: L’ affresco del maldestro vivere Quaderni di RebStein, LXXXIV, Giugno 2021.
“… sono sicuro di poter guardare senza angoscia l’uomo di legno dello specchio” Miquel Marti i Pol, Qualcuno che aspetta in “Poesia”, Crocetti editore, n. 17
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guardarsi allo specchio e scoprirsi di legno.
c’è un verità che fa male come l‘herpes sul labbro e una che lascia indifferenti, non ne conosco nessuna che faccia bene
ciò che mi riguarda -ormai da me è lontano ogni gioco con la statua della Divina Accoglienza – ho raccolto in quel ditale secco che lo specchio ha buttato senza immagine oltre il tuo amore
prendersi sul serio e scoprirsi dove “non càpita mai”
Nel freddo fruscio del torrente abbeveratoio di silenzio aspergo di parsimonia la giornata che mi incute lune e ombre. Vetro trasparente e ferro forgiato è il mio andare. Un andare mio inconsapevole e vano. Come tenda da cui filtri il sole proietta il disegno sul muro così è la cocente aspirazione di pace: chiara e tremula dai contorni incompiuti. Eppure mi volgo verso il sole verso un padre che crebbe lucente in me. Eppure dei giorni vado cantando tra i solchi del mio destino. Un destino di morte e pazienza che ricama florilegi, proiezioni d’immenso. Il cielo si abbatte sul canto dell’acqua sul ninnare pacifico del vortice al sasso. Sul binario di dio scivola il vivere prima di slittare anelante all’impazienza del semprevivente.
cammino all’oscuro sento colpi del corpo contro il muro È lì che dorme, che respira, lei
Non vi dirò il suo nome soltanto io la chiamo quando parlo e lei risponde mormorando nello zolfo del sonno. La sua voce è la notte è la finestra laggiù, la luce opaca nel cortile accecato dentro il nero.
Non vi dirò il suo nome soltanto io conosco quello che rinchiude. La porta è chiusa, e dietro ansia, paura e certe volte ballo scatenato urlo di vagina.
Non vi dirò il suo nome è un nome sconosciuto come il mio
vuoi sapere com’è fatto un uomo quante volte ha pianto dietro una porta ha sorriso a qualcuno e il sorriso non é andato a segno? quante volte -crampi allo stomaco per la paura- ha messo in moto senza sapere dove andare?
vuoi sapere in quante pizzerie ha gettato la spugna voglioso di momenti senza pensare momenti passionali dove ad esporsi è l’ anima e il resto sta a guardare?
vuoi sapere quante volte ha pregato Dio invocando le corna di cervo del suo io? quante volte il sangue fremeva di desiderio, i muscoli ridevano nella speranza, e lui si ergeva in tua presenza?
vuoi sapere com’è fatto un uomo? perché é così certo che avrà quel che ha chiesto all’universo? ecco non lo so!
Troppo lungo abbiamo patito sotto il gioco dispotico di noi stessi
*rifiuta di ascoltarti *tronca ogni legame finanziario con te stesso *disconosci membri della tua famiglia e gli amici *boicotta il tuo lavoro *cancellati da tutti i social media *dismetti l’autorità *contesta attivamente la tua coscienza
e c’era una finestrella aperta nel confuso stanzino così le farfalle potevano passare lasciare in volo i loro colori
Un ritorno indietro Anna ad ali da ritrovare come quelle che cercasti di afferrare sulle spalle di tuo figlio prima che se ne impossessassero le foto sul comò
poi nella piccola stanza avresti fatto l’inventario
…e c’era poi brulicante quel corpo che ricordava il desiderio movimenti ora lenti ora violenti
lo sguardo allungava una divisione tra onda e onda tra goccia salmastra che spezza il nucleo e l’invito a scoperture profonde di rotondità dall’altra parte di quel dolce mare
Ho stipulato un contratto con l’acquedotto di vita per la fornitura quotidiana. La mia non è la vostra morte di chi sarà non so.
Non ho voltato le spalle al giorno nemmeno alla notte Ho stanziato uno sbaraglio per riavermi, una prepotenza d’unghie e denti
Non sei tu a mancarmi è quell’atmosfera da tecnica virale, da stufa in calore in cui mi avviluppavi
Come dimenticare le trappole d’essenza l’essermi in te desiderata l’averti in me concepito tante e tante volte come un rubinetto gocciolante? irreparabilmente
apro la pioggia mi guarda come una tragedia voltata a contare una per una le lettere dei nostri nomi e noi: soliloqui di un ventriloquo! Il corpo è un ponte su cui passa leggera morte
Ora dinnanzi ai frutteti della morte mi congedo da te cui non seppi mai dire no né dire si
Che succede, chi arriva? È tardi sai per cominciare e anche ormai per continuare Antico è il vento che ci avvolse fin quando tenni la mano nella tua e c’era sangue caldo che passava da te a me
ora dinnanzi ai frutteti della morte supera il confine e vieni
c’era il vestito verdeblù che indossavi spesso ed era anche un po’ mio: in quelle tasche infilavo come caramelle i tuoi sussurri a me per rubarli all’angoscia dell’ infanzia mia che s’attardava e adesso impigliata tra il passato e il desiderio urlo che li rivorrei
ora dinnanzi ai frutteti della morte a te chiedo di aprire le saracinesche della mia anima di carne
Calze nere pesanti ad affrontare il giorno senza pensare, senza volere.
Ti spezza le ossa questa fatica e non c’è un treno che ti porti via, donna dagli occhi curvi. Silenziosa mestizia afferri nelle mani tutte le stagioni.
Dentro un cartoccio di antiche illusioni dalla buccia sottile, la bionda nuca di ragazzina fa ancora resistenza a scomparire
Tu l’assecondi complice segreta ma non ve lo direte mai. Solo scarpe slacciate lasci a liberare i piedi per fuggire.
Ringrazio Giuseppe Cerbino e Federico Preziosi che nella trasmissione “la Parola da casa” del 26/4/24 mi hanno dato modo di conoscere la poesia di Jozefina Dautbegović. Nata in Bosnia nel 1948, fino allo scoppio della guerra nella ex Jugoslavia è vissuta a Doboj. Nel 1992; all’inizio della guerra, si rifugia con il marito a Zagabria, dove vivrà fino alla morte avvenuta nel 2008. Il cuore del suo lavoro poetico è “la casa” che diviene anche “la patria”. L’una e l’altra è obbligata a lasciare per la guerra, vivendo per il resto dei suoi giorni la tragedia dell’esilio. In Italia sono uscite due raccolte a suo nome: La televisione di Dio, Cicero editore 2010, Il tempo degli spaventapasseri, (cura e traduzione di Neval Berber), Molesini editore 2022 Alla bellezza della sua poesia desidero rendere omaggio con 2 suoi testi
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Il trasloco
Da me ci si aspetta una decisione tremenda fare ordine buttare via le cose superflue al momento del trasloco
Essere quella che le chiamerà per nome Uno dopo l’altra (Non riesco a sottrarmi all’impressione Che in questo modo si compia un tradimento)
Devo puntare il dito afferrare con la mano e mettere da parte Quella gonna fortunata con la quale andavo dal dentista e dal ginecologo quelle scarpe che da sole conoscevano la strada fino a casa la tenda dietro la quale eravamo protetti così bene dai lampioni curiosi Quel tuo consumato maglione Pierre Cardin che da profugo hai ricevuto in dono dalla Croce rossa insieme alla lettera piena di buoni auguri da parte di una famiglia francese che non ha voluto (che delicatezza) firmarsi per non obbligarti alla gratitudine
Com’è tremendo essere colui che indica col dito Poi guardare come gli operai della nettezza urbana portano via tutti i ricordi li macinano insieme a quelli degli altri e li portano all’inceneritore sopra il quale qualche attimo più tardi si alzerà una colonna grigia di fumo (cosa mi ricorda tutto questo?) Le anime dei nostri oggetti ricadranno su di noi sotto forma di smog urbano
Emetto condanne a morte Mi sento come un boia Non so se sarebbe d’aiuto mettermi in testa un cappuccio nero come gli altri assassini affinché gli oggetti non mi riconoscano.
Zagabria, 14/IX/2002
La compravendita
Io vendo la casa con tutto quello che per casa si intende Tu compri solo un tetto sopra la testa
Io vendo la soffitta piena di piccioni e fasci di luce che a strisce gialle si insinuano tra le tegole tu compri uno spazio adatto per gli oggetti superflui
Io vendo tutte le cene con gli amici le loro voci sonore Tu compri abbastanza metri quadri dove poter sistemare una cucina italiana dal design moderno
Io vendo la vista sulle colline viola e trent’anni di raggi di sole moltiplicati per 365 giorni all’anno senza contare quelli bisestili tu compri una finestra rivolta a est
Io vendo latte di luna il suo argento fuso versato sui tetti dei vicini Tu compri soltanto una veranda adatta per asciugare i panni
Della camera da letto non voglio parlare per educazione Ma posso facilmente supporre quello che tu compreresti
Vendo anche il suono nervoso dei miei tacchi che andavano avanti e indietro avanti e indietro su e giù giù e su
mentre aspettavo i suoi passi per le scale nel soggiorno
Tu compri il parquet di quercia ben conservato e mi chiedi quanto costano i ricordi a metro quadro?