lucia triolo; una domenica di poesia con Stefanie Golisch

Scarabocchio 

Un tempo portavo anche io un nome e in inverno un cappello contro il freddo, poi ho perso la strada, non so perché, sono la donna che alla sera dà da mangiare ai gatti, che sta con tutti un po’ ma non troppo, non amo il mio prossimo come me stessa, all’alba sono l’uomo alla fermata dell’autobus, a scuola, il bambino che tutti picchiano e tutti i suoi picchiatori, sono la donna alla finestra che fuma e quella della casa di fronte che la guarda, sono e qualche volta non sono, sono chi tu vuoi che io sia, eccomi, non so cantare, ma canto 

Dove abito 

Abito in una casa di antichi odori, il mio vicino
è morto tempo fa, mi guarda dalla finestra mentre stendo i panni prima di sera, ci vediamo domani, vivo la vita di tutti, raccolgo briciole e le spargo sul davanzale prima di andare a dormire sempre alla stessa ora 

Stefanie Golisch
da: L’ affresco del maldestro vivere
Quaderni di RebStein, LXXXIV, Giugno 2021.

Lucia Triolo: Pinocchio

“… sono sicuro 
di poter guardare senza angoscia
l’uomo di legno dello specchio”
Miquel Marti i Pol, Qualcuno che aspetta in “Poesia”, Crocetti editore, n. 17

guardarsi allo specchio e 
scoprirsi di legno.

c’è un verità che 
fa male
come l‘herpes sul labbro
e una che lascia 
indifferenti,
non ne conosco 
nessuna che faccia bene

(e la tua fata più intima
sorride)

spero che il cielo
non mi veda
come mi vedo io

è a questo, in fondo,
che servono
le nuvole

lucia triolo: una Domenica di poesia

Sul binario di Dio

Nel freddo fruscio del torrente 
abbeveratoio di silenzio
aspergo di parsimonia la giornata
che mi incute lune e ombre.
Vetro trasparente e ferro forgiato 
è il mio andare. Un andare mio
inconsapevole e vano.
Come  tenda da cui filtri il sole
proietta il disegno sul muro
così è la cocente aspirazione di pace:
chiara e tremula dai contorni incompiuti.
Eppure mi volgo verso il sole
verso un padre che crebbe lucente in
me.
Eppure dei giorni vado cantando 
tra i solchi 
del mio destino.  Un destino
di morte e pazienza che ricama
florilegi, proiezioni d’immenso.
Il cielo si abbatte sul canto dell’acqua
sul ninnare pacifico del vortice al sasso.
Sul binario di dio scivola il vivere prima 
di slittare anelante 
all’impazienza del semprevivente.

Lucia Lascialfari

Lucia Triolo: una Domenica di poesia

Non vi dirò il suo nome

cammino all’oscuro
sento colpi del corpo contro il muro
È lì che dorme, che respira, lei

Non vi dirò il suo nome
soltanto io la chiamo              quando parlo
e lei risponde mormorando
nello zolfo del sonno.
La sua voce è la notte
è la finestra laggiù,
la luce opaca
nel cortile accecato dentro il nero.

Non vi dirò il suo nome
soltanto io conosco
quello che rinchiude.
La porta è chiusa, e dietro
ansia, paura e certe volte
ballo scatenato
urlo di vagina.

Non vi dirò il suo nome
è un nome sconosciuto
come il mio

Mauro Pesce

Lucia Triolo: lettera firmata

vi condanno ad essere voi
per il resto della vita;

“voi” 
non  “voi stessi”
in tonfi d’identità
(non si cavalcano andirivieni
in uteri di arcobaleni)

vi condanno a recitare per me:
sarò insieme pubblico 
e copione

non so chi di voi
renderò immortale e
chi consacrerò alla noia di 
corone funerarie

il mio biglietto
plauso o sberleffo
lo pagate voi

   

vostra  aff.
Anima

Lucia Triolo: com’è fatto un uomo

vuoi sapere com’è fatto un uomo
quante volte 
ha pianto dietro una porta
ha sorriso a qualcuno
e il sorriso non é andato a segno?
quante volte
-crampi allo stomaco per la paura-
ha messo in moto 
senza sapere dove andare?

vuoi sapere in quante 
pizzerie ha gettato la spugna
voglioso di momenti senza pensare 
momenti passionali
dove ad esporsi è l’ anima e il resto 
sta a guardare?

vuoi sapere quante volte ha 
pregato Dio
invocando le corna di cervo 
del suo io?
quante volte 
il sangue fremeva di desiderio,
i muscoli ridevano nella speranza,
e lui si ergeva in tua presenza?

vuoi sapere com’è fatto un uomo?
perché é così certo che avrà quel 
che ha chiesto all’universo?
ecco
non lo so!

ma se avessi il tuo numero, 
ti telefonerei

——–

lucia triolo: una Domenica di poesia

Giornata di sciopero da se stessi

Troppo lungo abbiamo patito sotto il gioco dispotico di noi 
stessi 

*rifiuta di ascoltarti 
*tronca ogni legame finanziario con te stesso 
*disconosci membri della tua famiglia e gli amici 
*boicotta il tuo lavoro 
*cancellati da tutti i social media 
*dismetti l’autorità 
*contesta attivamente la tua coscienza 

ricorda l’io é il problema

Charles Bernstein, da Eco

Lucia triolo; il giocattolo rotto

“(non è più possibile
essere al contempo umani e vivi)”
da: M. Atwood: “Rifiuti di appropriarti”
in Esercizi di potere

E’ troppo tardi 
e non era alla tua festa
ma…

la prossima volta che
accogliamo il respiro
dovremo scegliere prima
cosa fare a pezzi 
di ciò che è “noi”

forse non è troppo tardi
il giocattolo rotto
…  ha ancora voglia

nella vita c’è caduto
con tutte le 
scarpe.

Lucia Triolo: gradini

“un gradino di pietra, ancor lontano dal tuo piede,
fa dei cenni” 
(P. Celan, “Impaurito dal lampo” da Luce coatta)

sollevami la veste
più in alto sui 
gradini
dove i raccolti spengono
le sciagure
lì la mia nascita
non sa che farsene della morte

stringimi
tra le tue parole
senza voce

dorme stasera la notte
indaffarata a sognare
forse 
nel suo respiro
fa capolino Dio.

Lucia Triolo: stillicidio

Ho stipulato un contratto con
l’acquedotto di vita per la fornitura
quotidiana.
La mia non è la vostra morte
di chi sarà non so.

Non ho voltato le spalle al giorno
nemmeno alla notte
Ho stanziato uno sbaraglio
per riavermi,
una prepotenza d’unghie e denti

Non sei tu a mancarmi
è quell’atmosfera da tecnica virale,
da stufa in calore
in cui mi avviluppavi

Come dimenticare le trappole d’essenza
l’essermi in te desiderata
l’averti in me concepito tante e tante volte
come un rubinetto gocciolante?
irreparabilmente

Lucia Triolo: nella mia storia

entro nella mia storia  da
una porta chiusa

forse perché nelle stanze di casa
-momenti di vita squinternati
bottiglie vuote di ogni convenzione-
non c’è più luce
di quanta ce ne fosse all’inizio

e quanti nomi ancora da pronunciare
tra il mio in rovina
e il tuo 
che si allontana sempre più.

ingabbiata baruffa:
presa di coscienza non è 
presa di distanza.

la mano di chi?
mi afferra ora il polso.

Lucia Triolo: infanzia

Ora dinnanzi ai frutteti della morte
mi congedo da te cui non seppi mai
dire no né dire si

Che succede, chi arriva? 
È tardi sai per cominciare
e anche ormai per continuare
Antico è il vento che ci avvolse
fin quando tenni la mano
nella tua e c’era sangue caldo che passava
da te a me

ora dinnanzi
ai frutteti della morte
supera il confine e vieni

c’era il vestito verdeblù che indossavi spesso
ed era anche un po’ mio:
in quelle tasche infilavo come caramelle
i tuoi sussurri a me
per rubarli all’angoscia dell’ infanzia
mia
che s’attardava
e adesso impigliata tra il passato e il desiderio
urlo che li rivorrei

ora dinnanzi
ai frutteti della morte
a te chiedo di aprire le saracinesche della mia
anima di carne

Salta quel varco
Siimi madre già
nell’al di là

Lucia Triolo: condominio di misteri

parlavi
a pezzi della tua morte
abitavano il tuo corpo giallo:
l’ allampanato condominio
di misteri
dove lo sbruffone si diverte a suonare
i citofoni

rabbia esplosa al vento
continuava a girare a girare
a spazzarne via
i risvolti dall’ultima pelle che ancora li ricopriva
neanche fosse erba secca

restavano solo pezzi della
tua morte
scaglie di discorsi come cavalli
non sellati al galoppo

e quell’ inutile fame
di vita

Lucia Triolo: calze nere

Calze nere pesanti
ad affrontare il giorno
senza pensare,
senza volere.

Ti spezza le ossa questa fatica
e non c’è un treno che ti porti via,
donna dagli occhi curvi.
Silenziosa mestizia afferri nelle mani
tutte le stagioni. 

Dentro un cartoccio di
antiche illusioni dalla buccia sottile,
la bionda nuca di ragazzina
fa ancora resistenza
a scomparire

Tu l’assecondi 
complice segreta
ma non ve lo direte mai.
Solo scarpe slacciate lasci
a liberare i piedi
per fuggire.

Lucia Triolo è con Jozefina Dautbecović

Ringrazio Giuseppe Cerbino e Federico Preziosi che nella trasmissione “la Parola da casa” del 26/4/24 mi hanno dato modo di conoscere la poesia di Jozefina Dautbegović.
Nata in Bosnia nel 1948, fino allo scoppio della guerra nella ex Jugoslavia è vissuta a Doboj. Nel 1992; all’inizio della guerra, si rifugia con il marito a Zagabria, dove vivrà fino alla morte avvenuta nel 2008.
Il cuore del suo lavoro poetico è “la casa” che diviene anche “la patria”. L’una e l’altra è obbligata a lasciare per la guerra, vivendo per il resto dei suoi giorni la tragedia dell’esilio. In Italia sono uscite due raccolte a suo nome: La televisione di Dio, Cicero editore 2010,  Il tempo degli spaventapasseri, (cura e traduzione di Neval Berber), Molesini editore 2022 
Alla bellezza della sua poesia desidero rendere omaggio con 2  suoi testi

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Il trasloco

Da me ci si aspetta una decisione tremenda
fare ordine
buttare via le cose superflue
al momento del trasloco 

Essere quella che le chiamerà per nome
Uno dopo l’altra
(Non riesco a sottrarmi all’impressione
Che in questo modo si compia un tradimento) 

Devo puntare il dito
afferrare con la mano
e mettere da parte
Quella gonna fortunata con la quale andavo
dal dentista e dal ginecologo
quelle scarpe che da sole conoscevano la strada fino a casa
la tenda dietro la quale eravamo
protetti così bene dai lampioni curiosi
Quel tuo consumato maglione Pierre Cardin
che da profugo hai ricevuto in dono dalla Croce rossa
insieme alla lettera piena di buoni auguri
da parte di una famiglia francese
che non ha voluto (che delicatezza) firmarsi
per non obbligarti alla gratitudine 

Com’è tremendo essere colui che indica col dito
Poi guardare come gli operai della nettezza urbana
portano via tutti i ricordi
li macinano insieme a quelli degli altri e li portano all’inceneritore
sopra il quale qualche attimo più tardi
si alzerà una colonna grigia di fumo
(cosa mi ricorda tutto questo?)
Le anime dei nostri oggetti ricadranno su di noi
sotto forma di smog urbano 

Emetto condanne a morte
Mi sento come un boia
Non so se sarebbe d’aiuto
mettermi in testa un cappuccio nero come gli altri assassini
affinché gli oggetti non mi riconoscano. 

Zagabria, 14/IX/2002 

La compravendita 

Io vendo la casa con tutto quello che per casa
si intende
Tu compri solo un tetto sopra la testa 

Io vendo la soffitta piena di piccioni e fasci di luce
che a strisce gialle si insinuano tra le tegole
tu compri uno spazio adatto per gli oggetti superflui 

Io vendo tutte le cene con gli amici le loro voci sonore
Tu compri abbastanza metri quadri dove poter sistemare
una cucina italiana dal design moderno 

Io vendo la vista sulle colline viola
e trent’anni di raggi di sole moltiplicati per 365 giorni all’anno
senza contare quelli bisestili
tu compri una finestra rivolta a est 

Io vendo latte di luna il suo argento fuso
versato sui tetti dei vicini
Tu compri soltanto una veranda adatta per asciugare i panni 

Della camera da letto non voglio parlare
per educazione
Ma posso facilmente supporre quello che tu compreresti 

Vendo anche il suono nervoso dei miei tacchi che andavano
avanti e indietro avanti e indietro
su e giù
giù e su 

mentre aspettavo i suoi passi per le scale
nel soggiorno 

Tu compri il parquet di quercia ben conservato
e mi chiedi
quanto costano i ricordi
a metro quadro? 

Zagabria, 3/III/ 2003 

Lucia Triolo: l’ ombra e il vento

l’ombra si disincrosta
dei suoi futuri
si raschia di dosso
i nomi che evocano forme
non legge i suoi volti,
li ritaglia di profilo

-suonano altrove le parole
che ho lasciate
lungo il viaggio-

ma anche le ombre sanno:
narrano di cammini graffianti
custodiscono le
allegorie delle speranze
non amano gallerie 

-suoneranno altrove 
le parole che ho dimenticate
finito il viaggio-

Immobile e altera
l’ombra
resiste al vento

fu allora: mi accorsi
che ti batteva
il cuore