L’angoscia di Seneca, Lorenzo Meligrana

LA PENNA DI LORENZ

Quella di Seneca è una tra le più complesse e suggestive figure che l’antichità classica ci abbia lasciato in eredità: una personalità poliedrica, con molti tratti che l’avvicinano al mondo moderno.

Seguace della dottrina stoica, Seneca s’impose un ideale di vita ascetica, rigorosa sul piano morale come nettamente emerge dai suoi numerosi scritti i quali però sono in aperto contrasto rispetto al ritratto che di lui forniscono le fonti storiche (Tacito, Svetonio e Cassio Dione).

Fu, come dicono le fonti storiche sopra richiamate, bersaglio di ingiuriosi e velenosi attacchi da parte di molti che gli rinfacciavano di amare, più di ogni altra cosa, il denaro e gli agi di una “dolce” vita. 

Nel nobile discorso al Senato, riportato da Tacito(Annales, XIV, 53-54), Seneca prende atto delle accuse e ringrazia Nerone per le smisurate ricchezze elargitegli, ma, orgogliosamente, si dice pronto a restituirle: “Nec me in paupertatem detrudam, sed traditis quorum fulgore praestringor, quod temporis hortorum aut villarum curae seponitur, in animum revocabo”

Traduzione: “Certo, non vorrò ridurmi in povertà, ma consegnate [quelle ricchezze] il cui splendore mi abbaglia, tornerò a dedicare allo spirito quel tempo prima riservato alla cura di ville e giardini” – Tacito, Annales, XIV, 53-54.

Quanto, poi, alle accuse di non corrispondenza tra le affermazioni della dottrina e gli atti della vita e di incoerenza tra le parole e i fatti, egli rispondeva:

Aliter, inquis, “lòqueris, aliter vivis”. “Hoc, malignissima capita et optimo cuique inimicissima, Platoni obiectum est, obiectum Epicuro, obiectum Zenoni; omnes enim isti dicebant non quemadmodum ipsi viverent, sed quemadmodum esset ipsis vivendum. De virtute, non de me loquor; et, cum vitiis convicium facio, in primis meis facio: cum potuero, vivam quomodo oportet. Nec malignitas me ista multo veneno tincta deterrebit ab optimis; ne virus quidem istud […] me impediet, quo minus perseverem laudare vitam, non quam ago, sed quam agendam scio, quo minus virtutem adorem et ex intervallo ingenti reptabundus sequar”.

Traduzione: “Tu, dici, parli in un modo e vivi in un altro”; ma questa critica, o esseri maligni e nemici di chiunque è migliore, è stata rivolta a Platone, a Epicuro e a Zenone; costoro, infatti, non dicevano del modo come essi stessi vivessero, ma del modo come dovessero vivere. Io parlo della virtù, non di me; e quando lotto contro i vizi, lo faccio in primo luogo contro i miei: quando potrò farlo, vivrò come si deve. E non sarà certo questa malignità, intinta di molto veleno, a distrarmi dagli ottimi (propositi) ;e neppure questo vostro veleno […] mi impedirà di continuare a lodare non già la vita che conduco ma quella che so doversi condurre; e (non mi impedirà) tanto meno di adorare la virtù e di seguirla sia pure errabondo da una grande distanza” – Seneca, De vita beata, XVIII, 1-3 (La traduzione è mia).

C’è in queste nobili parole la volontà di mettere a nudo la propria anima, confessandone le debolezze e le contraddizioni. “C’è, come annota Guido De Ruggiero, una tensione spirituale a volte così dolorosa che il lettore non può appagarsi del giudizio negativo e sprezzante dei critici ed è portato ad intuire in quel contrasto […] un problema da risolvere, piuttosto che una soluzione già pronta”(Guido De Ruggiero, Angoscia di Seneca, sta in “La Rassegna d’Italia”, Gentile Editore, Milano, 1946).

Certo, evidenti sono in Seneca le contraddizioni, ma, a mio avviso, hanno torto quanti gli rimproverano una deplorevole incoerenza tra il dire e il fare, perché non tengono conto del fatto che Seneca non era soltanto filosofo e scrittore, ma uomo di Stato, soggetto per un certo tempo a tutte le esigenze e le convenienze della politica, spesso costretto a scendere a compromessi o a patti “machiavellici” e sicuramente portato più volte a consentire in cose da cui dissentiva la sua coscienza ma che riteneva necessarie ad un governo che tendesse ad essere “buono”.

In questa prospettiva, io credo, vanno inquadrate e valutate le contraddizioni di Seneca, i cui scritti però sono sempre il frutto di un’esperienza vissuta che va oltre il dato personale e si rivolgono non all’uomo singolo, ma all’umanità intera: che è poi l’insegnamento più fecondo che viene dalla dottrina stoica: quello di aiutare gli uomini a vivere bene, senza perdersi dietro fallaci illusioni e perseguendo l’unico bene, il bene supremo che risiede nella virtù, non nella ricerca del piacere.

Sono temi che avvicinano l’etica di Seneca alla morale cristiana; se non che in Seneca la soluzione dei problemi va ricercata nella sapienza umana piuttosto che in una salvezza che viene dall’alto dei cieli. Quanto alla ricchezza, egli sostiene che essa è uno strumento da usare con saggezza e liberalità, ovviamente per vivere al meglio, ma soprattutto per diffondere il bene ed aiutare i poveri e i deboli: un consiglio/un monito rivolto prima di tutto a se stesso, ma anche un invito ad essere generosi e rispettosi della vita umana, al di là di ogni possibile distinzione sociale.

Di qui, l’insegnamento rivoluzionario di Seneca, il quale fu il primo ad esprimere una ferma condanna contro l’istituto giuridico della schiavitù. Celebre, in tale ottica, il passo sugli schiavi: “Servi sunt: immo homines. Servi sunt: immo contubernales. Servi sunt: immo umiles amici. Servi sunt: immo conservi, si cogitaveris tantundem in utrosque licere fortunam” (Seneca,Epistula ad Lucilium, XLII).

Traduzione: “Sono schiavi: no, sono uomini. Sono schiavi: no, sono compagni di vita. Sono schiavi: no, sono umili amici. Sono schiavi: no, sono piuttosto compagni di schiavitù, se pensi che la fortuna sia concessa ad entrambi nella stessa misura (La traduzione è mia).

Come tutti i grandi uomini, Seneca ebbe le sue debolezze e i suoi vizi. Fu per tanti anni maestro e consigliere di Nerone e conobbe tutti gli intrighi, le perversioni e i crimini di una corte corrotta. Accusato di adulterio con Giulia Livilla (moglie di Marco Vinicio, figlia  di Germanico e di Agrippina maggiore e una delle tre sorelle di Caligola), conobbe le amarezze dell’esilio in Corsica; esilio sopportato con grande dignità, come testimoniano le pagine della “Consolatio ad Helviam matrem” in cui egli si sforza di mostrare alla madre che, per il saggio, non esiste l’esilio né gli altri mali.

Mostrò sempre un animo distaccato di fronte alle velenose e ingiuriose accuse che i suoi nemici gli rivolsero nel corso della sua non breve attività politica. Ritiratosi a vita privata nel 62 d.C. e accusato di avere preso parte alla Congiura dei Pisoni per far fuori Nerone, fu costretto da quest’ultimo a darsi la morte (65 d.C.), da lui affrontata con un coraggio e con una serenità che ci ricordano quella di Socrate. Il racconto che ne fa Tacito (Annales, XV, 63-64), richiama per molti tratti le pagine immortali del “Fedone” di Platone.

In conclusione, quella di Seneca fu nel complesso una vita esemplare, fino all’ultimo dei suoi giorni. “Ego certe -scriveva a Lucilio nell’Epistola XXVI– velut appropinquet experimentum, et ille laturus sententiam de omnibus annis meis dies venerit, ita me observo et àlloquor: nihil est, inquam, adhuc, quod aut rebus, aut verbis exhìbimus. Levia sunt ista et fallacia pignora animi, multisque involuta lenociniis: quid profecerim, morti crediturus sum. Non timide itaque componor ad illum diem, quo remotis strophis ac fucis, de me iudicaturus sum, utrum loquar fortia, an sentiam: numquid simulatio fuerit et minus, quidquid contra fortunam jactavi verborum contumacium […] Quid egeris, tunc apparebit, cum animam ages. Accipio conditionem, non reformido iudicium”

traduzione: “Vicino al momento della prova, vicino a quell’ultimo giorno che deciderà di tutti i miei anni, così veglio su me stesso e mi parlo. Fino ad oggi, dico, non ho fatto nulla di sicuro né con gli atti né con le parole, indizi lievi ed ingannevoli dell’animo. Alla morte affiderò il mio profitto. Io mi preparo coraggiosamente a quel giorno in cui, messo da parte ogni artificio, giudicherò di me stesso e farò vedere se il mio coraggio era nel cuore o sulle labbra, se fu simulazione o commedia la mia sfida gettata alla fortuna […] Le opere tue appariranno solo all’ultimo respiro. Io accetto questa condizione: non temo il tribunale della morte“. (Traduzione di Concetto Marchesi, Storia della letteratura latina, vol. II, pag. 239).

E con le parole del Marchesi voglio chiudere questo mio intervento: “Seneca è lo scrittore più moderno della letteratura latina: ed è l’unico che ci parli ancora come fosse vivo nella lingua morta di Roma.[…] Nessuno meglio di lui nel mondo antico seppe parlare a tutti gli uomini dei casi della vita e della morte e nessuno seppe operare grandi cose e scrivere più grandi parole (Concetto Marchesi, Storia della letteratura latina, vol. II, Casa Editrice Giuseppe Principato, Milano, 1957).

Sul concetto di perdono, Lorenzo Meligrana

LA PENNA DI LORENZ

Il perdono è un sentimento nobile e un atto puramente umanitario col quale chi ha subito un danno o ha ricevuto un torto rinuncia ad ogni forma di vendetta o di punizione, con ciò cancellando nel proprio cuore anche ogni motivo di rancore o di risentimento. 

Ma quando si è di fronte allo spettacolo delle macerie di intere città, di villaggi e di paesi rasi al suolo o di fronte alle centinaia o alle migliaia di morti disseminati e abbandonati lungo le strade e nelle piazze o ammassati e sepolti in fosse comuni, allora è davvero difficile trovare parole di perdono o di giustificazione nei confronti degli autori di così orribili massacri. 

Come si fa a perdonare i nazisti hitleriani o Stalin e i suoi accoliti per gli atroci delitti perpetrati ai danni di cittadini inermi, colpevoli solo di essere ebrei, negri, omosessuali o dissenzienti e non allineati al regime? Si possono perdonare i nostri persecutori? Si possono amare i nostri nemici? 

Su questo tema c’è nel Vangelo di Luca un passo famoso (Luca, 6, 27-28 e 38) nel quale si sottolinea la forza vivificatrice dell’amore “che move il sole e l’altre stelle”(come direbbe Dante): “Diligite inimicos vestros, benefàcite his, qui oderunt vos. Benedìcite maledicentibus vobis, et orate pro calumniantibus vos. Et qui te pèrcutit in maxillam, praebe et alteram […]; dimìttite et dimittèmini”(Amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi maltrattano. E a chi ti percuote sulla guancia, porgi anche l’altra […]; perdonate e vi sarà perdonato). 

Ma, dello stesso Luca, c’è un altro passo, altrettanto famoso (23, 33-35), che vorrei citare: “Postquam venerunt in locum qui vocatur Calvaria, ibi crucifixerunt eum et latrones, unum a dextris et alterum a sinistris. Jesus autem dicebat: Pater, dimitte illis; non enim sciunt quid faciunt” (Quando giunsero in un luogo chiamato Calvario, ivi crocefissero lui e i due malfattori, uno a destra, l’altro a sinistra; Gesù diceva: Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno); parole da lui pronunciate durante la crocifissione, quando sente i chiodi trafiggergli i polsi e i piedi: momenti terribili rispetto ai quali ci si sarebbe aspettato un urlo disperato, di rabbia e di dolore; e invece Gesù dice le parole sopra riportate, con ciò aderendo pienamente al suo comandamento più difficile: l’amore, appunto, per i nemici, per i quali non solo egli implora il perdono ma dice anche il motivo di quella scelta. 

Sicuramente nelle parole del Cristo, “non sanno quello che fanno”, vi era un richiamo al “Giudizio finale” al quale saranno sottoposti malvagi e violenti, ma fuori di questa visione escatologica, credo che qui, sulla Terra, le persone che fanno il male siano consapevoli di “quello che fanno”. Ma quando il male, commesso intenzionalmente, si chiama sterminio, genocidio o crimine contro l’umanità, allora ritengo che sia assolutamente da escludere qualsiasi forma di perdono. Si possono perdonare i nazisti per quello che hanno fatto ad Aushwitz, a Buchenwald, a Dachau, a Mauthausen? 

La mia risposta è: no! Non si possono in alcun modo perdonare né si possono mai dimenticare le atrocità da loro commesse; e tuttavia dalla lettura dei testi del Nuovo Testamento e del Talmud si può evincere che il perdono possa essere concesso a chi ha commesso il male, a patto che costui si penta dell’atto compiuto. 

Rispetto ma non sono assolutamente d’accordo con quanto sta scritto, intanto perché il perdono, a mio giudizio, non è un atto che possa essere delegato, e poi perché nessuno di noi ha il diritto di perdonare in nome dei nostri morti; sono stati infatti loro ad essere brutalmente privati della vita, per cui solo loro potrebbero concedere il perdono, che è un atto di grande amore, un “dono” che non può -e non deve- assolutamente essere accordato ai macellai e ai massacratori della Storia.

E dico questo, a conclusione di questa mia riflessione e a commento di alcuni versi della bellissima lirica di Salvatore Quasimodo, “Laude”, in cui, al figlio morto, che le chiede un gesto di pietà e di misericordia, la madre risponde con lapidarie parole di condanna, senza alcuna possibilità di appello: 

“T’hanno scavato gli occhi, rotto
le mani per un nome da tradire.
Mostrami gli occhi, dammi qui le mani:
sei morto, figlio! Perché tu sei morto
puoi perdonare: figlio, figlio, figlio!”
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Il futuro della poesia, Lorenzo Meligrana

La penna di Lorenz

“È ancora possibile la poesia?” è il titolo del discorso pronunziato da Eugenio Montale in occasione del ricevimento del premio Nobel per la letteratura (1975). La risposta, in estrema sintesi, è affermativa nel senso che per il poeta genovese la vera poesia non è una merce, per cui essa “può dormire i suoi sonni tranquilla. Un giorno si risveglierà”.

Ma che cos’è per me la poesia? Non ne darò una definizione scegliendo tra le due abusate categorie entro le quali ancora oggi molti critici letterari “imprigionano” un poeta; non mi preoccuperò, in altre parole, di accertare se quella di un poeta sia una poesia impegnata (legata alla realtà esterna o al pensiero) o una poesia pura, sentimentale e affidata esclusivamente al libero canto della (sua) anima. 

È una questione, detto con franchezza, che per me non si pone, giacché la poesia, quale aristocratica espressione e dimensione dello spirito umano, è sempre “engagée”, come dicono i francesi; è sempre legata ad un bisogno di verità; è sempre impegnata a cantare la vita, la felicità, il dolore, il piacere, il pianto, l’amore e la morte; è sempre pronta ed attenta ad esaltare i valori della vita contro la cultura della violenza e della morte; è sempre ricerca della luce e della pace, specie in un mondo dominato da oscure avvisaglie di tragedia e dal pericolo, mai del tutto scongiurato (vedi la disastrosa guerra tra Russia e Ucraina) di nuovi ed aberranti olocausti.

Rispetto a tutto questo, gli uomini del nostro tempo hanno un gran bisogno di poesia; ne hanno bisogno per uscire dalla loro limitatezza, per varcare la “siepe” e dare forma al loro ricco e variegato mondo interiore; per vedere realizzati quei sogni, quei desideri e quelle aspirazioni che la realtà spesso vanifica o rende impossibili. 

Così intesa, la poesia diventa uno spazio privilegiato in cui, attraverso la creazione di spazi e di mondi nuovi, è possibile sopravvivere al montaliano male di vivere e resistere alla fuga irreparabile del tempo. 

C’è oggi, ripeto, un gran bisogno di poesia; oggi, soprattutto, in un momento particolare in cui la Società è attraversata da un generale disorientamento e da una profonda incertezza rispetto ai quali la poesia si configura come una specie di rifugio alla nostra disperazione.

In questa prospettiva, l’impegno del poeta dovrà continuare ad essere quello di esplorare l’anima dell’uomo e del mondo e di renderne universali ed attuali i sentimenti e i valori; certo, non è l’impegno nel senso tradizionale, nel senso cioè di un legame o di un servizio da offrire ad un partito o ad uno schieramento politico.

Il poeta non ha padroni da servire né verità da affermare; egli è uno spirito libero, sempre insoddisfatto, insicuro, qualche volta contraddittorio ma sempre imprevedibile. Immerso nel suo tempo e uomo tra gli uomini, il poeta è il custode dei “tesori” del mondo; è la sentinella che veglia vigile e paziente sulla inalterabilità dei sentimenti e sulla inviolabilità dei grandi valori che, grazie alla sua voce, potranno continuare a vivere anche sulle macerie della Storia. 

Non ci sarà dunque la fine della poesia, destinata invece a “vincere di mille secoli il silenzio”, proprio perché essa, oltre ad essere l’unica vera ricchezza resistente ai devastatori della Storia, è la voce della Natura che parla attraverso la voce dei poeti. 

Forse, solo quando per colpa dell’uomo cibernetico il tempo, lo spazio e la materia saranno divorati dalla morte cosmica e tutto sarà ricomposto nella palla di fuoco delle origini, forse solo allora potrà essere decretata la fine della poesia; ma si tratterà pur sempre di una fine provvisoria, perché sono sicuro che da quello sfacelo risorgerà ancora una volta l’alba della vita e per la poesia ricomincerà l’antica fatica di Sisifo.