Oggi voglio dedicare questo spazio alla canzone d’autore italiana. Il cantautore a cui desidero rendere omaggio è Roberto Vecchioni. Paroliere, poeta e musicista, non si può non menzionare la sua più grande passione: l’insegnamento. Ha lavorato, infatti, come docente di greco e latino in vari licei classici, tra Milano e Brescia, dal 1969 al 2004. Ha ottenuto, in seguito, la cattedra di docente universitario presso l’ Università di Torino, dove ha insegnato per tre anni ” Forme di poesia in musica”.
Di origini napoletane, nasce a Carate Brianza il 25 giugno 1943. Ha pubblicato più di 25 album e venduto oltre 6 milioni di copie. Raggiunge l’apice del successo nel 1977 con l’album “Samarcanda“, a cui seguiranno “Robinson” nel 1980 e “Milady” nel 1989. Nel 1992, grazie al brano “Voglio una donna“, inserito nell’ album “Camper”, vince il Festival Bar. Nel 1997 pubblica “Il bandolero stanco ” e nel 2002 esce “Il lanciatore di coltelli “. Nel 2011 vince il Festival di Sanremo con la bellissima canzone “Chiamami ancora amore“.
Il brano musicale che ho scelto è “Samarcanda”, dell’omonimo album. Samarcanda è una canzone meravigliosa caratterizzata, però, da sonorità che rischiano di allontanare l’ascoltatore dal vero significato del testo. Quante volte, trasportati da quel ritmo incalzante, sostenuto dal riff inconfondibile del violino di Angelo Branduardi, l’abbiamo ascoltata senza prestare molta attenzione alle parole. Ma di cosa parla “Samarcanda”? Il brano ci conduce nelle atmosfere di terre orientali e racconta di un soldato che rientra dalla guerra, il quale, insieme alla folla festante, si getta, gioioso e danzante, per le strade della città per esser scampato al pericolo. Ma proprio tra la folla si accorge della presenza di una Nera Signora che gli sta vicino e lo guarda con malignità.
La Nera Signora non è altri che la personificazione della morte. Il soldato, credendo che la morte sia lì per lui, in preda allo spavento, riesce a farsi donare dal sovrano il cavallo più veloce del regno per fuggire il più lontano possibile. Fugge fino a Samarcanda, ma una volta arrivato, sarà accolto da una terribile sorpresa: la Nera Signora lo attende proprio in quella città e lui, fuggendo, non ha fatto che altro che assecondare il proprio destino. In poche parole, non si può mai sfuggire alla propria sorte. Sulle nostre teste incombe la forza del Fato, alla quale dobbiamo sottostare.
Il tema della canzone rimanda alle credenze dell’antica cultura greca la quale, per dare un senso alle ingiustizie e agli eventi dolorosi che affliggevano la vita delle persone, anche di quelle virtuose, ricorreva a questa forza potente, il Fato, contro la quale neanche gli dèi potevano ribellarsi. Gli stessi dèi soccombono alla volontà del destino. Emblematica, in tal senso, è la tragedia di Soflocle, l’“Edipo re“. L’oracolo raccomanda a Laio, re di Tebe, di non avere figli, perchè il figlio, una volta adulto, lo avrebbe ucciso per sposare sua moglie, Giocasta. Laio, però, una notte, in preda all’ebbrezza, si unisce a sua moglie.
I due concepiscono un bambino, Edipo. Il re, spaventato dalla profezia, abbandona il bambino sul monte Citerone, dove viene trovato da un pastore che lo affida a Polibo e Peribea, sovrani di Corinto, che lo adottano. Una volta adulto, Edipo, venuto a sapere della profezia che incombe sulla sua testa, ignorando che Polibo non sia il suo vero padre, per impedire che la profezia si realizzi, fugge da Corinto e, prima di arrivare a Tebe e diventarne sovrano, uccide sulla strada un vecchio per futili motivi. Quel vecchio non è altri che Laio, il suo vero padre. Edipo, completamente ignaro, giunge a Tebe, risolve l’enigma della Sfinge e diventa sovrano, finendo per sposare Giocasta, ovvero sua madre. Il Fato ha avuto la meglio su di lui. La tragedia si conclude nel peggiore dei modi: Giocasta si toglie la vita, e lui, una volta divenuto consapevole dei fatti, per non vedere la verità, decide di cavarsi gli occhi con la fibbia della veste di lei, chiedendo di essere esiliato dalla città.
Samarcanda
Ridere, ridere, ridere ancora, Ora la guerra paura non fa, Brucian nel fuoco le divise la sera, Brucia nella gola vino a sazietà, Musica di tamburelli fino all’aurora, Il soldato che tutta la notte ballò Vide tra la folla quella nera signora, Vide che cercava lui e si spaventò
Salvami, salvami, grande sovrano, Fammi fuggire, fuggire di qua, Alla parata lei mi stava vicino, E mi guardava con malignità Dategli, dategli un animale, Figlio del lampo, degno di un re, Presto, più presto perché possa scappare, Dategli la bestia più veloce che c’è
Corri cavallo, corri ti prego Fino a Samarcanda io ti guiderò, Non ti fermare, vola ti prego Corri come il vento che mi salverò Oh oh cavallo, oh, oh cavallo, oh oh cavallo, oh oh, cavallo, oh oh
Fiumi poi campi, poi l’alba era viola, Bianche le torri che infine toccò, Ma c’era su la porta quella nera signora Stanco di fuggire la sua testa chinò: Eri fra la gente nella capitale, So che mi guardavi con malignità, Son scappato in mezzo ai grilli e alle cicale, Son scappato via ma ti ritrovo qua!
Sbagli, t’inganni, ti sbagli soldato Io non ti guardavo con malignità, Era solamente uno sguardo stupito, Cosa ci facevi l’altro ieri là? T’aspettavo qui per oggi a Samarcanda Eri lontanissimo due giorni fa, Ho temuto che per ascoltar la banda Non facessi in tempo ad arrivare qua
Non è poi così lontana Samarcanda, Corri cavallo, corri di là Ho cantato insieme a te tutta la notte Corri come il vento che ci arriverà Oh oh cavallo, oh, oh cavallo, oh oh cavallo, oh oh cavallo oh oh
“Altrove” è il primo brano da solista di Morgan estratto dall’album “Canzoni dall’appartamento” del 2003. Chiusa l’esperienza musicale con i Bluvertigo, Morgan si chiude in un appartamento in via Sismondi a Milano in cerca di un volontario smarrimento che gli darà l’ispirazione giusta per uno dei brani più belli e testualmente più complessi del panorama musicale italiano. Non è un caso se la rivista Rolling Stone ha definito “Altrove” la canzone italiana più bella del nuovo millennio.
Abbandonato il sound sintetico del periodo giovanile che lo vedeva legato ai Bluvertigo, Morgan s’accosta a suoni più vintage e più armonici, vicini alla melodia degli anni ’60, che accompagnano un testo difficile ma al tempo stesso affascinante. Un brano originale che si apre con una congiunzione avversativa, “però“, gettando l’ascoltatore nel bel mezzo di una storia ( forse quella autobiografica dell’autore) che non si sa come comincia ma che delinea perfettamente il significato principale della canzone. Il brano vuole essere una ribellione al conformismo, ai pregiudizi, ai preconcetti e alle idee già stabilite. Chiari, in questo senso, appaiono i primi versi, ” mi sveglio col piede sinistro, quello giusto“, posti ad indicare una scelta di vita palesemente anticonformista che vede apprezzare anche la follia che appare come l’unica via per trovare la felicità, forse perché la follia è libera, non disposta a scendere a compromessi e a macchiarsi d’ipocrisia. Concetto che viene chiaramente espresso nei versi “c’era una volta un ragazzo/ chiamato pazzo/diceva sto meglio in un pozzo/che su un piedistallo“. Nel ritornello assistiamo aldesiderio dell’autore di perdersi nel mondo, che possiamo interpretare come la volontà di sganciarsi da un luogo e un tempo preciso, che spesso caratterizza la vita quotidiana dell’uomo medio, per abbracciare il mondo nella sua complessità, nelle sue numerose sfaccettature, nella sua totalità. Questo desiderio di perdersi, però, potrebbe anche essere interpretato come una speranza di smarrirsi, di non avere una direzione prestabilita e lasciare che la vita faccia il suo corso liberamente conducendolo altrove. Ma al di là delle possibili interpretazioni, ciò che conta è non rimanere fermi, non restare chiusi nei propri preconcetti ma mettere la mente in continuo movimento, condurla in un viaggio di continua conoscenza. Nella seconda parte della canzone i concetti affermati ricevono una nuova conferma. Pur di vivere libero e non ingabbiato dagli schemi, l’autore è disposto a rinunciare al suo passato, alla “cosmogonia, che letteralmente significa l’origine del mondo ma che nella visione autobiografica dell’autore potrebbe tradursi in una rinuncia alle sue origini per concentrarsi sull’avvenire che si presenta in continuo movimento, caratterizzato soprattutto dalla necessità di lasciare la propria impronta, la propria idea libera, non intrappolata negli stereotipi sociali e culturali. In tal senso interessanti appaiono i versi finali : “svincolarsi dalle convinzioni/dalle pose e dalle posizioni“. Questi versi racchiudono il significato ultimo della canzone, ovvero rappresentano un invito a chi ascolta a ragionare sempre con la propria testa e a tracciare un proprio percorso, non condizionato dalle opinioni e dai giudizi altrui.
“Sentimento” è un brano della ” Piccola Orchestra Avion Travel” che si è aggiudicato la vittoria a Sanremo nel 2000. Ebbe un successo commerciale anche se non superò mai il nono posto in classifica e l’album vendette solo 70.000 copie. Il fatto è che le canzoni d’autore belle e significative non sono per tutti, sono per un pubblico di nicchia e “Sentimento” non fa eccezione. Stiamo parlando di una canzone elegante e raffinata che risente di importanti influenze musicali. Il “Dizionario delle canzoni italiane” di Dario Salvatori l’ha definita “un omaggio alla musica del Novecento”. Gli stessi autori ammettono che il brano risenta di numerose ispirazioni musicali che attraversano le note e il testo. Il brano inizia con un’apertura pucciniana per poi citare subito un verso di una delle più belle canzoni napoletane : “sul mare luccica” di “Santa Lucia”. Si esprime dopo in un ritmo elegante in cui mescolati si mostrano echi dei Pink Floyd, della musica greca, della melodia classica napoletana, di Verdi e persino di Orietta Berti. Quello che più colpisce di questa canzone, oltre la sua incantevole melodia, è il significato del testo. Sentimento è il nome di una barca e dei suoi sei pescatori che a volte riescono a prendere dei pesci e altre volte no. Il testo è una metafora della vita, noi tutti ci troviamo su una barca, a volte navighiamo su mari calmi e a volte su mari in tempesta, momenti di gioia e di dolore si alternano e non possiamo che accoglierli e gestire la rotta nel migliore dei modi, “con la paura ogni tanto di affogare“. Non manca il desiderio di libertà. Un verso che mi colpisce particolarmente è :” Diceva Ulisse chi m’ò fa fa? La strana idea che c’ho di libertà“.In un’epoca come la nostra dove i giovani appaiono sempre più demotivati, spenti, privi di sogni, disposti ad accontentarsi, travolti dal vortice dell’immagine e dalla sfrenata voglia di apparire, Ulisse è l’esempio da seguire. Il famoso eroe greco non si distingue per la sua bellezza, ma per la sua intelligenza, per la sua astuzia e per la sua infinita sete di conoscenza. Dovremmo essere animati come lui dalla curiosità, dal desiderio di raggiungere fonti di sconosciuto sapere e per farlo abbiamo bisogno proprio di sentimento, di quella passione emotiva che ci spinga con slancio nel cuore delle cose e che dia un senso a questa vita fondamentalmente senza senso.
Sentimento
Sul mare luccica la luna in transito biancheggia il corpo di una bestia acquamarina ed è un incrocio tra il cielo e il fondo cosa mai vista s’inabissa quando s’alza maronna mia questo cos’è Castellammare pesce non ce n’è
Sul mare luccica la nostra barca tesa nel vento il suo nome è sentimento stella d’argento sono contentotu m’hai portato nella mano in cima al mondo stiamo a vedere quando uscirà con gli occhi cosa ci domanderà
na na na….
Sopra il mare non passa mai il tempo tempo che non passa mai ci cercò ci trovò ma noi chi siamo che ci facciamo cosa vendiamo delle cose che più amiamo e stare soli in mezzo al mare con la paura ogni tanto di affogare
Diceva Ulisse chi m’o ffa fà
la strana idea che c’ho di libertà
na na na….
Sopra il mare non passa mai il tempo tempo che non passa mai ci cercò ci trovò
Dante Alighieri, sommo poeta e padre della lingua italiana, è noto soprattutto per la sua opera più celebre, capolavoro della letteratura mondiale,ovvero, La Divina Commedia, il poema che racconta il suo viaggio attraverso Inferno, Purgatorio e Paradiso e che, interpretato in chiave allegorica, ci offre uno spaccato della vita politica e culturale dell’epoca medievale. Il motivo per cui il Poeta decide di scrivere un’opera così complessa e articolata ce lo racconta lui stesso in una lettera rivolta a Cangrande della Scala, mecenate veronese che aveva ospitato Dante per anni nella sua città, in cui scrive che lo scopo della Commedia è “allontanare gli uomini dallo stato di miseria in questa vita e condurli alla felicità“. L’opera vuole essere, quindi, una guida morale, un messaggio di speranza per gli uomini che possono aspirare a superare il loro stato di peccatori e ottenere il perdono di Dio, godendo, in questo modo, della felicità.
Ma sei sicuro di conoscere veramente a pieno il Sommo Poeta? Ecco 5 curiosità che forse non sai:
Il suo nome: il nome Dante non era il suo vero nome. Questo era più che altro un soprannome o un accorciativo. Il suo vero nome, infatti, era Durante di Alighiero degli Alighieri.
Non fu solo un poeta: era profondamente calato nella vita sociale e politica fiorentina. Prima di essere condannato all’esilio, va detto che aveva rivestito diversi incarichi pubblici e fu anche un cavaliere. Molti non sanno, infatti, che Dante ha combattuto in molte battaglie, la più famosa, quella di Campaldino che vedeva schierate la città di Firenze contro quella di Arezzo. Inoltre, fu un medico e si unì alla corporazione degli speziali, ovvero dei farmacisti, anche se l’obiettivo di tale scelta era legato a un tentativo di carriera politica.
Fu condannato a morte: Dante ha vissuto in una fase delicata della vita politica fiorentina, quella che vedeva contrapposte due fazioni, i Guelfi Bianchi, che aspiravano a una gestione separata dei poteri fra papa e imperatore, e i Guelfi Neri che, invece, erano convinti assertori del potere solo papale. Quando a prevalere furono i Neri, Dante fu condannato all’esilio per barratria, ovvero per corruzione politica. La sua condanna conteneva una clausola secondo la quale se avesse fatto ritorno a Firenze, sarebbe stato bruciato sul rogo. Ma Dante, come sappiamo, non fece più ritorno a Firenze. Morì a Ravenna nel 1321 di malaria, anche se le cause della sua morte non sono del tutto certe. La condanna a morte è rimasta ben salda sulla testa di Dante fino al 2008, anno in cui l’amministrazione comunale di Firenze attraverso una mozione lo ha riabilitato.
Suo padre non godeva di buona fama: gli Alighieri erano una famiglia non particolarmente agiata dal punto di vista economico.Pare che si occupassero di piccoli commerci. Ma quel che è singolare è che su suo padre Alighiero gravano dei sospetti. Sembra, infatti che non godesse di una buona reputazione. In uno scambio di sonetti tra Dante e l’amico Forese Donati, emerge che il padre fosse coinvolto, addirittura, in attività di usura.
Morì senza pubblicare l’ultima cantica della Commedia: al momento della sua morte è vero che Dante aveva completato di scrivere l’intera opera ma non era riuscito a pubblicare l’ultima cantica. Fu il figlio Jacopo a occuparsi della pubblicazione e a preoccuparsi di diffondere e promuovere l’opera.
Alfonso Gatto nasce a Salerno nel 1909. Scopre la sua passione per la poesia e la letteratura frequentando il liceo classico della sua città. Dopo il diploma decide di continuare gli studi universitari a Napoli, ma sarà costretto a lasciarli a causa di problemi economici. Sposa la figlia del suo professore di matematica con la quale fugge a Milano. Da quest’amore nasceranno due figlie. Dal punto di vista lavorativo ha una vita piuttosto inquieta. Nel corso della sua vita, infatti, svolgerà diversi lavori: dapprima commesso di una libreria, poi istitutore di collegio, correttore di bozze, insegnante e giornalista. Antifascista dichiarato, nel 1936 viene arrestato e condotto nel carcere di San Vittore dove vi resterà per sei mesi. Nel 1938 insieme a Pratolini fonda la rivista Campo di Marte, un periodico riconducibile all’ermetismo fiorentino che resterà attivo solo per un anno. Nel 1943 entra a far parte della Resistenza. Dopo la guerra diventa il direttore di “Settimana” e inviato speciale de “L’Unità”, assumendo un ruolo di spicco nella letteratura comunista. Ha scritto diverse raccolte poetiche: Isola (1932), Morto ai paesi (1937), Il capo sulla neve (1949), La forza degli occhi (1954), Osteria flegrea (1962), La storia delle vittime (1966), Rime di viaggio per la terra dipinta (1969). Nel 1976 perderà la vita in un incidente stradale.
In quell’inverno
Dicevi: basterebbe restasse tra noi
il modo di chiamarci, il modo di tacere.
Dicevi: tornerà quest’ansia di stare insieme
in ascolto di noi come del vento,
passerà il bicchiere di mano in mano…
Ora la vita non ha più contento,
nel dividerci ognuno alla sua vita
che lo porta lontano.
Non è rimasto nulla, la memoria
a volte accende il fuoco, chiama le ombre
a sedere, a tacere in quell’inverno.
Poetica
Alfonso Gatto è uno degli esponenti più importanti dell’ermetismo italiano. È possibile, però, conoscere a fondo la sua vita poetica solo a partire dal 1932, anno in cui pubblica la sua prima raccolta, Isola. Poche sono, infatti, le notizie della sua giovinezza a Salerno. Si ignorano quali siano state le sue prime letture e gli incontri con intellettuali di rilievo. Senz’altro quel periodo inquieto e turbolento ha influito sulla sua poesia. Isola, definita dal poeta stesso come ricerca di assolutezza naturale, è una raccolta pienamente ermetica che si traduce nella scelta di un linguaggio allusivo, rarefatto e senza tempo. La sua è un poesia dell’assenza, del vuoto, caratterizzata dal frequente ricorso alla melodia. Gatto resterà fedele a questa poetica fino al 1941. Dopo la guerra, infatti, sembra allontanarsi dal disimpegno ermetico per avvicinarsi a temi più espliciti, come il dolore degli uomini causato dalla seconda guerra mondiale. Periodo che lo vede coinvolto come protagonista nella Resistenza e che, nella produzione di raccolte poetiche, sfocerà in versi che mettono in luce la sua esperienza bellica. La raccolta di poesie che più ha attratto l’attenzione dei critici è La forza degli occhi, per il carattere visionario della poesia, in cui si assiste a un’unione di ermetismo e surrealismo che vede Gatto dare maggior spazio all’immaginazione piuttosto che al sentimento.
Due temi ricorrono spesso in tutta la sua produzione poetica: la memoria, espressa in immagini idilliache e oniriche; e l’amore, tema principe presente in tutte le poesie e che viene presentato in tutte le sue sfaccettature.
Agosto. Controluce a un tramonto di pesca e zucchero. E il sole all’interno del vespro, come il nocciolo in un frutto.
La pannocchia serba intatto il suo riso giallo e duro.
Agosto. I bambini mangiano pane scuro e saporita luna.
Una sinestesia di sapori, odori e colori travolge il lettore fin dai primi versi. Il poeta descrive Agosto con vocaboli succulenti volti a stimolare le papille gustative, paragonandolo a un dolce frutto da mangiare in fretta e intensamente, prima che ceda il passo all’autunno.
Commento alla poesia
Nella prima strofa Garcia Lorca descrive Agosto come un tramonto di pesca e di zucchero. I due termini appaiono separati quasi a voler sottolineare la natura effimera del frutto. La pesca, infatti, è un frutto molto delicato che tende a marcire in fretta. L’invito del poeta è di gustarne la dolcezza prima che sia troppo tardi. Nei versi successivi il sole alto viene paragonato al nocciolo di un frutto ad indicare che Agosto è il mese in cui si concentra la pienezza dell’estate. Tuttavia, come il sole alto nel cielo si prepara a calare per cedere il posto alla sera, allo stesso modo Agosto segna il passaggio della fine dell’estate verso l’autunno.
Nella seconda strofa troviamo ancora un termine di paragone. Questa volta Agosto viene accostato a una pannocchia gialla che, ancora una volta, riconduce all’immagine del sole alto nel cielo. Evidente la personificazione della pannocchia nel verso “il suo riso giallo e duro“, dove la pannocchia diventa una risata, un sorriso leggiadro, a sottolineare, forse, la spensieratezza che caratterizza questo mese. Esso è il mese delle ferie, delle vacanze, di giornate all’insegna dello svago. Tuttavia questo sorriso è offuscato dal termine “duro“, che rimanda, nuovamente, alla fine dell’estate.
Nella terza strofa appare invece l’oscurità. La sera è calata, l’estate è giunta al termine e nel cielo brilla la luna. Compaiono i bambini. Significativi i versi “i” bambini mangiano pane scuro e saporita luna“, volendo mostrare che restano solo i bambini ad assaporare con piacere la luce della luna, ancora ricca e piena. Non è un caso se sono proprio i bambini ad essere i protagonisti di questi versi. Il poeta vuole marcare quella che è la natura transitoria dell’infanzia, destinata a finire presto, ma che, tuttavia, rappresenta l’età più ricca e più intensa della vita umana.
I concetti di effimero e transitorio attraversano tutta la poesia. Il poeta invita i lettori a vivere intensamente la vita quando questa è nel pieno della sua dolcezza, del suo vigore, prima che giunga, ineluttabilmente, la fine.
A pochi è noto l’interesse scientifico che il grande poeta di Recanati dimostra fin da piccolo per la scienza. Ne “L’infinita scienza di Leopardi”, pubblicato da Giuseppe Mussardo e Gaspare Polizzi, viene data per assodata la passione del Leopardi per le materie scientifiche e l’importanza che queste abbiano avuto sulla sua vita, finendo per influire sulla sua carriera di poeta e scrittore. Leopardi, che fin da piccolo è profondamente innamorato dello studio, non cresce leggendo solo le grandi opere dei grandi personaggi della letteratura classica, quali Omero, Ovidio e Virgilio, ma anche leggendo le opere scientifiche di Newton, Copernico e Galileo. Ma non è tutto, sembrerebbe che il poeta di Recanati, prima del greco, abbia incontrato proprio le scienze.
Il primo approccio alle discipline scientifiche avviene nella biblioteca paterna, che ospitava 16000 volumi, e in particolare con due testi scritti dall’Abate Pluche, l’Historie du ciel (1739) e lo Spectacle de la Nature (1732), e con l‘Entretiens sur la pluralité des mondes di Bernard de Bovier de Fontanelle. Grazie a questi libri, Leopardi acquisirà una solida cultura scientifica che sfocerà nelle prime opere dell’adolescenza. A soli 14 anni scrive le Dissertazioni Filosofiche e a 15 anni la Storia dell’ Astronomia. Ma non solo, Leopardi mostra grande interesse per la chimica, studiando i processi di ossidazione e la chimica dei fluidi. Frequenta alcuni tra i più importanti chimici del suo tempo che lo introducono all’interno del mondo accademico scientifico. Non mancano studi sull’idrostatica e l’idrodinamica a cui si lega la fisica newtoniana. Come evidenzia Polizzi, il poeta riteneva il sistema newtoniano “l’espressione più completa della interpretazione fisica della natura“. Meno forte,invece, il suo rapporto con Copernico e Galileo a causa del suo legame col cattolicesimo. Con gli anni, però, riconosce riconosce a Copernico il coraggio di aver sovvertito il vecchio sistema geocentrico, mentre con Galieo mantiene una certa distanza, anche se ne condivide le idee e l’interesse per gli esperimenti. Se ne distanzia soprattutto per quanto concerne la matematica, che Galileo considera come strumento necessario per lo studio della Natura, laddove il Leopardi la concepisce solo come un linguaggio convenzionale che ha poco a che fare con la Natura e che non costituirà mai un elemento fondamentale nella sua formazione.
Ma qual è il pensiero scientifico di Leopardi? Bisogna dire, innanzitutto, che il rapporto che ha con la scienza non rimane sempre lo stesso, ma cambia col passare degli anni, soprattutto in relazione al suo pessimismo cosmico. Essenzialmente, soprattutto negli anni della sua giovinezza, Leopardi pensa che la scienza sia lo strumento migliore per conoscere e capire il mondo. Essa ha una valenza culturale, perché permette di acquisire nuove conoscenze che aiutano a superare l’ignoranza e la superstizione, e una valenza sociale, in quanto il progresso scientifico e tecnologico migliora le condizioni di vita delle persone. Negli anni della sua maturità, invece, con la progressiva adesione al pessimismo cosmico, riconosce alla scienza dei limiti. Essa, infatti, aumentando le conoscenze umane finisce, inevitabilmente, col produrre maggiore infelicità, perché più si conosce e si acquisisce consapevolezza, più si soffre. Ma la scienza, tuttavia, conserva il suo lato utile e necessario per sconfiggere l’ignoranza.
In rapporto alla filosofia della natura, su cui è incentrato il pensiero leopardiano, sempre negli anni della giovinezza, pensa che la scienza abbia tutte le potenzialità per scoprire le grandi verità della natura e per capirne le leggi. Come scrive Polizzi, il giovane Leopardi “è un fiducioso assertore del razionalismo scientifico”. Ma con la grande crisi intellettuale del 1817, che trasforma radicalmente la sua visione della Natura, che da spettacolo meraviglioso e comprensibile diventa incomprensibile e matrigna, Giacomo realizza che anche la scienza non possegga tutti gli strumenti utili a carpire le verità del mondo perché le sfuggono molte dimensioni della realtà. Ne critica, in particolare, il riduzionismo e il suo limite nel cogliere la complessità della natura e la sua infinita varietà.
Insomma la Natura, per Leopardi, è così complessa e ricca di dettagli che non bastano le leggi universali a descriverla. Il poeta, in questo modo, riconosce i limiti della natura umana destinata a soffrire a causa della Natura. Idea che cambierà ulteriormente negli ultimi anni della sua vita, aprendo a una speranza per gli uomini di non arrendersi a un destino inesorabile.
Città di origine fenicia, Palermo fu conquistata dai romani, dagli arabi, dai normanni, dagli svevi e dagli spagnoli. Ciò ha determinato un mix di bellezza e di meraviglia che ha rivestito la città, potremmo dire, strato su stato. Il giornalista Roberto Alajmo, per descrivere la sua complessa realtà artistica, ha detto: “Palermo è come una cipolla. È fatta a strati. Ogni volta che ne togli uno ne resta un altro da sbucciare”.
Tanti sono i tesori artistici, monumentali, folkloristici e culinari che Palermo offre. Per cui se avete intenzione di visitarla e non avete molti giorni a disposizione, indossate delle scarpe molto comode.
Prima di tutto, lasciatevi avvolgere dall’atmosfera confusionaria e multietnica dei mercati della Vucciria e di Ballarò. Un vero proprio viaggio di odori e sapori nei vicoli più antichi della città che, per molti versi, ricordano quelli della bellissima città di Napoli (anche per le canzoni napoletane che con una certa allegria si diffondono nei quartieri). Non appena entrati nel mercato della Vucciria, sarete investiti da un magma di profumi gastronomici, tipici della cucina palermitana, veri e propri emblemi dello Street Food siciliano, come le arancine (attenzione a non chiamarle arancini, la declinazione maschile è tipica catanese, dove le stesse assumono anche una forma appuntita, mentre quelle palermitane sono rotonde) pane e panelle (pane con squisite frittelle preparate con la farina di ceci), pani ca’ meusa (pane con la milza), rascatura (letteralmente raschiatura, ovvero una polpetta realizzata unendo l’impasto delle panelle con quello dei crocchè) e molto altro.
Ballarò è il mercato più antico della città. Visitarlo vi darà la sensazione di passeggiare nelle strade di una città musulmana e non è un caso se risale proprio al tempo della dominazione araba. Qui vi è possibile acquistare qualsiasi cosa, ma soprattutto verdure e primizie provenienti dalle campagne limitrofe. Una pittoresca scenografia vi trasporterà tra le bancarelle dei mercati insieme all’allegro vociare dei venditori ambulanti che si lasciano andare, spesso, a richiami fatti ad alta voce per attirare possibili clienti. Non manca la possibilità di gustare una buonissima spremuta d’arance siciliane.
Dopo esservi immersi nel cuore di Palermo, lasciatevi avvolgere da un’atmosfera spirituale visitando la Cattedrale di Palermo, un vero e proprio gioiello architettonico che sfoggia numerosi stili artistici: da romanico a bizantino, da arabo a neoclassico. Viene costruita nel 1170 sulle rovine di un’antica chiesa paleocristiana per volontà dell’arcivescovo di Palermo, l’inglese Walter Of The Mill, passato alla storia col nome di Gualtiero Offamilio. Durante la dominazione seracena la chiesa fu ampliata e trasformata in una moschea. Con la venuta dei Normanni viene istituito nuovamente il culto cristiano. Al suo interno ospita le tombe di Federico II, nipote di Federico Barbarossa, di Ruggero II, dell’imperatrice Costanza D’Altavilla e dell’imperatore Enrico VI di Hohenstaufen. Meritano sicuramente una visita la cappella di Santa Rosalia, santa patrona della città, che conserva i resti mortali della santa racchiusi in una preziosa urna d’argento, e il tesoro, ovvero la corona e i gioielli del sepolcro di Costanza d’Aragona.
Rimanendo in tema religioso, non può mancare una visita a una delle Chiese bizantine più importanti d’Italia, ovvero la Chiesa della Martorana, definita da alcuni la più bella in assoluto dato il contrasto tra lo stile arabo e quello normanno. Patrimonio Unesco, deve il suo nome al fatto che nel 1433 Alfonso d’Aragona la cedette al vicino monastero benedettino che fu fondato dalla nobildonna Eloisa Martorana. Numerose le opere d’arte che ospita al suo interno. Una su tutte il Cristo Pantocreatore sulla sommità della cupola. Proprio accanto alla Chiesa della Martorana sorge un’altra chiesa importante, che non passa inosservata data la sua caratteristica architettura araba. Sto parlando della Chiesa di San Cataldo con le sue tipiche cupole rosse e la forma a parallelepipedo.
Di fronte alla Chiesa della Martorana è presente il magnifico complesso religioso della Chiesa e del Monastero di Santa Caterina d’Alessandria. Un gioiello trionfante di arte barocca che vi lascerà letteralmente a bocca aperta, al cui interno conserva opere d’arte dei migliori artisti dell’epoca. Il monastero delle monache di clausura era dedicato al culto di Santa Caterina d’Alessandria, martire d’Egitto vissuta tra il III e il IV secolo. Secondo la tradizione, Caterina era una bella ragazza figlia del re Costa che la lasciò orfana in giovane età. Caterina venne chiesta in sposa da molti uomini importanti, ma lei li rifiutò tutti per abbracciare la castità, dopo aver sognato la Madonna con il Bambino che le infilava l’anello al dito facendola sua sposa. Il suo culto si diffuse in Sicilia durante la dominazione spagnola e venne presa ad esempio dalle monache di clausura come modello da seguire. Il monastero ha accolto le suore di clausura dell’ordine domenicano dal 1311 fino al 2014. Dal 2017 è visitabile in qualità di museo di arte sacra. Curiosità: all’interno del monastero oggi c’è una pasticceria in cui vengono riprodotti i tipici dolci siciliani, quali cannoli e cassate, secondo le antiche ricette delle suore. Secondo alcuni palermitani che me l’hanno consigliata, in questa pasticceria si mangerebbe uno dei migliori cannoli di Palermo, e a giudicare dalla lunga fila di attesa e dal sapore stratosferico, direi proprio che hanno ragione.
La chiesa di Santa Caterina d’Alessandria s’affaccia su piazza Bellini e su Piazza Pretoria, la piazza che ospita la famosa fontana omonima, tutta in stile barocco. In origine, nel 1554, fu realizzata per ornare il giardino di una villa fiorentina, successivamente venne acquistata dal Senato di Palermo. Arrivò a Palermo smontata in 644 pezzi che furono assemblati in maniera diversa rispetto al modello originale. Le evidenti nudità delle statue destarono scalpore tra i palermitani dell’epoca, i quali battezzarono la piazza con l’epiteto di “Piazza della Vergogna”.
Una tappa imperdibile di Palermo è sicuramente il Palazzo dei Normanni, noto anche come Palazzo reale, la più antica residenza d’Europa nonché sede dell’Assemblea Regionale Siciliana. Palazzo sontuoso ricco di affreschi e mosaici, si caratterizza anch’esso per la sovrapposizione di stili: normano, bizantino, arabo e spagnolo. Anche qui, come nella Chiesa della Martorana, troviamo la cappella palatina. Intitolata a San Pietro apostolo, risale al al 1130 e fu costruita per volere di Ruggiero II. Grande stupore vi susciterà la magnificenza dei mosaici tra i quali spicca, ancora una volta, quello del Cristo Pantocreatore. Gli stalattiti in legno e gli intagli del soffitto risalgono, invece, all’antica e lunga dominazione araba. Il palazzo, però, non è stato solo sede reale ma anche la residenza dei vicerè spagnoli, i quali apportarono numerose modifiche alla struttura. Abbatterono le torri normanne (tranne quella di Pisa ancora visitabile e davvero suggestiva) per creare due cortili esterni e due sale di rappresentanza. Tra queste la più nota è sicuramente la Sala d’Ercole, il cui nome è dovuto ai numerosi affreschi che ritraggono le 12 fatiche dell’eroe greco, realizzati da Velasquez.
Nel crocevia di piazza Vigliena assolutamente imperdibile la straordinaria e complessa concentrazione di chiese e palazzi famosa col nome di Quattro canti. Nei quattro angoli sono presenti, dal basso verso l’altro, tre ordini di statue barocche che rappresentano le quattro stagioni, i tre vicerè spagnoli più Carlo V, più le quattro sante che furono Patrone di Palermo prima di Santa Rosalia.
Ma se amate particolarmente l’arte barocca, allora non potete non recarvi alla Chiesa del Gesù o Casa Professa, la chiesa barocca più importante di Palermo. Situata nel quartiere della Alberghiera, nei pressi del mercato di Ballarò. Attenzione a non lasciarvi ingannare dalla sua facciata esterna che la fa apparire come una chiesa simile a tante altre. Al suo interno è un vero tripudio di decorazioni barocche, un susseguirsi di affreschi, stucchi e ornamenti marmorei che vi lasceranno letteralmente senza fiato.
Ovviamente non impossibile non citare il Teatro Massimo di Palermo, il teatro più grande d’Italia e il terzo più grande d’Europa, con la sua caratteristica sala a ferro di cavallo che ha una capienza di 5000 spettatori, e con il palco reale, all’esterno finemente decorato, con ben 27 posti a sedere. L’esterno del teatro, invece, ha una tipica struttura circolare perché concepito come tempio della musica. E proprio come un tempio appare a chi giunge nella piazza, a cui potrebbe ricordare il Pantheon.
Una bella capatina alla Galleria d’Arte Moderna, vi darà la possibilità di ammirare i dipinti dei pittori siciliani più famosi, quali Francesco Lojacono, Michele Catti, Antonino Leto, Ettore Maria Bergler (nato e Napoli e trasferitosi a Palermo) e niente di meno che il grandissimo Renato Guttuso.
Il Castello della Zisa, iniziato durante il regno di Gugliemo I e terminato nel 1167 durante il regno di Guglielmo II, fu la residenza estiva del re. Il suo nome deriva dall’arabo “al-Aziz” che significa splendido. Ha subito diverse trasformazioni nel corso dei secoli, di cui la più importante è avvenuta nel 1635 che ha conferito agli interni del palazzo uno stile tipicamente barocco. Un’antica leggenda è legata al castello, in particolare a una decorazione pittorica presente al suo interno. Nell’arco d’ingresso della Sala della Fontana sono raffigurate delle figure mitologiche che corrispondono alle divinità dell’Olimpo: Giove, Marte, Nettuno, Venere, Giunone, Mercurio e Plutone. Secondo la tradizione non si tratterebbe di divinità, ma di diavoli che custodiscono delle monete d’oro nascoste all’interno del palazzo. Il tesoro fu lasciato da Azel Comel e El Aziz, che fuggirono a Palermo perché il padre di lei ostacolava il loro amore. Sempre secondo la leggenda, furono proprio i due amanti a far costruire il castello, ma dopo esser venuti a conoscenza che la loro fuga era stata causa del suicidio della madre di El Aziz, morirono entrambi a breve distanza, non prima di aver affidato il loro tesoro alla protezione dei diavoli mediante un incantesimo. Si narra che chiunque voglia contare il numero dei diavoli, non ci riesca a causa del loro continuo rimescolamento.
Per i più intraprendenti si consigliano le Catacombe dei Cappuccini, uno dei luoghi più impressionanti da visitare al mondo, che conserva mummie in perfetto stato di conservazione. La costruzione delle catacombe risale al 1597, quando i frati decisero di realizzare un cimitero sotterraneo più adatto alle loro esigenze. Nel momento di traslare i loro confratelli, sepolti fino ad allora in fosse comuni, si accorsero che 45 corpi erano rimasti intatti, mummificati naturalmente. I frati, allora, decisero di non seppellirli ma di esporli in piedi, nelle nicchie del corridoio. Col passare degli anni le mummie suscitarono sempre più interesse, cosicché i frati decisero di concedere la sepoltura mediante imbalsamazione anche a tutti coloro che fossero in grado di sostenere le spese economiche di tale pratica.
Una profonda spaccatura nella roccia che cade a strapiombo sul mare, immersa nel cuore di una natura selvaggia e racchiusa da una spiaggia di soli 25 mq. Parliamo del Fiordo di Furore, una meravigliosa insenatura del borgo di Furore, piccolo gioiello della Costiera Amalfitana. Il fiordo, in realtà, è uno specchio d’acqua situato ai piedi di un vallone creato dal torrente Schiato. Attraversato da un ponte alto 30 m, è famoso anche per il ” Campionato mondiale di tuffi e altezze” che ogni anno accoglie atleti da tutto il mondo che si cimentano nelle gare di tuffi, ad altezze tra i 23 m e i 28 m.
Il borgo di Furore, noto anche come “il paese che non c’è”, si caratterizza per la sua particolare morfologia. Non presenta, infatti, un centro urbano ma case situate su rocce a strapiombo, sorgendo proprio sul laterale della montagna. Dal 1997 Furore, insieme ai suoi 688 abitanti, è patrimonio mondiale dell’Unesco.
Il fiume va Guardo più in là Un’automobile corre E lascia dietro sé Del fumo grigio e me E questo verde mondo Indifferente perché Da troppo tempo ormai Apre le braccia a nessuno Come me che ho bisogno Di qualche cosa di più Che non puoi darmi tuUn’auto che va Basta già a farmi chiedere se io vivoMezz’ora fa Mostravi a me La tua bandiera d’amore Che amore poi non è E mi dicevi che Che io dovrei cambiare Per diventare come te Che ami solo me Ma come un’aquila può Diventare aquilone Che sia legata oppure no Non sarà mai di cartone, no Cosa son io non soMa un’auto che va Basta già a farmi chiedere se io vivo Basta già a farmi chiedere se io vivoIl fiume va, sa dove andare Guardo più in là in cerca d’amore Un’automobile corre, non ci son nuove terre E lascia dietro sé Del fumo grigio e me E questo verde mondo nel quale mi confondo Indifferente perché Da troppo tempo, ormai Apre le braccia a nessuno Come me che ho bisogno Di qualche cosa di più Che non puoi darmi tuMa un’auto che va Basta già a farmi chiedere se io vivo
La canzone “L’ aquila” fu inizialmente scritta da Battisti e Mogol per Bruno Lauzi che la pubblica nel 1971. L’anno successivo anche Battisti la interpreterà inserendola nell’album ” Il mio canto libero“. Il brano tratta vari temi. Quello principale è la libertà. Il protagonista si trova ad osservare la discrepanza tra la sua vita personale e il mondo. L’autore è attanagliato da una grande sofferenza perché non riesce a trovare il senso della vita. Rivolge il suo sguardo al mondo in cerca di una saliente risposta ma tutto ciò che ottiene è indifferenza. Il mondo continua imperterrito il suo percorso senza prestare attenzione alla sofferenza dell’autore. Un mondo freddo che non riesce a dargli il senso della vita, senso che non ottiene neppure dall’amore. Emblematici in tal senso sono i versi ” E questo verde mondo/indifferente perché/ da troppo tempo ormai /apre le braccia a nessuno/come me che ho bisogno/di qualche cosa di più/che non puoi darmi tu“. Quel che più è chiaro è che l’autore ha bisogno di respirare la libertà. Libertà che predomina persino sull’amore. Non è possibile modificare o plasmare una persona a nostro piacimento, se la si ama veramente la si lascia libera di essere quel che è. L’autore vuole essere libero da regole, obblighi e impedimenti che gli impedirebbero di essere sé stesso. Il significato della canzone è racchiuso tutto nei versi ” Ma come un’aquila può/ diventare aquilone/ che sia legata oppure no/ non sarà mai di cartone“.
Biografia
Lucio Battisti nasce il 5 marzo 1943 a Poggio Bustone, un piccolo paese in provincia di Rieti, da una famiglia piccolo borghese. Ancora bambino si trasferirà prima a Vasche di Castel Sant’Angelo e poi a Roma. Molto poco si sa dell’infanzia di Lucio. Dal carattere estremamente riservato, non lascerà molte interviste e tenderà sempre a proteggere la sua vita privata. Si sa che a Roma frequenta le scuole elementari e medie, conseguendo nel 1962 il diploma di perito industriale. Fin da piccolo non nasconde la sua passione per la musica e per la chitarra. Con gli anni della maturità per Lucio diventa sempre più chiaro quel che è il suo obiettivo: diventare un cantante.Nel 1965 arriva l’incontro che segnerà il suo destino, quello con il paroliere Giulio Rapetti, in arte Mogol. I due iniziano un sodalizio che durerà per ben 15 anni, grazie al quale regaleranno alla musica alcune delle canzoni più belle mai scritte. Pur facendo musica d’autore, in effetti, Lucio non è un cantautore ma più un musicista, o per meglio dire, un grande musicista. Prima di conoscere Mogol scrive alcuni testi, ma ben presto si accorge che le parole sono troppo deboli per sposarsi con la sua musica. Nel 1968 arriva il successo grazie alla canzone “Balla Linda“, a cui seguiranno “Un’avventura” nel 1969, brano che presenterà a Sanremo, e la canzone che gli consentirà di ottenere il successo definitivo, ovvero “Acqua azzurra Acqua chiara” che porterà nell’estate seguente al Festival Bar. Gli anni più importanti della sua carriera musicale sono senza dubbio gli anni ’70 e ’80, anni in cui regalerà alla musica italiana dei brani immortali e ineguagliabili, quali “La canzone del sole“, “I giardini di marzo“, ” Anche per te“, ” E penso a te“, ” Il mio canto libero“. Veri e propri capolavori che finiscono sempre in testa alle classifiche. Artista musicalmente eclettico, spazia in tutti i generi musicali, dalla musica leggera al rock progressive, dalla canzone d’autore al rock psichedelico, dalla musica dance a quella elettronica. Dopo la rottura con Mogol inizia una nuova collaborazione con il paroliere Pasquale Panella. La differenza tra i due periodi è lampante, ma il genio di Lucio resta invariato. I testi scritti da Panella sono di difficile interpretazione e anche la musica perde la sua vena pop. Gli album con Panella sono grandi capolavori che però possiamo definire di nicchia. Le parole, costruite su una sintassi a volte contorta, a limite del non sense, non arrivano a tutti. Nonostante ciò, gli album avranno delle buone vendite. Purtroppo nel 1998 per cause mai chiarite, Lucio Battisti, dopo aver trascorso diversi in giorni in terapia intensiva, muore a soli 55 anni. Una grande perdita per la musica. Qualcuno ha detto che con la morte di Lucio Battisti sia morta metà della musica italiana. Quel che è certo è che Lucio Battisti è stato uno dei più grandi musicisti e cantanti italiani e che, senza ombra di dubbio, la sua musica è destinata all’eternità.
Gesù rivedeva, oltre il Giordano, campagne sotto il mietitor rimorte, il suo giorno non molto era lontano.
E stettero le donne in sulle porte delle case, dicendo: “Ave, Profeta!” Egli pensava al giorno di sua morte.
Egli si assise, all’ombra d’una mèta di grano, e disse: “Se non è chi celi sotterra il seme, non sarà chi mieta”.
Egli parlava di granai ne’ Cieli: e voi, fanciulli, intorno lui correste con nelle teste brune aridi steli.
Egli stringeva al seno quelle teste brune; e Cefa parlò: Se costì siedi, temo per l’inconsutile tua veste.
Egli abbracciava i suoi piccoli eredi: Il figlio Giuda bisbigliò veloce – d’un ladro, o Rabbi, t’è costì tra ’piedi: “Barabba ha nome il padre suo, che in croce morirà.”
Ma il Profeta, alzando gli occhi “No”, mormorò con l’ombra nella voce, e prese il bimbo sopra i suoi ginocchi.
Una poesia che possiamo interpretare come una lirica religiosa e che possiamo definire una lettura ideale durante il periodo che conduce alla Pasqua. Contenuta nella raccolta Il piccolo Vangelo, pubblicata postuma nel 1912, descrive il Cristo in cerca della sua natura divina.
Pascoli ci restituisce l’immagine di un Gesù umano, rivestito di quell’umanità che lo rende simile a noi. I primi versi si aprono con l’immagine di una profezia: Gesù pensa alla propria morte e intuisce che la sua fine è vicina. Intorno a lui si raccolgono i bambini che portano tra i capelli aridi steli. Immagine che riconduce alla corona di spine che Gesù sarà costretto a indossare. Egli stringe a sé questi fanciulli, che Pascoli chiama “i suoi eredi”, in quanto Gesù sa che , una volta scomparso, questi si faranno promotori del suo messaggio, della buona novella. Nei versi finali compare il presagio della croce. Tra i bambini, infatti, è presente il figlio di Barabba che, il discepolo Giuda, il traditore, dice, bisbigliando a Gesù, essere il figlio di un ladro che morirà sulla croce. Gesù respinge quest’affermazione con un “no” deciso, ma con “l’ombra nella voce”. Con questa sinestesia Pascoli rimarca il presagio della crocifissione a cui Gesù reagisce con un gesto di amore. Prende il figlio di Barabba e lo conduce sulle sue ginocchia per abbracciarlo. È l’accettazione del sacrificio. Non sarà Barabba a morire, ma lui.
Pascoli con questa poesia non intende parlare della morte di Gesù o della sua passione, né evidenziare la sua natura divina. Descrive soprattutto un uomo che va incontro al suo cruento destino in modo docile, compiendo gesti d’amore.
Possiamo dire con certezza che sono tra i versi più belli del panorama letterario italiano. Sto parlando del V canto dell’Inferno e nello specifico dei versi che decantano il grande amore che unisce due innamorati ( adulteri), Paolo e Francesca.
Dopo l’incontro con Minosse, Dante e Virgilio s’inoltrano in un luogo buio tempestato da una violenta bufera che trascina i dannati sbattendoli da una parte all’altra del cerchio, mentre questi emettono grida e bestemmie. Dante intuisce che si tratta dei lussuriosi le cui anime, trascinate, formano schiere simili a quelle degli stornelli. Dante poi s’accorge di un’altra schiera di anime che in volo forma, invece, linee simili a quelle delle gru. Virgilio gli spiega che si tratta di tutti i lussuriosi morti violentemente e tra questi gli indica Didone, Cleopatra, Elena, Achille, Tristano. Dante nota due anime che camminano affiancate l’uno all’altra e dichiara a Virgilio il desiderio di poter parlare con loro. Virgilio acconsente e Dante le chiama a sé. Le due anime, staccatesi dalle altre, gli vanno incontro. Sono un uomo e una donna e quest’ultima ringrazia Dante per la pietà mostrata per loro. Dice di essere nata a Ravenna e di essere indissolubilmente legata all’uomo che è ancora accanto a lei . Si tratta appunto di Paolo Malatesta e Francesca da Rimini che in vita erano cognati ( Francesca era la moglie di Gianciotto, fratello di Paolo) uniti da un grande amore. Dante colpito dalla loro unione, chiede a Francesca di raccontargli in che modo sia iniziata la loro relazione. La donna allora narra che un giorno, presi dalla lettura del libro che racconta la storia dell’amore tra Ginevra e Lancillotto, vengono travolti da una profonda passione finendo per scambiarsi un bacio tremante che segnerà l’inizio del loro amore. Alla fine troveranno la morte per mano di Gianciotto.
Avremmo letto questi versi centinaia di volte, ma non possiamo nascondere che a ogni nuova lettura, i nostri sensi tremano di fronte a quest’opera di straordinaria levatura, di fronte all’immenso e profondo amore che ha condotto Paolo e Francesca alla stessa morte e che dura finanche all’Inferno. Volendo dirlo con le parole di Dante: ” Amor che a nullo amato amar perdona,/mi prese del costui piacer così forte,/ che, come vedi, ancor non m’abbandona”. Dante profondamente colpito dall’intensità di questo amore così forte e vero, perde i sensi, e “cade come corpo morto cade”.
Di quel che udire e che parlar vi piace, noi udiremo e parleremo a voi, mentre che ‘l vento, come fa, ci tace.
Siede la terra dove nata fui su la marina dove ‘l Po discende per aver pace co’ seguaci sui.
Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende, prese costui de la bella persona che mi fu tolta; e ‘l modo ancor m’offende.
Amor, ch’a nullo amato amar perdona, mi prese del costui piacer sì forte, che, come vedi, ancor non m’abbandona.
Amor condusse noi ad una morte. Caina attende chi a vita ci spense». Queste parole da lor ci fuor porte.
Quand’ io intesi quell’ anime offense, china’ il viso, e tanto il tenni basso, fin che ‘l poeta mi disse: «Che pense?».
Quando rispuosi, cominciai: «Oh lasso, quanti dolci pensier, quanto disio menò costoro al doloroso passo!».
Poi mi rivolsi a loro e parla’ io, e cominciai: «Francesca, i tuoi martìri a lagrimar mi fanno tristo e pio.
Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri, a che e come concedette amore che conosceste i dubbiosi disiri?».
E quella a me: «Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice ne la miseria; e ciò sa ‘l tuo dottore.
Ma s’a conoscer la prima radice del nostro amor tu hai cotanto affetto, dirò come colui che piange e dice.
Noi leggiavamo un giorno per diletto di Lancialotto come amor lo strinse; soli eravamo e sanza alcun sospetto.
Per più fïate li occhi ci sospinse quella lettura, e scolorocci il viso; ma solo un punto fu quel che ci vinse.
Quando leggemmo il disïato riso esser basciato da cotanto amante, questi, che mai da me non fia diviso,
la bocca mi basciò tutto tremante. Galeotto fu ‘l libro e chi lo scrisse: quel giorno più non vi leggemmo avante».
Mentre che l’uno spirto questo disse, l’altro piangëa; sì che di pietade io venni men così com’ io morisse.
Definita dall’Unesco patrimonio mondiale dell’umanità, la città di Matera è unica nella sua bellezza. Matera è una città che ti abbraccia con la sua arte e con la sua tranquilla, ma mai spenta, vita cittadina. Non poche le cose da vedere che ti lasciano a bocca aperta. La città antica, meglio conosciuta come I Sassi, sorge su due nuclei: il Barisano e il Caveoso. Una volta che ti inoltri nei vicoli, vieni avvolto da un’aura di rara bellezza che però mostra segni di un passato di sofferenza. E’ possibile visitare alcune case, oggi musei, che sono state arredate con i mobili e gli utensili originali del periodo in cui erano abitate, donati dai discendenti delle famiglie che vi abitarono fino a metà del secolo scorso. Le case, scavate nelle grotte, non hanno all’interno l’aspetto delle nostre case, sono piuttosto caratterizzate da una sola stanza senza finestre, con un povero mobilio costituito da una piccola tavola, qualche mensola, da un’umile dispensa e un cassettone. Negli angoli di questa unica stanza troviamo minuscoli vani: il vano cucina, il vano stalla ( all’esterno non c’era spazio per gli animali per cui li ospitavano in casa) e il vano notte costituito da un un letto e una piccola culla. Queste case erano abitate da poveri contadini, erano luoghi molto umidi privi di luce, di finestre, di porte e di acqua corrente. Possiamo solo immaginare, quindi, le condizioni malsane in cui vivevano: scarsa igiene, poco cibo, odore nauseabondo anche a causa della presenza degli animali in casa (dove immaginiamo espletassero i loro bisogni fisiologici). Inoltre erano abitate da nuclei di famiglie molto numerose. Ogni famiglia, infatti, aveva in media otto figli. Si veniva a creare un vero e proprio microclima deleterio per la salute. In questi territori erano diffuse molte malattie che provocavano vari focolai endemici: tubercolosi, leishmaniosi, rachitismo, polmoniti, malaria. Altissima la mortalità infantile, che arrivò tra il 1923 e il 1933 a raggiungere percentuali addirittura del 45%. Nel 1945 Carlo Levi nel suo capolavoro “Cristo si è fermato ad Eboli” pose la questione materana all’attenzione della politica nazionale. Nel 1948, il leader del Partito comunista italiano, dopo avervi fatto visita, definì Matera “la vergogna nazionale”. Dello stesso avviso fu il primo ministro Alcide De Gasperi quando vi fece visita nei primi anni ’50 e con una legge del 1952 impose lo sgombero delle case grotte. I cittadini vennero trasferiti in nuove strutture che poi costituirono le abitazioni della città nuova. Solo negli anni ’80 i Sassi vennero di nuovo rivalutati e iniziò un graduale percorso di recupero che portò nel 1993 l’Unesco a definire Matera patrimonio mondiale dell’umanità. Nel 2019 Matera è stata capitale europea della cultura. Ad ogni modo, oggi quando ti inoltri nei piccoli vicoli dei sassi, una forte emozione ti strugge il cuore. Grande attenzione merita il complesso di chiese rupestri scavate nelle grotte. Tra le più importanti troviamo Santa Lucia alle Malve, Santa Maria di Idris che sorge sulla sommità dell’omonima rupe e San Pietro Barisano che ospitano al loro interno numerosi affreschi importanti purtroppo deteriorati dal tempo ( alcuni ormai quasi totalmente perduti). Meritano una visita anche tutte le meravigliose chiese della città nuova. Sono in realtà molto antiche anche se costruite fuori dai sassi. Alcune risalgono al 1200. Degne di nota sono le grotte del Paleolitico nel parco materano della Murgia in cui sono stati ritrovati utensili e pitture rupestri risalenti a 400.000 anni fa, periodo in cui visse l’Homo Habilis e successivamente l’Homo Erectus. Insomma Matera è un esempio di un ecosistema straordinario che parte dalla preistoria e arriva fino ai nostri giorni attraversando vari piani: culturale, artistico, architettonico, naturale e urbanistico.