Libri: A quel tempo, di Gregorio Asero

C’ERA UNA VOLTA PATERNÒ: storia,cultura,usi,costumi tradizioni….  · Segui

Gregorio Asero  ·   · 

Per chi ha voglia di leggere pubblico uno stralcio di 

“A QUEL TEMPO”. 

Un racconto ambientato nella Paternò degli anni sessanta. 

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Ricordi…

La memoria delle piccole cose del nostro passato, e la rivisitazione della vita vissuta, forse, più dello scritto, resta impressa nella mente di tutti noi.

Voglio dire che, se cerchiamo di capire chi siamo e dove siamo diretti, non possiamo dimenticarci chi eravamo, e allora, come se salissi su un’ipotetica macchina del tempo, voglio ripercorrere a ritroso le impronte dei miei passi, e come d’incanto mi appare l’immagine della “putia” di mia madre, per tutti la “putia della signora Angelina”.

Come ho già detto non era un vero e proprio negozio, ma semplicemente una grande stanza che faceva angolo fra Via Circonvallazione e Via Fratelli Bandiera e che mia madre, improvvisandosi commerciante, aveva adibito a negozio.

La parete che costeggiava la via Circonvallazione era fornita da un’ampia finestra che era stata adibita a vetrina d’esposizione, mentre l’ingresso era sull’altra via. Non so, a dire il vero, se mia madre avesse una regolare licenza di vendita. Sicuramente non l’aveva da subito ma poiché gli affari inizialmente andavano bene, penso che col tempo si sia messa in regola.

È verso la fine degli anni ’50 che sorge il negozio, sulle ali dell’entusiasmo di tanti altri piccoli negozi di venditori e artigiani che sorgevano come funghi, lungo la via principale.

Si sa, si era in un periodo tutto sommato di crescita economica, anche se non paragonabile a quella dei paesi del nord Italia.

I negozi erano tutti molto piccoli. In genere erano le stanze che si affacciavano sulla via e i più fortunati avevano addirittura un piccolo retro come magazzino.

Ancora risuonano nelle mie orecchie i rumori dei lavori degli artigiani e sento i mille odori caratteristici di ogni negozio.

Dopo il negozio di mia madre, dalla stessa parte della strada, c’era la bottega del “suddunaru”.

Quest’uomo era un vero artista nella lavorazione del cuoio. Era un uomo magro e minuto con uno strano timbro di voce, nel senso che era molto acuto, quasi stridulo e alla fine di ogni frase sembrava quasi che risucchiasse l’aria che gli era uscita dalla gola. Il viso aveva la forma di un’incudine, il naso era stretto e molto pronunciato, e la testa era coperta da una rada peluria che con un grande sforzo di fantasia si poteva definire capelli. Era conosciuto come “Saru u schettu”, nel senso che non si era mai sposato. La sua vita trascorreva fra la bottega e i vari maneggi, dove consegnava di persona i suoi capolavori.

Dicevano che era anche un abile cavallerizzo e che mai, a memoria d’uomo, si era vista una persona abile come lui nel domare i cavalli, anche i più irrequieti. Forse per questo io immaginavo che non si fosse mai sposato, o forse come alcuni dicevano, che a lui le donne non piacevano. Non lo so se fosse vero, ma so che non lo avevo mai visto parlare con una donna.

La sua arte spaziava dalle selle borchiate alle cinture per gli uomini fino anche alle museruole per cani.

Appese sulla porta del negozio facevano mostra, in bella vista, molte sue creazioni. I suoi “capolavori”, come amava definirli.

C’era un pezzo speciale che io adocchiavo sempre e che desideravo fosse mio. Un sogno irrealizzabile: una frusta fatta in budello di maiale molto flessibile che quando il sellaio la faceva roteare sembrava fischiasse nel lacerare l’aria.

Dalla parte opposta della strada c’era invece il calzolaio. Lungo il marciapiede che costeggiava il suo negozio, sopra un improvvisato banchetto, erano esposte un’infinità di forme di legno di scarpe.

Dal suo negozio usciva un odore che a me piaceva molto, era un misto di colla e cuoio.

Il calzolaio era un omone grosso e alto, aveva un paio di baffi che, dicevano, non ce n’erano di simili in tutta la Sicilia. Li aveva sempre ben curati e le estremità erano rivolte in alto, sembrava che fossero incollate, tanto stavano ritte e ferme.

Ricordo di averlo sempre visto con addosso un grembiule di cuoio scuro e unto, scalfito da un’infinità di piccoli tagli. Era sempre seduto fuori, sul marciapiede, su uno sgangherato sgabello. Batteva continuamente pezzi di cuoio con un martello dalla testa piatta e larga, distesi su una spessa lastra di ferro. Aveva le mani tozze e callose, sempre screpolate.

Con un lungo ago infilato di uno spesso filo di spago riparava scarpe, stivali, e anche borse di tutti i tipi.

Era il calzolaio del quartiere, nel senso che oltre a riparare le scarpe, le produceva artigianalmente su misura. Anche noi eravamo suoi clienti.

Quello che mi appassionava delle sue scarpe, erano dei ferretti a mezza luna che aggiungeva alle estremità delle suole e che facevano, quando si camminava su un pavimento di sasso o comunque duro, un rumore metallico, e ad ogni passo che si faceva, sembrava di ballare il tip-tap.

Un altro negozio che faceva molti affari era quello del vasaio. Anche lui esponeva la sua mercanzia lungo il marciapiede e la mia paura era, quando passavo accanto ai “bummuli”, di toccarne qualcuno e farlo cadere mandandolo in mille pezzi. Per quel motivo, cercavo di passare dalla parte opposta del marciapiede.

Il negozio, a dire il vero, era gestito da una donna, la signora Filomena che era la moglie del vasaio. Era una donna molto alta e prosperosa, aveva il fascino e la grazia di una leonessa. Gli occhi erano grandi e neri come il buio della notte. Aveva una chioma di capelli abbondanti e neri che erano mossi e ondulati con la scriminatura un poco di lato. Quello che colpiva in quella donna era il contrasto fra il nero dei capelli e il candore della pelle. La vita era molto sottile e il seno esuberante.

Sì, era indubbiamente una bella donna, tutti gli uomini del quartiere, me compreso, ne erano segretamente innamorati.

Purtroppo il marito vasaio, anche lui molto alto e prestante, era gelosissimo. Per questo motivo, pochissimi uomini rivolgevano la parola a sua moglie, per evitare equivoci e liti inutili.

Quelle poche volte che parlava con qualche uomo, i discorsi vertevano solo sulla vendita dei vasi esposti.

Calogero, questo era il nome del vasaio, lavorando nel retrobottega, sembrava assente, ma ai suoi occhi nulla sfuggiva.

Non vendevano solo vasi di terracotta, ma anche attrezzi di vario tipo, scatole metalliche, piatti, portavasi di ferro e lampade a petrolio.

A proposito delle lampade a petrolio, erano oggetti che mi piacevano particolarmente, non chiedetemi perché, non lo so, forse perché nel mio subconscio erano i custodi della fiamma e del calore.

Ricordo che la parte superiore della lampada, era fatta da una specie di tubo di vetro, dove la parte bassa s’innestava in una molla metallica e la parte alta finiva con una greca merlata.

Per controllare la resistenza del vetro, ogni acquirente usava battere con le dita la parte esterna del vetro, e secondo il rumore, si riusciva a capire se il vetro fosse integro o incrinato. Ancora nelle mie orecchie risuona il tintinnio del vetro al battere delle dita.

La bottega del carrettiere era quella che creava più frastuono, confusione e disordine, nel senso che il continuo via vai di carretti impediva una serena pace, così come potrebbe essere ai giorni nostri il disturbo che ci arreca il traffico automobilistico. C’è da dire che era anche quella che dava movimento a tutta la via.

Con i suoi attrezzi e macchinari costruiva carretti variopinti e anche sponde e pianali per i letti.

A quel tempo erano pochi i letti fatti di reti e molle, e i materassi erano riempiti di paglia e crine. Solo nelle case dei ricchi si usavano materassi riempiti di lana.

Era anche un continuo battere sui cerchioni delle ruote e sulle sponde dei carri. A completare l’opera ci si metteva anche il lavoro di sistemazione delle botti per il vino, e dunque anche sui cerchi delle botti era un continuo martellare.

Un altro bottegaio era il tappezziere, il quale era specializzato nel rinnovare le sedie di rafia, divani e poltrone.

Era anche una specie di sarto e a lui le donne portavano i cappotti da rivoltare finché c’era stoffa a sufficienza. Insomma non si buttava mai nulla.

All’occorrenza funzionava anche da tintoria e coloro che avevano un lutto da “portare” per tanto tempo, si rivolgevano a lui affinché “rinnovasse di nero” il loro guardaroba.

Un artigiano che non aveva fissa dimora era l’arrotino, che con il suo carretto passava di tanto in tanto per la mia via. Allora capitava che le donne, in massa, uscissero da casa, chi per portargli qualche ombrello da riparare, chi qualche coltello da molare e chi qualche pentola ammaccata e bucata da rimettere a nuovo.

In genere sostava per una giornata intera e verso il suo carretto era un continuo via vai di donne che gli portavano qualcosa da riparare, non prima di aver fatto una lunga ed estenuante trattativa sul compenso da corrispondere.

Non mancavano i negozi prettamente maschili, come il salone da barba, dove si regalavano mini calendari profumati, con rappresentate donne seminude che a sfogliarli avevano un non so che di pornografico e vagamente peccaminoso.

Come il circolo, dove gli uomini bevevano vino e disputavano qualche partita a carte, e che era sicuramente il locale dove si urlava di più.

Non poteva mancare poi il tabaccaio in cui si vendevano tabacchi, accendini, cerini, valori bollati. Insomma diciamo che la Via Circonvallazione era una strada piena di vita.

Il negozio di mia madre, per quei tempi, era sicuramente il più attrezzato e anche quello fornito delle più svariate mercanzie. In una vetrina dietro il bancone facevano bella mostra bianche bottiglie di latte con tappo di sigillo di sicurezza, con tassativo vuoto a rendere.

Cosa eccezionale per quei tempi, il negozio di mia madre era anche fornito di un grande e rumorosissimo banco frigo, dove all’interno erano ordinatamente stipati formaggi, salumi, prosciutti, salami, uova, ricotta fresca messa in contenitori di cesti fatti di frasca e coperti da foglie di fico, e tutto quello che necessitava di essere conservato al fresco.

In una grande vetrata sotto il bancone di formica, di un tenue color celestino con riflessi verdi, con le portine di vetro che si aprivano a scorrimento una sull’altra, erano in esposizione grosse forme di pane, la “vastedda”. A dire il vero, di pane se ne vendeva ben poco per via del fatto che non esisteva, a quei tempi, casa che non avesse il proprio forno.

Adesso che ci penso, il pane che maggiormente mia madre vendeva, era il famoso pane industriale, la “mafalda”, che era un bastone di pane con sopra spruzzati dei semi di sesamo, buonissimo da mangiare caldo e con la mortadella. Credetemi sulla parola, non esiste paragone in quanto a sazietà e prelibatezza, con le merendine industriali dei giorni nostri: pane e mortadella vince sicuramente dieci a zero. C’era anche uno scaffale con tanti contenitori di vari tipi di pasta e riso. Tutto da vendere rigorosamente sfuso.

Il reparto pasticceria non era altro che un alto scaffale con molti ripiani che arrivava a sfiorare il soffitto. Era il reparto preferito dai miei fratellini che, avendo scoperto il sistema per aprirlo, non facevano altro che accomodarsi direttamente all’interno per fare razzia di dolci.

I vasi di vetro pieni di confetti e leccornie varie, erano i primi a essere svuotati, poi era il turno delle rotelle di liquerizia e delle caramelle, quelle con tante sfumature di colori, erano le più attraenti. Se ne mettevano in bocca tre o quattro per volta. Si comportavano come potrebbe agire una volpe in un pollaio: facevano una strage.

Quando mia madre se ne accorgeva, erano urla e strilli per tutta la casa contro mia sorella maggiore, perché diceva mia madre, che non poteva fare tutto lei e il compito di curare i fratellini era suo.

Lo scatolame, come tonno, pelati, detersivi, era ammassato in un angolo. Per quanto riguarda il caffè, una rarità, era chiuso a chiave in una vetrinetta a parte, le cui chiavi erano di esclusiva gestione di mia madre, mentre il caffè d’orzo era contenuto in un recipiente metallico in bella vista sopra il bancone.

Ad ogni modo, nonostante l’offerta fosse varia e abbondante, non si poteva neanche lontanamente paragonare a quella dei moderni supermercati, ma tutto quello che si vendeva era indubbiamente privo di conservanti e additivi e sicuramente più genuino. A quei tempi c’era meno offerta ma molta più qualità.

Il negozio era sempre invaso da un misto di odori di salumi, dolci, detersivi e il tutto si mischiava in un unico aroma che invadeva chiunque entrasse.

L’odore delle cassate di mandorle e di pistacchio si mischiava a quello forte e pungente del “piacentino”. Purtroppo le parole non bastano per descrivere la sinfonia di odori e sapori che invadevano l’aria del negozio.

Il negozio era anche un punto d’incontro fra le massaie del quartiere, le quali, con la scusa di fare la spesa si riunivano a spettegolare e a comunicare gli ultimi aggiornamenti avvenuti nel circondario.

Diciamo che era una specie di giornale radio locale dove le casalinghe raccontavano le ultime notizie, con il tacito accordo, di mantenere il segreto professionale sul nome della “giornalista” di turno. Una specie di tutela della riservatezza, anche se tutti sapevano tutto di tutti.

Fuori, sulla porta del negozio, non c’era un cartello che indicasse l’orario di apertura e neanche quello del giorno di chiusura settimanale. Si entrava e usciva in qualsiasi momento. Mia madre apriva la mattina quando si alzava e chiudeva poco prima di andare a dormire. Ecco questo era l’orario del negozio.

Una porta con un vetro smerigliato divideva il locale negozio dall’abitazione privata, per cui tutta la casa era avvolta dal profumo, mentre altre volte era il negozio a essere avvolto dagli odori, buoni per altro, che provenivano dalla cucina. In alto, appesi al soffitto del negozio, facevano mostra una serie di carte moschicida, che quando erano sature di prede, mia madre sostituiva.

Ormai con i moderni centri commerciali tutto questo è sicuramente sparito per sempre.

Racconti: SOVRAPPENSIERO, di Gregorio Asero

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SOVRAPPENSIERO

A volte capita di abbandonarmi a pensieri di tenerezza e allora mi lascio andare con tutto il mio essere a meditazioni soavi, e prima che possa finire lo stato di abbandono, mi accade una strana cosa, come quando l’orchestra finisce di suonare una melodia e depone i suoi strumenti sul palco per una meritata pausa di riposo: vivo attimi di attesa eterna. È molto difficile seguire queste strane sensazioni per lungo tempo, perché la mia mente non riesce a concentrarsi fino in fondo, visto che, purtroppo o per fortuna sono un uomo comune, carico di tutti i suoi limiti umani.

Mi capita anche che, lungo il percorso della mia vita, incontri persone simpatiche con le quali chiacchiero spensieratamente e in allegria. Ma cosa sono le parole dette da estranei? Possono essere esteriorità senza senso se le paragoniamo alla poesia e all’arte in genere. Che senso hanno le parole che pronunciamo a iosa e a volte senza neppure dar loro importanza, rispetto a quelle che sono le manifestazioni intime della nostra interiorità religiosa, del nostro modo di intendere la pittura, la musica, la poesia?

A volte, senza voler peccare di presunzione, mi sembra di essere un angelo precipitato dal carro, che conduce in Paradiso, nella più insignificante e squallida realtà terrestre. Io dico che il poeta, l’artista in genere sono gli ultimi testimoni di una forma di vita che sta lentamente andando in disfacimento. E mi chiedo se la poesia e l’arte, non siano l’unico esempio di ciò che avrebbe potuto essere il nostro martoriato pianeta se non fosse esistita la forma del linguaggio parlato.

La comunicazione fra umani, e di conseguenza fra le varie anime, dovrebbe avvenire attraverso l’empatia fra due persone, o fra due popoli, o fra l’intera umanità. Ecco, quando si parla di comunicazione fra due anime è questo quello che penso: l’empatia. Purtroppo penso che l’umanità si stia incamminando fra altre vie, quelle dell’autodistruzione.

Gregorio Asero

LUPO SOLITARIO, di Gregorio Asero

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LUPO SOLITARIO, di Gregorio Asero

LUPO SOLITARIO

Cammino sopra la cresta della mia vita 

voglio raggiungere prima della mia sera 

la spiaggia della felicità.

Io lo so dove gettare l’ancora 

e solitario il mio passo condurrò 

alla fine dei giorni. 

Son sempre stato un viandante asociale 

e adesso che mi trovo davanti 

alla mia ultima meta 

ecco apparire il lupo 

che dal tempio mi chiama 

con gesti gentili.

Mi guarda dall’alto 

con occhi cangianti 

e scruta in fondo al mio dolore. 

Che vuoi adesso che sono dinnanzi 

alla fine del mio viaggio? 

Si lo so tu vuoi che ti chieda perdono 

e il soffice pelo della tua zampa

 mi accarezza furtivo.  

Lo so l’amore è il danno maggiore 

per chi vuole vivere come un lupo solitario 

per questo rido della mia follia 

mentre getto l’ancora nella rada promessa.

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da “ARCADIA” 

di Gregorio Asero 

copyright legge 22 aprile 1941 n. 633

Racconti: L’UOMO COMUNE, di Gregorio Asero

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Racconti: L’UOMO COMUNE, di Gregorio Asero

Spesso mi domando se la società che abbiamo costruito in occidente, specialmente dopo il famoso “68 sia una società giusta, a misura d’uomo, oppure sia un mostro che ha le sembianze della mitologica medusa dalle sette teste.

Io penso, e credo lo pensino in molti, almeno quelli che mettono in discussione questo modello di società, che stia per iniziare, mi auguro pacifica, una nuova rivoluzione.  Il mio auspicio è che i giovani comincino a mettere in discussione tutto quello che c’è di distorto in questa società, perché credo che la vecchia generazione abbia sbagliato obiettivo. È veramente questo tipo di società consumistica piena di computer, di tecnologia, di beni di consumo su larga scala, di cose che servono a tutto e a niente, la felicità a cui anelavamo? Sono convinto di no, e dico che questa felicità è qualcosa di infelice.

Va da se che questo è il mio pensiero, che contrariamente a quanto qualche lettore possa pensare non vuole essere un giudizio, non voglio sembrare un distruttore, ma un lettore dei costumi del nostro tempo.

Io penso che in questo momento la nostra cultura, la nostra filosofia, la filosofia cosiddetta occidentale, e non mi riferisco solo al modello capitalista, ma anche a quello cosiddetto comunista, abbia mancato il suo obiettivo. Credo sia arrivato il momento di fare una seria riflessione e fare il punto della situazione.

Io dico che l’uomo comune, che in tutti questi anni ha vissuto di consumismo, che si è nutrito di televisione asservita al capital/comunismo più sfrenato, di giornali confezionati da giornalisti servi del potere, di settimanali che decantavano il vuoto più assoluto e di tutti sistemi di informazione in loro possesso, abbia ricevuto un ordine imperativo a consumare e ad acquistare e a vivere secondo determinati schemi prefabbricati nelle stanze del potere. Lo scopo di questa filosofia era precisissimo: se compri quello che ti propongo e quando lo dico io, vivrai in un mondo felice e salutare. Però in tutto questo criminale disegno improvvisamente è sorto uno strano imprevisto: tutto questo meraviglioso mondo fatto di fiabe e rosee aspettative, si è incrinato.

È bastato che i paesi del terzo mondo volessero anche loro vivere in un mondo fatato perché tutta la grande economia capital/comunista e mondiale entrasse in crisi. Per cui, l’uomo comune ha cominciato a vivere la sua insicurezza nei confronti del futuro.

L’uomo comune credeva di essere felice con le sue belle autostrade, le sue macchine, le code ai caselli per le agognate ferie. In realtà il mondo in cui l’uomo comune era costretto a vivere non è altro che un inferno.

Io dico che l’uomo che vive secondo questi schemi è infelice e la sua frustrazione si riflette nell’impotenza in cui è costretto a vivere. Ecco perché questa società abbandona le persone più deboli, quasi come se si vivesse una lotta selvaggia per la sopravvivenza.

L’uomo comune questo lo sa, o perlomeno lo percepisce, per cui ne limita le sue funzioni vitali e si rende conto di vivere in una società aliena che non è più in grado di difenderlo. Comprende di vivere in una società piramidale dove al vertice della piramide non riesce nemmeno ad immaginare chi vi sia, mentre è consapevole, lui sì, di essere alla base di questo mostruoso monolite dove lui e tutti i suoi simili sono costretti a sopportare il peso di questa immensa struttura.

Se io avessi il potere, anche solo per un momento, di governare questo paese penso che il primo dei miei impegni sarebbe quello di tentare di realizzare un sogno utopistico e per questo motivo irrealizzabile: l’uguaglianza effettiva fra tutti gli uomini.

Lo so che mai nessun uomo lo concretizzerà ma almeno lasciatemi la possibilità di sognare.

Racconti: La tempesta che si scatena nel nostro cuore… Gregorio Asero

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Racconti: La tempesta che si scatena nel nostro cuore… Gregorio Asero

Quando una persona che dice di amarci ci procura un dispiacere questo dolore si insinua fra le nostre già esistenti preoccupazioni e i nostri impegni quotidiani, ma anche se vogliamo distoglierne l’attenzione esso ritorna sempre alla mente in modo, si doloroso, ma nel contempo in compagnia di altri dispiaceri. 

Al contrario, il dolore causato dalla persona che ci ama, quando stiamo attraversando un periodo felice o di relativa spensieratezza e questa persona dice di non amarci più, si viene a realizzare una situazione emotiva tale che può generare una brusca depressione poiché, se nel nostro cuore fino a poco prima stazionava un sentimento di gioia, improvvisamente, si viene a creare una tempesta contro la quale non si è in grado di reagire prontamente e si diventa incapaci di lottare contro questa nuova situazione. 

La tempesta che si scatena nel nostro cuore è così violenta per cui il pensiero si concentra esclusivamente verso la persona che ci fa soffrire. Il pensiero si rivolge sempre e solo a quella persona, come l’ago di una bussola che indica sempre e solo il nord. In queste nuove situazioni, in cui ci si ritrova, in genere, si ha la sensazione di trovarsi davanti ad una bilancia, dove su un piatto si vuole depositare il desiderio di apparire troppo umile e sottomesso nei confronti della persona amata pur di non rompere il rapporto e nell’altro piatto della bilancia, deporre il nostro orgoglio e amor proprio, in modo da farle credere che non abbiamo bisogno di lei con il rischio di farle credere di non essere indispensabile per noi e farla allontanare definitivamente. In ogni caso si viene a creare un danno esistenziale. E la domanda è: come comportarsi? Io non ho nessuna risposta.

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da ” I MIEI PENSIERI”

di Gregorio Asero

copyright legge 22 aprile 1941 n. 633

Riflessioni: IO LO SO, Gregorio Asero

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Riflessioni: IO LO SO, Gregorio Asero

I poeti fioriscono al buio

IO LO SO

Il tempo, inesorabile, prosciugherà come un arido ruscello i ricordi del tempo passato e la mente e il cuore dei miei figli viaggeranno verso altre emozioni. Verso il loro futuro.

Io lo so, il tempo toglierà dal loro quotidiano il mio nome, le mie arrabbiature, i miei rimproveri, le mille volte in cui li ho sorretti.

Io lo so, il tempo cancellerà, un poco alla volta o forse all’improvviso, la familiarità del nostro mondo, cancellerà l’odore delle nostra pelle che si mescolava al sudore di quando si giocava a pallone nel prato sotto casa.

Io lo so cesserà la confidenza che ci rendeva un corpo solo, cesserà l’affanno delle rincorse.

Io lo so, smetteranno, scherzosamente, di litigare per occupare la stessa sedia dopo aver corso “a chi arriva primo”.

Avranno la loro vita, il loro futuro e allora a separarci per sempre, subentrerà il pudore, il giudizio, la vergogna. La consapevolezza, che loro, ormai adulti, coglieranno le nostre differenze: loro proiettati al futuro ed io, oramai canuto e debole verso la strada che mi porta alla fine del mio lungo cammino. E come un fiume che scava con pacata costanza il letto su cui scorre, così il tempo minerà la fiducia che mi rese, ai loro occhi, onnipotente.

Capiranno che non era vero che io potessi fermare il vento, calmare il mare, sconfiggere i mostri cattivi.

Capiranno che non ero un mago o un guaritore che sanava le loro sbucciature con un semplice bacio, impareranno che non ero infallibile o immortale, che non ero un guaritore. Scopriranno che ero un uomo comune, un uomo fallace, e anche un poco bugiardo, ma solo per farli felici.

Smetteranno di chiedermi aiuto, perché avranno smesso di credere che io fossi in grado di salvarli.

Smetteranno di imitarmi, perché non vorranno diventare simili a me.

Smetteranno di cercarmi o di preferire la mia compagnia, scegliendo quella di chi li tratta da uomini e non da figli. Si perché per me saranno sempre i miei bambini, che posso sempre sgridare, e guai se questo non dovesse accadere. Vorrebbe dire che non sono cresciuti, che non sono diventati uomini.

Io lo so, sbiadiranno le passioni, la rabbia, la gelosia, l’amore e la paura.

Si spegneranno gli echi delle risate e delle canzoni che cantavamo a squarciagola quando, in auto, li portavo agli allenamenti di calcio.

Scorderanno le ninne nanne e i “C’era una volta” termineranno di risuonare nel buio a far loro immaginare un mondo fatato.

Con il tempo scopriranno di avere avuto un padre con molti difetti e pochi pregi e, se sarò fortunato, me ne perdoneranno qualcuno.

Il tempo, nella sua saggezza, porterà con sé l’oblio e una malinconica ricordanza. Dimenticheranno, perché saranno presi alla costruzione della loro vita, ma io… io non dimenticherò.

I baci, i pianti, gli abbracci, i giochi, saranno “cose” del tempo passato: indimenticabili.

Le gite in auto con la mamma, sempre premurosa e “chioccia”, le passeggiate, le febbri, le corse al pronto soccorso, le torte, le carezze mentre si addormentavano.

Si i miei figli dimenticheranno tutto, come tutti i figli del resto. Dimenticheranno che li ho cullati per ore e ore, e che li ho tenuti per mano o a “cavalluccio”. Dimenticheranno che li ho imboccati e assaggiato per primo la loro “pappa”, per assicurarmi che non scottasse troppo. Dimenticheranno che li ho consolati e sollevati dopo cento, mille cadute. Dimenticheranno di aver dormito nel “lettone” con mamma e papà, che c’è stato un tempo in cui hanno avuto bisogno di me quanto dell’aria che respiravano.

Dimenticheranno, perché è questo che fanno i figli, perché è giusto che sia così, perché è questo che il tempo pretende.

E io, io, non dimenticherò, non mi dimenticherò di loro. Io devo ricordare ma senza rimpianto, solo con tenerezza e amore, senza nulla pretendere in cambio.

Oramai sono un vecchio brontolone e ho capito che il tempo, sornione e indifferente, è stato buono con me perché mi ha concesso di veder diventare grandi i miei figli. È stato gentile con me e spero che lo sia anche con i miei figli

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da ” I MIEI PENSIERI”

di Gregorio Asero

copyright legge 22 aprile 1941 n. 633