Si parla tanto di mismatch tra domanda e offerta nel mercato del lavoro. Le imprese non trovano certe figure professionali. Danno perciò colpa alla scuola che non forma adeguatamente oppure danno colpa ai giovani che non vogliono sporcarsi le mani e non vogliono più fare certi lavori (ma ci sono alcuni titolari di attività commerciali che addirittura pagano pochissimo i giovani, da qui la definizione di generazione 250 euro, oppure che non vorrebbero pagarli, perché danno loro l’opportunità di imparare un mestiere). D’altronde l’Italia è fanalino di coda in Europa per le spese nell’istruzione. Quindi l’istruzione pubblica con le risorse economiche attuali a disposizione non può formare adeguatamente. Le aziende oggi investono molto di più di un tempo nella formazione dei dipendenti, ma non ancora in modo sufficiente per affrontare adeguatamente le sfide dell’innovazione e dell’intelligenza artificiale. Ma davvero poi i corsi aziendali, fatti da società esterne, spesso costosi, sono efficaci? Il vero tessuto produttivo italiano è costituito da piccole imprese. Sono queste il motore dell’economia italiana. Il sintomo manifesto che la formazione non è adeguata in queste imprese si vede dal fatto che i figli che dovrebbero rilevare le piccole ditte non si rivelano adeguati imprenditorialmente e perciò il problema maggiore di queste realtà è il mancato ricambio generazionale in gran parte dei casi. Se è vero che le grandi aziende se la cavano se i figli dei grandi imprenditori non sono validi, perché hanno un esercito di consulenti, professionisti, dirigenti, altrettanto non accade nelle piccole imprese, che hanno meno risorse economiche e meno professionalità. Nelle grandi aziende, nelle corporation, nelle multinazionali a dirigere e a governare non sono spesso i proprietari o i soci di maggioranza ma i tecnocrati, mentre nelle piccole imprese molto è delegato all’imprenditorialitá dei proprietari e degli eredi. Sempre a proposito di formazione a questo si aggiunga il fatto che molto spesso le aziende ricercano esclusivamente sia gente giovane in età di apprendistato che gente esperta, ovvero vogliono in gran parte lavoratori giovani da formare che lavoratori maturi già adeguatamente formati. Finisce così che i disoccupati cinquantenni si trovano senza futuro, senza pensare poi che le conoscenze diventano subito obsolete e i corsi per disoccupati delle regioni spesso servono a ben poco. Si parla tanto di formazione continua, ma spesso questa diventa autoformazione continua, che adesso è più efficace tramite il digitale learning, cioè con i corsi a distanza, online. Tutto ciò naturalmente finisce a carico, sulle spese del singolo individuo. Il fatto è che dobbiamo accontentarci di questa realtà economica, dato che le risorse sono quelle che sono e il mercato è quello che è. Siamo lontanissimi dalla società post-capitalista di Marx, in cui “da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni” oppure dallo slogan socialista “da ciascuno a secondo delle sue capacità, a ciascuno a secondo del suo lavoro”. Per Rousseau per combattere l’ineguaglianza e la forza bruta dello stato di natura ci voleva un contratto sociale tra i singoli e lo Stato, che esprimeva la sovranità popolare. Il contrattualismo è stato visto come la vittoria dello stato di diritto, della democrazia. Eppure in questi ultimi anni in Italia il diritto di lavorare e i diritti dei lavoratori sono venuti meno. Si pensi alla grande disoccupazione giovanile, per cui tanti ragazzi emigrano, o si pensi all’elevata precarizzazione dei lavoratori, che non hanno più garanzie per avere un mutuo dalle banche. Il governo Meloni festeggia perché è aumentato il tasso di occupazione, ma queste problematiche restano nascoste sotto il tappeto. Però i problemi restano, gli italiani li vivono quotidianamente sulla loro pelle, al di là dei trionfalismi di facciata.
