Ricardo Eliécer Neftalí Reyes Basoalto, decisamente conosciuto come Pablo Neruda  – di Frida la loka.

Lombardia

PUNTO E VIRGOLA.

Pablo Neruda con la moglie Maryka Antonieta Hagenaar.

“Mi chiamo Malva. Il nome è stata un’idea di mio padre, il grande poeta Pablo Neruda. Ma non l’ha mai pronunciato in pubblico”.

Quando si fa il nome di Pablo Neruda, lo si associa subito a un personaggio pubblicamente riconosciuto molto attivo nel campo politico, al contempo  nel campo delle lettere, Premio Nobel per la letteratura nel '71.
Spesso si parla della sua magnifica lirica e ben poco della sua vita personale.

Oggi lo faremo; d'una vicenda, una di tante in particolare, questa.

Ci farà riflettere s'un  Neruda uomo, uno di tanti, e Neruda poeta, politico, uomo esitoso e brillante.

Inizia così il romanzo Malva della scrittrice e storica olandese Hagar Peeter, oltre ad essere poetessa pluripremiata, è anche una storica. Per un decennio ha seguito le tracce della figlia di Neruda.
Ha trasformato l’indagine nel suo primo romanzo, un monologo con la voce di Malva nel ruolo di piccola inquisitrice:

"Perché tu, poeta degli oppressi, paladino della giustizia, mi hai espulso dalla tua vita? Perché sono fragile? Perché affetta di idrocefalia? Papà, perché mi hai abbandonata?". Neruda nelle sue memorie Confesso che ho vissuto, pubblicate postume nel 1974, non fa alcuna menzione dell’esistenza di una figlia sofferente. Un segreto custodito da ben 70 anni.

Nel tribunale immaginario del romanzo lei è parte e giudice. Con una prosa cristallina chiede giustizia usando un’arma identica a quella paterna, la poesia. La sua giuria popolare sono i lettori.

Così ci ricorda che i genitori, Maryka Antonieta Hagenaar, di origine olandese, e Pablo Neruda si erano sposati nel cuore dell’Indonesia, sull’isola di Giava, dove il poeta era console onorario nel 1930. Evoca la sua nascita a Madrid, nella cosiddetta “Casa de las Flores”, piena di gerani e luce, Ci farà riflettere s'un  Neruda uomo, uno di tanti, e Neruda poeta, politico, uomo esitoso.

Ma per il poeta cileno la nascita di una figlia malata e deforme (secondo la sua stessa descrizione) era fuori da ogni suo calcolo.

[...]In questo tribunale letterario ci sono altre aggravanti:
Negli archivi olandesi ho trovato poi anche tracce ben più drammatiche: la tessera di detenzione di Marika nel campo di transito nazista di Westerbork (lo stesso di Anna Frank), paradossalmente detenuta per essere sposata con uno straniero. Neruda era un diplomatico ma aveva proibito ai collaboratori di dare a sua moglie un passaporto cileno per fuggire dall’Olanda occupata dai nazisti durante la seconda guerra mondiale, dopo la morte della bambina" dice Hagar Peeters.

Nel giugno 1934, Neruda pubblica "Residencia en la tierra" e incontra l'argentina Delia del Carril, affiliata al Partito Comunista Francese, la famosa Formichina. Delia ha 20 anni più di lui e la storia d'amore sarà istantanea. Nell'agosto del 1934 (Maruca, com'era chiamata da Neruda), la moglie, partorì Malva.

Con un flash, rievoca i bombardamenti della guerra civile spagnola del 1936. Suo padre che la accompagna ad imbarcarsi insieme alla madre su un treno diretto a L’Aia. Sarà l’ultima volta che lo vede.

Neruda scrive all’amante del momento, di essersi liberato di un peso.

Riconosce che suo padre era un idolo della sinistra internazionale, perseguitato dalla destra che — tra le altre accuse — avrebbe voluto processarlo per bigamia. In Messico sposò in seconde nozze Delia del Carril, senza aver divorziato né informato sua madre, Maryka Antonieta.
Un mese dopo la sua nascita, Neruda scrive all'amica argentina Sara Tornú(con la quale ha anche avuto dei rapporti sentimentali): "Mia figlia, o come la chiamo io, è un essere assolutamente ridicolo, una specie di punto e virgola, una vampiretta di tre chili".  L'8 novembre si separò da Maryka e quel giorno abbandonò Malva.

Fugge con La Hormiguita a Parigi e inizia il segreto dell'abbandono di Malva, coperto per anni con la complicità della confraternita letteraria latinoamericana e del Partito comunista cileno, che ha anche nascosto abusi e maltrattamenti di decine di donne. Tutto è per Pablo Neruda.

Tuttavia, Malva è orgogliosa del padre: ha 5 anni, sente e capisce ma non può parlare. Nel suo corpo esile, cresce solo la testa. Guarda il mondo da una carrozzina in legno. È il 1939, anno della grande impresa umanitaria guidata da Pablo Neruda che riuscì a salvare 2 mila spagnoli antifranchisti rifugiati in Francia. Tra loro 250 bambini, alcuni della stessa età di Malva. Mobilitò donazioni in tutta Europa per noleggiare e riparare una nave, la Winnipeg, dove li imbarcò perché potessero iniziare una nuova vita in Cile. Due piccole mani applaudono l’eroismo di questo padre che incarna l’avanguardia poetica e politica. Ma perché a me non hai dato una seconda possibilità?

Maryka si avvicina a una chiesa a L'Aia, dove trova un asilo nido per Malva. Lì sarà assistita dalla coppia di sposi Hendrik Julsing e Gerdina Sierks. Neruda non risponderà mai alle suppliche della moglie abbandonata, di mandargli 100 dollari al mese.

Attorno a Malva ci sono altri bambini, compagni di gioco e sofferenza. Si diverte con altri figli abbandonati da personaggi celebri, impegnati a migliorare l’umanità. Come Lucia, la figlia schizofrenica dello scrittore James Joyce. O Daniel, secondogenito del drammaturgo Arthur Miller, affetto da sindrome di Down. L’autore di Uno sguardo dal ponte ed Erano tutti miei figli si era battuto contro la guerra del Vietnam definendosi “la coscienza dell’America”. Lui, uno dei mariti della divina Marilyn Monroe, quando con la grande fotografa e prima photoreporter dell’agenzia Magnum Inge Morath ebbe un figlio imperfetto, lo nascose per 40 anni. Malva menziona anche Edward, primogenito del Nobel per la fisica Albert: ricoverato e dimenticato in una clinica psichiatrica di Zurigo fino all’ultimo dei suoi giorni.

Maryka vive in pensioni e lavora su quello che trova per mantenere Malva, prega Neruda di mandarle dei soldi per darle da mangiare: «Spenderò fino all'ultimo centesimo per spedire questa lettera».
La figlia del premio Nobel per la letteratura morì all'età di 8 anni il 2 marzo 1943 a Gouda.

Neruda, che incarna l'avanguardia poetica, l'intellettuale militante calamita per il socialismo in Sud America, negò loro anche il salvacondotto per lo scambio di cittadini che li avrebbe salvati da un'Europa impantanata nelle fatiche della seconda guerra mondiale.

La piccola Malva non è citata nelle sue memorie né vi è un verso a lei dedicato.  Ma il cinismo di Neruda è palpabile in “Canto a las madres de los milicianos muertos” dove finge un affetto che contrasta con l'abbandono che ha fatto provare a Maryka e a sua figlia.
Fonti: Mary Villalobos (Reppublica)
Hagar Peeter, scrittrice, storica.
http://viaggiatiriignoranti.it
https://www.uchile.cl
Foto di portata: Casa de las flores, España.

Tua

20 marzo, 2023.

Dal blog personale di

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Su metànoia, vincolo elettorale, parlamentari, coerenza, voltagabbana, etc efc

Dalla Treccani apprendiamo: “Metànoia s. f. [traslitt. del gr. μετάνοια, der. di μετανοέω «cambiar parere», comp. di μετα- «meta-» e νοέω «intendere, pensare»]. – 1. Profondo mutamento nel modo di pensare, di sentire, di giudicare le cose. Nel Nuovo Testamento, il termine indica il totale capovolgimento che si deve operare in chi aderisce al messaggio di Cristo nel modo di considerare i valori etici, culturali, politici e sociali correnti (e le beatitudini evangeliche sono l’espressione della metanoia cristiana)”. Anticamente la  metànoia comprendeva anche un profondo pentimento. Nel ravvedimento c’era un rimorso postumo. Il problema non è tanto, come scriveva Prezzolini, che la coerenza è la virtù degli imbecilli. Il problema in questa Italia è che chi cambia idea o casacca troppo spesso è un furbastro e un venduto.  Secondo i dati di Openpolis dall’inizio della legislatura (il 23 marzo 2018) al 4 agosto 2022, hanno cambiato casacca 299 parlamentari sui 915 totali, ovvero quasi  un terzo. Diciamocelo francamente: in Italia c’è una vendita di parlamentari spaventosa. Vince chi ha più soldi. Da tempo si parla di non tradire il mandato elettorale, di mettere un vincolo di mandato, ma nessuno fa niente. A onor del vero questi buoni propositi rimangono carta straccia.  Cambiare idea, visione del mondo, sistema di pensiero è del tutto legittimo. Ci sono persone che erano di destra e diventano di sinistra e viceversa. Importante è che ciò avvenga in tutta onestà intellettuale e non per calcolo politico, né per tornaconto personale. Altrimenti cambiare può diventare molto sospetto. In Italia invece tutti vanno in soccorso del vincitore.  Purtroppo in questo Paese i voltagabbana di professione cambiano continuamente casacca per interesse, per soldi e per potere. La  cosa che fa più ridere è sentire a distanza di tempo molti parlamentari sconfessare totalmente ciò che dicevano di credere ieri o l’altro ieri. Dimostrano davvero molto pelo sullo stomaco e una grandissima faccia tosta. Forse la verità è che non credono in niente, che fanno finta di credere in qualcosa. Ma di questo mercato dei parlamentari non se ne parla mai, questo antico malcostume viene sempre sottaciuto. Soprattutto gli stessi partiti politici sono da condannare perché permettono questo stato di cose e vanno sempre a caccia di personaggi degli altri schieramenti, offrendo benefit e soldi, in una perenne cooptazione informale che a volte diventa corteggiamento cinico, spietato, ossessivo.  Insomma per una volta tanto è proprio il caso di dire che il pesce puzza dalla testa! In fondo se ci pensate bene ancora prima di incoerenza questo è un fatto di onestà o di disonestà.

Un mondiale giocato per soldi… pardon!, la coppa. Diritti negati.

Ripubblicato da Frida la loka (Lombardia)

Articolo di Riccardo Cucchi

Ci sono gesti che hanno fatto la storia dello sport: il pugno guantato di Smith e Carlos a Città del Messico, le quattro medaglie d’oro di un esultante Owens davanti al razzista Hitler. Gli atleti statunitensi nel ‘68 avrebbero voluto boicottare i giochi. E la stessa sorte sarebbe potuta toccare ad Owens visto che il Comitato Olimpico americano aveva preso in considerazione l’idea di boicottare i giochi di Berlino. Le cose andarono diversamente. E l’immagine di Carlos e Smith sul podio dei 100 metri è ancora oggi uno dei più forti messaggi che lo sport sia stato in grado di trasmettere. C’è un’altra immagine, da oggi, che potrebbe entrare nella storia. E’ quella che la regia internazionale dei Mondiali in Qatar ha negato alla platea degli spettatori ma che ha fatto il giro del web più velocemente di quanto Infantino e la Fifa potessero immaginare. Perché censurare, oggi, è molto più difficile che in passato. E’ quella della squadra tedesca immortalata prima della gara contro il Giappone. Gli 11 calciatori si fanno ritrarre nella foto di rito con la mano davanti alla bocca. Censurati dalla Fifa ma convinti che i valori siano più forti di qualunque minaccia di sanzioni. Perché questo la Fifa aveva fatto: minacciare di ammonire i capitani che avessero deciso di indossare la fascia “One Love”, un chiaro riferimento alla libertà di amare, alla liberà di orientamento sessuale.

Di più. Infantino, Presidente della Fifa in odore di riconferma, aveva indirizzato a tutte le federazioni presenti al Mondiale un messaggio netto: che si parli solo di calcio. Vietate dunque prese di posizioni in favore dei diritti o riferimenti ai 6500 operai immigrati che hanno perso la vita per realizzare gli stadi e le infrastrutture del Mondiale più costoso della storia. Un invito al silenzio. Un paradosso per l’organismo calcistico planetario impegnato su campagne per il rispetto e contro ogni forma di razzismo. Un paradosso e una incapacità palese di cogliere il profondo rapporto tra il calcio e la vita. Isolare il gioco più amato del pianeta dalla vita nella quale è immerso quotidianamente è ignorare le ragioni stesse della sua profonda e radicata presenza nella cultura popolare di ogni emisfero. ’ stato un errore assegnare il Mondiale al Qatar, assegnarlo cioè ad un paese in cui manca il rispetto dei diritti umani e civili. Ed è fallito anche il tentativo di convincerci che proprio attraverso il Mondiale qualcosa sarebbe potuto cambiare anche nell’emirato. Gli impegni assunti dal governo qatariota sono stati disattesi, come ha denunciato Amnesty International. Hanno vinto i soldi. Un calcio sempre più vorace ha accettato di giocare il suo Mondiale nel paese che offriva di più; non ha vigilato sui diritti dei lavoratori durante la costruzione delle opere; ha ignorato i diritti delle donne calpestati. In cambio di denaro. Il calcio può vendere i diritti di immagine. Non può vendere la sua anima, pena smettere di essere sport e diventare puro spettacolo, come qualcuno vorrebbe. La minaccia di ammonire i capitani che avessero indossato la fascia arcobaleno, è la minaccia di ammonire chi si professa a favore dei diritti. Ed è semplicemente inaccettabile. l calcio deve stare fuori dalla politica. E’ vero. Ma i diritti non sono politica, sono diritti. Il gesto della squadra tedesca ci consegna un pizzico di speranza. La speranza che il calcio non cada in un baratro dal quale non sia più in grado di risollevarsi. Il calcio non può cambiare il mondo, ma può spiegare che il mondo può essere cambiato.

Tua.

27 dicembre 2022.

Dal blog personale

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Lui, l’anticomunista (piccola storia insignificante)…

Lui era anticomunista. Il resto della cittadina era comunista, anche se per comodo e per opportunismo votava partiti di centrosinistra. Per le sue idee si era fatto dei nemici, era malvisto,  gli avevano fatto terra bruciata. Le ragazze non lo volevano, lo rifiutavano sempre, al massimo lo illudevano con un gioco di sguardi prolungato e poi andavano a fare ammucchiate con altri, rivelandosi con lui molto scostanti e altezzose.  Lui era anticomunista e questo era il minimo che potesse succedere. Dicevano anche che era pazzo, gay, ritardato mentale, impotente, minidotato sessualmente, molto brutto. Lui li lasciava dire. D’altronde nessuno avrebbe testimoniato a suo favore perché erano tutti contro di lui. Così la diffamazione continuava. Lui era anticomunista e tre volte l’avevano picchiato a sangue per questo: pugni in faccia, una volta anche un calcio in faccia, varie escoriazioni sul corpo. Naturalmente era roba tra ragazzi o al massimo tra giovani uomini  e poi nella civilissima Toscana a volte si prendono e a volte si danno. Lui era anticomunista. E alcuni giovani estremisti di sinistra per un periodo lo attenzionarono, lo pedinarono,  volevano attentare alla sua incolumità fisica. A riprova della grande civiltà toscana fu il fatto che il corso  di Pisa era pieno di studenti che protestavano per l’incarcerazione di quei giovani che oltre a pedinare lui avevano fatto attentati incendiari ad altre persone ed erano stati fermati tempestivamente dalle forze dell’ordine. Ma il popolo toscano dava solidarietà ai delinquenti e non alle vittime designate o potenziali. Ma erano forse delle ingiustizie? Al mondo c’erano ingiustizie più grandi e poi per teoria e per prassi i comunisti non commettono mai ingiustizie: i comunisti sono buoni e se talvolta usano la violenza è del tutto legittimo perché è per la rivoluzione.  E poi se tutto gli andava male nella vita in quella cittadina  bastava ascoltare i Negrita e capire una volta per tutte che quella cittadina non era Hollywood! Ma perché non poteva andare via? Era impossibilitato per ragioni familiari. Lui era anticomunista e non aveva amicizie né un lavoro perché le conoscenze, le pubbliche relazioni contavano molto in quel posto. Lui amava scrivere, ma anche lì nel mondo delle patrie lettere, nel 2000 e oltre, bisognava essere comunisti e scrivere per i comunisti cose da comunisti. Così finì solo e dimenticato da tutti. Nessuno lo aiutò e poi naturalmente aiutati che Dio ti aiuta. Lui era una mezzasega, un mezzo uomo e forse anche meno perché non aveva una donna, non aveva una famiglia,  non aveva un lavoro. Quando morì nessuno lo ricordò. La gente era ormai diventata di destra perché faceva comodo, per opportunismo, per quieto vivere, per calcolo, per protesta. Ma anche la destra non lo vedeva di buon occhio perché non lui non si era mai venduto, mai allineato, mai iscritto e non aveva mai militato. Lui era uno che non aveva mai risparmiato critiche. Nessuno andava mai a visitare la sua tomba perché quando uno è morto è morto e a cosa serve? E poi i pochi che lo avevano conosciuto bene lo odiavano perché lui in vita era uno che aveva avuto tanto tempo da perdere e lo aveva perso e sprecato bene. Non si era industriato, non aveva rischiato, non era stato un uomo pratico. La gente si era a ogni modo dimenticata in fretta di lui e poi cosa c’era da ricordare? Assolutamente niente. Rimanevano disseminati in angoli del web i suoi scritti, che alcuni leggevano senza sapere che era morto. Lui era stato un anticomunista. Sipario. 

SULL’ABBAINO, di Silvia De Angelis

Inaccessibili varchi

ove sconcerto e amarezza

oltraggiano la sensibile caratura

d’occhi tessuti di capogiri.

Disseccate lacrime

albergano alla foce

d’un pianto penzoloni

inabile tracciare rigagnoli

sull’incarnato uggioso.

Il collante d’esistenza

narra d’un sottovoce caparbio

plausibile battibecco

di forza intima

tenuta in serbo sull’abbaino

@Silvia De Angelis 

Ancora due mie parole su Berlusconi…

E se senti i suoi fedelissimi o quelli che almeno un tempo erano sul suo libro paga ti fanno sentire coglione,  ti rassicurano, cercano di illuminarti d’immenso, di convincerti che sei tu il poveretto che non capisce niente e ti confermano che Berlusconi è un uomo di pace, che vuole iniziare una trattativa con Putin, che lui può veramente fare qualcosa per convincere il russo a terminare le ostilità. Sei tu che non capisci cosa c’è dietro, il gioco di sponda raffinatissimo, la mossa geniale del cavaliere. Avessi io la loro abilità nel salvare capra e cavolo! Avessi io la faccia tosta nel negare l’evidenza dei fatti! Sono io che sono stupido, che sono fisso. L’ho sempre detto che per stare bene in Italia bisogna accettare i compromessi, che per stare comodi bisogna essere accomodante!  Naturalmente tutti i suoi fedelissimi, i suoi yes men invece di farlo ravvedere, di consigliarlo, di rabbonirlo, rafforzano ancora di più le sue convinzioni, alcune volte inasprendo ulteriormente lo scontro ed esacerbando gli animi. Ne sono una controprova quegli applausi dei suoi parlamentari ai suoi discorsi. Nessuno dei suoi fedeli trova il coraggio, la determinazione di dirgli a chiare lettere: “ti stai sbagliando. Stai imboccando una strada che non porta a niente. È estremamente deleterio per l’immagine della nazione quello che stai dicendo”. Ma d’altronde a chi spetta l’ingrato compito di correggerlo? Qualcuno ha detto che i figli del cavaliere sono costretti a fare i genitori del proprio genitore, ma senza conseguire finora i risultati sperati. Insomma bisogna guardarsi bene dal criticare negativamente Berlusconi. Lui è inattaccabile, inossidabile, invincibile. Che poi la dicotomia dire/fare quando si è ai vertici della politica nazionale non esiste: dire una cosa grave significa fare una cosa grave. Berlusconi non era al bar dello sport quando ha fatto quelle esternazioni (con tutto il rispetto dei bar dello sport). Sapeva benissimo che la stragrande maggioranza della sua vita è pubblica, sotto i riflettori. E se non ha valutato adeguatamente le conseguenze significherebbe che non è più idoneo per la politica. Se invece molto più probabilmente aveva calcolato, ponderato tutto la cosa è ancora più grave. Ogni atto linguistico in politica ha un’enorme perlocutorietà, ha delle grandi ripercussioni pratiche. Certi suoi fedelissimi lo difendono a spada tratta, con le unghie. Continuano imperterriti l’opera di rimozione a tratti oppure di manipolazione. Tutto ciò mi stupisce, mi allibisce, mi lascia basito. In fondo mezza Italia deve molto a Berlusconi, soprattutto i vip, che hanno spesso iniziato a calcare le scene del mondo dello spettacolo nelle sue reti televisive, soprattutto sondaggisti e giornalisti che hanno lavorato o lavorano per lui. Io sono un povero ritardato mentale che non sa cogliere i nessi e le sfumature, che vede degli errori/orrori nelle strategie comunicative e politiche dove ci sarebbero lungimiranza e un’iniziativa di carattere internazionale. Così Berlusconi diventa un santo, un eroe o almeno viene configurata e ventilata la possibilità che a pieno diritto possa esserlo. Sono io che sono duro di comprendonio e magari per queste mie parole per alcuni berlusconiani troppo polemiche o sarcastiche oltre a quelle di ieri, espresse proprio in questo blog, sono anche perseguibile legalmente. L’importante è farla pagare a chi si oppone, a chi critica, a chi si mette contro. Fondamentale è farla pagare cara a chi la pensa diversamente. L’importante è rigirare la frittata, difendere l’indifendibile. Ah se fosse legale ciò che è legittimo e se fosse illegale ciò che è illegittimo! Che mondo migliore che sarebbe! A volte per non arrampicarsi troppo sugli specchi sarebbe da dire una cosa sola: “scusate, ho sbagliato”. La questione di fondo è che le persone comuni non dovrebbero lasciarsi abbindolare, lasciarsi persuadere da Berlusconi e neanche dai suoi fedelissimi. Dovrebbero sempre vedere da che pulpito viene la predica e la propaganda. Intanto le polemiche sterili non aiutano il Paese. Se le dichiarazioni berlusconiane sono state solo un gioco non è stato un gioco innocente! È stato un gioco al massacro per il governo che deve nascere, per l’Italia intera. Che siano frutto di razionalità e non siano dei vaniloqui di un anziano può benissimo darsi, ma vorrei comunque sapere Berlusconi a quale titolo si è arrogato questo diritto di  creare scompiglio? E soprattutto a quale pro? Non si può lasciar correre come se non fosse accaduto niente. È successo molto in questi giorni e tutto ciò che è successo a mio modesto avviso non si può giudicare che negativamente. Anche gli errori, le provocazioni, le sparate fatte di proposito sono errori, anzi se fatte apposta sono di una gravità maggiore.  Qualcuno obietterà dicendo che è la solita sceneggiata all’italiana, che è un colpo di teatro, che il cavaliere sa benissimo quel che fa. Invece io nutro dei seri dubbi. Penso che c’è il rischio di finire alla deriva, di sprofondare nell’abisso. Finisce così per essere tutto delegato al livello di sopportazione della Meloni, ma ancora una volta bisogna chiedersi fino a che punto sono tollerabili le dichiarazioni del cavaliere. Dopo la pandemia, la guerra, il rincaro dei prezzi, la grande crisi economica, l’enorme debito pubblico, l’instabilità politica ci mancavano anche le bizze senili del cavaliere (a mio avviso gli audio sono molto eloquenti e inequivocabili). Sarà un grande giorno per la democrazia quando il cavaliere si ritirerà a vita privata. Ormai il cavaliere deve rassegnarsi perché ha fatto il suo tempo, almeno nella politica italiana. Sono disposto a sopportare tutto il bailamme che faranno le sue televisioni e tutti i mass media quando si ritirerà (tanto non la guardo la televisione, ma al massimo mi tocca ascoltarla sottofondo perché la guardano i miei familiari). Lunga vita al cavaliere, ma a casa sua! Senza odio né rancore.

Estremisti psichici, nel pensiero, nell’azione, disagio sociale e rabbia…

Tutti siamo estremisti psichicamente,  più esattamente nell’inconscio. Tutti abbiamo un lato oscuro, una parte atavica, che desidera  uccidere qualcuno. Molti non lo confessano, non lo ammettono pubblicamente,  ma non siamo ipocriti perché è davvero così.  Anche io ho i miei scatti d’ira, i momenti che vorrei fare fare fuori qualcuno che mi rompe, che mi dà fastidio, che mi urta. Naturalmente sono solo mezze idee vagheggiate appena e mai realizzate. Ci vuole un attimo soltanto per diventare vittima o carnefice. È anche per questo che conduco una vita molto solitaria, lontana da stimoli psicosociali negativi, per quanto possibile. Cerco di evitare per quanto sta nelle mie forze le persone negative. La mia solitudine è la mia dolce compagna. Evito malignità e stupidità.  Ho solo un amico di vecchissima data che frequento. Ho la vaga sensazione comunque che per non diventare assassini o violenti bisogna fare una certa autoanalisi, saper fare introspezione, sapersi guardare dentro, sapersi conoscere dentro, in una parola sola insomma lavorare su di sé. Penso che bisogna coltivare l’interiorità per evitare la violenza e a volte questo non basta. Molto spesso fortunatamente gli intenti bellicosi vengono tenuti a freno. Ma qualche volta, seppur raramente, accadono nel mondo le aggressioni, gli omicidi. Però la cosa non è semplice. Ci sono gli estremisti nel pensiero e altri che sono estremisti nell’azione. Ci sono persone che scindono pensiero e azione. Ci sono estremisti ideologici e politici che non hanno mai fatto male a una mosca. Ci sono moderati politici che uccidono la moglie o il vicino. Ci sono estremisti non  violenti e violenti non estremisti. Secondo gli albori del politicamente corretto l’estremismo è il peggiore dei mali e sempre secondo questo politicamente corretto d’antan l’estremismo derivato dall’aspirazione all’uguaglianza è molto più giustificabile di altre forme. Ci possono essere estremisti rivoluzionari ed estremisti controrivoluzionari. Ci possono essere estremisti dell’innovazione ed estremisti della tradizione. De Maistre ad esempio era un estremista della controrivoluzione e della tradizione.   L’orientamento politico estremo non è che una delle molteplici dimensioni di una persona e non è detto che sia la più pregnante, la più significativa,  la più importante (il climax è voluto). Difficile a ben vedere tracciare una linea di demarcazione netta  tra moderati ed estremisti. Nel 1978 quando rapirono Moro molti simpatizzarono, parteggiarono, tifarono per le Brigate Rosse perché Moro con il compromesso tra Dc e Pci per alcuni voleva conciliare l’inconciliabile e queste persone,  tifose delle Br, non pensavano alla sua vita umana. Si pensi anche al fatto che secondo un sondaggio antelitteram dell’epoca se le Brigate Rosse si fossero presentate alle elezioni come partito politico avrebbero preso in via del tutto teorica 200000 voti. Perché le Brigate Rosse hanno perso? Per vari motivi: per l’opposizione della società civile, per gli assassini da parte dei brigatisti di un operaio come Guido Rossa e di un antennista televisivo come Peci, per la fine della guerra fredda, etc etc.  Ci sono anche moderati teoricamente che all’atto pratico alzano i toni, vogliono lo scontro politico e di fatto gettano benzina sul fuoco, istigando i violenti. Ci sono persone moderate che vanno fuori dai gangheri e fanno dichiarazioni pubbliche inopportune e violente: sono parole preterintenzionali in questi casi, che vanno al di là delle intenzioni, soprattutto se qualcuno è particolarmente arrabbiato e ha i suoi cinque minuti, per così dire. Ci sono allo stesso modo estremisti politici che tengono un doppio linguaggio, dimostrandosi moderati, non violenti ufficialmente e rivelandosi sanguinari privatamente, aizzando i loro adepti a compiere crimini. A volte mi chiedo se Adriano Sofri sia veramente moderato e riflessivo come nei suoi libri o se invece sia sempre quello della giovinezza. La stessa cosa a suo tempo mi chiedevo per Lanfranco Pace, che era un giornalista molto ponderato. A volte certe persone non sono più le stesse della giovinezza. Inutile riprendersela con loro. Hanno pagato il fio. Che su di loro scenda pure l’oblio! E se qualcuno li rammenta spero sia solo per indicarli come cattivi maestri e non per prenderli come esempio. Ci sono i pentiti, coloro che rinnegano idee e azioni di un tempo. Anche gli ex terroristi evolvono, cambiano radicalmente, nutrono molti rimorsi, vivono angosciati tra i sensi di colpa. Alcuni scusano il passato ritenendo che fosse colpa dei furori e dell’ubriacatura ideologica di un’epoca ormai lontana. Oggi il contesto storico e politico  è completamente diverso. Ma c’è un disagio sociale e una rabbia che sono fisiologici in questa società.  Tutto ciò può essere represso con la forza. Ma per certe cose la forza da sola non serve. Oppure si può cercare di comprendere. Sta anche ai giovani cercare di trasformare la rabbia e il disagio sociale in qualcosa di costruttivo, di positivo, di armonioso, per quanto la politica non dovrebbe abbandonarli a sé stessi.  Condannare ogni forma di aggressività è come gettare il bambino con l’acqua sporca.  Bisogna essere comprensivi e tolleranti nei confronti di chi si sente mancare il terreno sotto i piedi, di chi fa la fame, di chi è povero. È chiaro e l’ho sempre detto che a stomaco pieno si ragiona meglio.  Ma il disagio e la rabbia è anche delle persone di mezza età che si trovano licenziate in tronco con una email da parte della multinazionale, che si trovano a fare i rider rischiando l’infarto, che sono costrette a chiudere un’attività senza l’opportunità di trovare un lavoro e finendo sul lastrico. La politica deve assistere queste persone, che non hanno più voce in capitolo o che comunque non vengono ascoltate più  da nessuno affinché la violenza non alberghi nelle loro menti e nei loro animi. 

Evita Perón

Da Frida la loka ( Lombardia)

Quanti di voi sanno, che al Cimitero Maggiore di Milano c’è la tomba di Evita Perón?! E bene sì.
La storia è questa: Evita muore nel 1952 di cancro all’utero. Alla sua morte viene chiamato l’imbalsamatore più amato da tutti i presidenti del mondo (uno che aveva impagliato Lenin per dire), il quale dopo un anno di lavoro consegna il corpo della donna all’eternità. Fin qui tutto bene.
Ma come ben sappiamo, in quella polveriera che è il Sud America, ogni tanto c’è qualche esplosione politica e nel 1955 il presidente Perón viene destituito con il più classico dei colpi di stato militari.
Una delle prime decisioni che il nuovo governo prende è quella di FARE SPARIRE IL CORPO DI EVITA: se da viva la first lady era stata un simbolo, beh da morta può diventare oggetto di venerazione popolare.

Dopo vari spostamenti della salma tra un ufficio e l’altro di Buenos Aires, ad un certo punto si decide: il corpo deve farsi un bel viaggetto in Europa. Non chiedeteci perché fu scelta Milano, ma, complice non ufficiale ” la Chiesa”, dopo varie altre peripezie il corpo finisce in una tomba del Cimitero Maggiore con il nome di Maria Maggi de Magistris. Qui rimarrà dal 1957 al 1971, prima di ricongiungersi con il marito e ritrovare la via di casa.
Ecco nell’immagine la lapide che ricorda Eva.

Fonte: Milanoguida


Da Ferruccio Pinotti.

«Signora, prosegua nella lotta per i poveri, ma sappia che se fatta sul serio questa lotta termina sulla croce».

Forse è in questa frase del 1947 di Angelo Roncalli, futuro Papa Giovanni XXIII, che va cercato la spiegazione del mistero che ancora avvolge la carismatica figura di Evita Perón (1919-1952), seconda moglie del Presidente Juan Domingo Perón e First Lady dell’Argentina dal 1946 fino alla morte nel 1952, a soli 33 anni. Gli alti prelati non parlano mai a caso, perché forti della rete informativa più antica e capillare del mondo. Questo avvertimento sibillino di Roncalli è stato perciò giustamente valorizzato nel frontespizio del libro di Giovanni De Plato Il mistero di Evita edito da Chiarelettere (188 pagine).

Un libro che parte da una fascinazione personale, quella per Evita Perón, da parte dell’autore, che con l’Argentina ha avuto rapporti costanti. Giovanni De Plato, psichiatra, ha ricoperto il ruolo di professore associato di Psichiatria all’Università di Bologna ed è stato direttore di Master presso la sede di Buenos Aires e consultant dell’OMS per la promozione della salute mentale in America Latina. È autore di volumi scientifici, saggista, scrittore ed editorialista. Tra i suoi principali testi didattici, il Manuale di psicologia e psicopatologia delle emozioni (2015); il Manuale di elementi di psichiatria (2016). Questa ricca e complessa storia professionale spiega il perché De Plato si sia interessato con tanta passione alla storia di Evita, ponendosi delle domande inquietanti, ma legittime.
Perché la Prima Dama di Argentina María Eva Duarte de Perón, detta Evita, fu lobotomizzata durante un’operazione coordinata da un’équipe medica americana? Perché le sue cartelle cliniche vennero distrutte e il suo corpo venne sepolto in segreto nel Cimitero maggiore di Milano per oltre un decennio, tra il 1957 e il 1971? Da queste domande, prende le mosse la ricerca di De Plato alla scoperta della vera causa della morte prematura di Evita: la donna più amata dal popolo, la leader più venerata della rivoluzione giustizialista argentina, un mito che continuamente si rinnova attraverso film, canzoni, libri. L’impegno sociale – e per la causa femminile – fa di Evita una figura di indubbia importanza storica, anche se la sua vicenda si intreccia con lo controversa carriera politica del marito.
A narrare la tragica storia di amore e potere della coppia presidenziale sono i tre protagonisti del libro, strutturato come un romanzo-verità: María Eva Duarte, Juan Domingo Perón e il sindacalista Carlos Maiorino. Ognuno di loro è un “io narrante” e racconta direttamente quello che sa e vive, in una trascinante testimonianza fatta di continui colpi di scena. Le loro parole permetteranno al lettore di ricomporre la vera storia di Evita

Una vita da protagonista assoluta. E una morte tragica, da donna tradita e sola che si è dovuta confrontare con un nemico straniero intollerante e spietato. Nel prologo del libro sono spiegate le premesse della narrazione: «Nel luglio del 2015 la rivista scientifica nordamericana Neurosurgical Focus pubblica un saggio di Daniel E. Nijensohn, neurochirurgo di origine argentina e professore della facoltà di Medicina della Yale University del Connecticut. Nell’articolo Nijensohn sostiene che María Eva Duarte de Perón, fu sottoposta nel luglio del 1952 a un intervento di lobotomia (procedura che seziona le connessioni nervose della corteccia prefrontale del cervello, modificando la personalità, talvolta fino alla catatonia, ndr), effettuato dall’americano James L. Poppen, neurochirurgo della clinica Lahey di Boston. L’operazione è stata confermata dalla cilena Manena Riquelme, infermiera ferrista di Poppen, che ricevette l’informazione personalmente dal medico, non avendo lei partecipato all’intervento nell’ospedale di Buenos Aires. María Eva, osannata dal popolo come Evita, si spense il 26 luglio di quell’anno, pochi giorni dopo l’intervento. Aveva solo trentatré anni. Morì perché malata di un cancro incurabile o la sua fine fu anticipata deliberatamente da un disegno misterioso, forse di mano straniera? Accelerando la morte della prima dama dell’Argentina, si voleva sopprimere anche l’interpretazione più radicale del peronismo giustizialista?»

Foro ufficiale

De Plato riconosce che non tutto ciò che circonda Evita e Perón è soffuso di luce e gloriose battaglie per il popolo. «A questi inquietanti interrogativi sull’atroce fine della donna del Novecento più glorificata in Argentina e più ammirata in America Latina e nel mondo – prosegue – se ne aggiungono altri non meno gravi, che riguardano le figure pubbliche e private di Juan Domingo Perón e María Eva Duarte. Perón era uno statista riformatore e lungimirante o un reazionario fascista, uno spregiudicato uomo di potere, sempre pronto al compromesso con le gerarchie militari e con le potenze straniere? Era un amico del popolo o uno scaltro militare, un demagogo senza principi, disponibile a tutto pur di conservare e accrescere il proprio potere? E María Eva era davvero la signora della nazione o una popolana ribelle che ambiva al ruolo di rivoluzionaria, restando vittima della propria ignoranza e del proprio velleitarismo? In un mondo diviso in blocchi contrapposti, dove i due contendenti si fronteggiavano e si combattevano senza esclusione di colpi, il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti aveva deciso di fare dell’Argentina il proprio “cortile di casa”. La risposta a quest’ultimo interrogativo potrebbe svelare anche il mistero della lobotomia imposta a Evita e della sua fine precoce. È da quei giorni di luglio del 1952 che si cerca di stabilire una qualche verità storica»

Domande più che appropriate, alle quali se ne aggiungono altre – che il libro non solleva – perché quando Perón, il 13 ottobre 1973, torna per la seconda volta trionfalmente al potere in Argentina, il capo della P2 Licio Gelli fa parte del suo seguito e presenzia – in smoking e farfallino – alla cerimonia alla Casa Rosada (sede del governo a Buenos Aires) che celebra il ritorno al potere di Perón e della sua terza moglie, l’ex ballerina di night Maria Estela Martinez, alias Isabelita che viene nominata Vicepresidente. Perón presenta a Gelli il proprio segretario, José Lopez Rega, ex caporale della polizia e massone appassionato di riti esoterici. Tramite Lopez Rega, come emerge dalla Commissione parlamentare sulla Loggia P2. “Gelli aveva delle relazioni con Perón e con tutto il settore di governo, che credo nessun cittadino italiano abbia mai avuto, un rapporto politico e soprattutto di carattere commerciale molto importante”.
Entrato nell’entourage governativo, il capo piduista stabilisce una serie di contatti ad alto livello con l’ente petrolifero argentino; lo fa a nome della Banca nazionale del lavoro, allaccia rapporti con banchieri; avvia varie attività di import-export e riceve pure un passaporto diplomatico argentino (n. 001847), diventando Console onorario argentino a Firenze. La morte di Perón il 1 luglio 1974, non intacca nulla del potere che Gelli si era costruito, anzi. Il successivo 2 settembre, con decreto n. 73, il nuovo governo argentino lo designa come Consigliere economico dell’ambasciata in Italia. Anche se formalmente retto da Isabelita, chi tira le fila nella cabina di regia del governo è Jose Lopez Rega, iscritto alla P2 che dopo il golpe del 1976, diventa il cinico organizzatore dei famigerati squadroni della morte.
Questa è indubbiamente un’altra storia, rispetto a quella di Evita: ma la complessità del contesto e del periodo storico non può essere ignorata.

Tua.

16 settembre, 2022.

http://fridalaloka.com

L’Italia è un Paese in rovina, di Pier Carlo Lava

L’Italia non è un Paese Giusto

di Pier Carlo Lava

In Italia lo stipendio dei lavoratori è fra i più bassi in Europa, le pensioni di molti sono da fame, nel contempo negli ultimi 30 anni nonostante le crisi i ricchi sono diventati sempre più ricchi mentre la massa è diventata sempre più povera, per non parlare dell’evasione fiscale record, della corruzione, della criminalità organizzata, ecc. 

Il mondo delle imprese e per quanto gli concerne anche lo Stato sono miopi e arroganti in quanto se venisse concesso uno stipendio adeguato ai lavoratori questi si troverebbero con più soldi in tasca che ovviamente aumenterebbero i consumi a vantaggio di imprese, commercianti, ristoranti, bar, alberghi, ecc. ecc. ecc.

Ma purtroppo l’Italia in particolare in questi ultimi 20/30 anni “Non è più un Paese giusto”

La classe politica nostrana è sempre peggio rispetto al passato, ora quasi tutti pensano più alla propria poltrona che al bene del Paese e degli italiani, in particolare nei riguardi dei ceti più deboli. 

I politici fanno promesse elettorali pur sapendo che saranno irrealizzabili e quindi non le mantengono quasi mai e nonostante questo grazie alla memoria corta degli elettori vengono rieletti.

Occorre ricordare che in occasione delle elezioni le decisioni vengono prese nelle segrete stanze dei partiti che ovviamente non danno spazio ai giovani… forse l’unico movimento politico che in questi ultimi 10 anni lo ha dato anche se poi hanno commesso qualche errore per inesperienza, ma va sottolineato senza episodi di corruzione… e con l’obbligo di soli due mandati… è stato il M5S. 

La vergogna delle multinazionali e l’impotenza dell’Europa.

Le multinazionali per evitare di pagare le tasse ricorrono alla manipolazione dei prezzi: se un’entità nella filiera gonfia i suoi prezzi, aumenta i costi per la fase successiva della produzione, riducendo il profitto e dunque la tassazione nella giurisdizione dello stabilimento successivo.

Come fanno le multinazionali ad eludere le tasse e a scampare alla morsa del fisco? Un report del Peterson Institute for International Economics ha illustrato con chiarezza il meccanismo utilizzato tramite cui queste grandi imprese riescono a non rispettare i propri obblighi fiscali. O meglio a rispettarli solo in parte. Le modalità sono essenzialmente due: la manipolazione dei prezzi e la vendita dei beni immateriali. La nuova proposta, nata in seno all’OECD, dovrebbe perlomeno limitare questo “mal costume”, ma nuovi espedienti potrebbero essere utilizzati dalle multinazionali per fuggire, ancora una volta, al fisco.

Foto: italiachiamaitalia

BANANE  E  LAMPONI, CA(N)ZZONI  E  MELONI, di Piero Milanese

BANANE  E  LAMPONI, CA(N)ZZONI  E  MELONI, di  Piero Milanese

Tantissime persone, come me, amano la musica. Tutta la musica, dalla classica al jazz, dalle canzoni dei cantautori al blues, al folk, al rock ecc. Per questo molti gestori di bar, pizzerie e ristoranti organizzano  concerti nelle loro sale invitando per lo più artisti locali ad animare le serate con la loro musica.

Purtroppo l’aspetto negativo di tali iniziative è che a queste serate partecipano moltissimi clienti cui non importa nulla del concerto, continuando a sganasciare sui loro piatti e parlando ad alta voce per esprimere le loro cazzate.

È la solita genìa di “itaglioti” che se ne frega di chi sta sul palco e di quelli che vorrebbero ascoltarli, cafonismo e maleducazione cui poco a poco ci stiamo assuefacendo. 

Visto il pullolare di simili individui, diventa inevitabile pensare come alle prossime elezione possa davvero vincere la Meloni.

Galimberti Tancredi (Duccio) chi fu questo personaggio

di Pier Carlo Lava

Alessandria: Continua il nostro viaggio nella storia partendo dai personaggi ai quali è intitolata una via o una piazza della nostra città, oggi parliamo di Galimberti Tancredi (Duccio), patriota, Alessandria gli ha dedicato una lunga e importante strada, in gran parte è un viale alberato che da via Luciano Scassi arriva sino alla rotonda via Boves.

Tancredi Achille Giuseppe Olimpio Galimberti, detto Duccio, naque a Cuneo il 30 aprile 1906 e morì a Centallo il 4 dicembre 1944, è stato un avvocato, anrifascista e partigiano italiano. Medaglia d’Oro al Valor militare e Medaglia d’oro della Resistenza, fu proclamato Eroe nazionale dal CNL piemontese.

Duccio_Galimberti_francobollo

A Cuneo in piazza Galimberti 6, Palazzo Osasco si trova il Museo Galimberti. La biblioteca appartenuta alla famiglia Galimberti che visse a Cuneo a partire dalla seconda metà dell’800 fu donata insieme alla Casa Museo nel 1974, all’atto della morte dell’ultimo erede Carlo Enrico Galimberti, figlio primogenito di Tancredi senior e Alice Schanzer. Le volontà testamentarie di Carlo Enrico recitano: “A fini di cultura ed istruzione il Comune di Cuneo dovrà curare il riordino dei libri in modo che la biblioteca risulti schedata. I manoscritti di mio padre, di mia madre e di mio fratello Duccio dovranno essere conservati e ne raccomando la pubblicazione”. La biblioteca contiene una vasta rassegna di volumi, riviste ed opuscoli prevalentemente appartenenti all’800 e primi ‘900 d’argomento giuridico, letterario, scientifico ed artistico, racconti in più di un secolo di vita familiare in relazione agli interessi culturali della famiglia.

Patrimonio della biblioteca

17.500 libri e opuscoli a stampa, 430 periodici

1.000 opere anteriori al 1.830

59 film

4.800 documenti digitali

Testi in francese, inglese

CD, DVD

Fondi storici: Storia dell’arte italiana, Adolfo Venturi, Scritti di G. Mazzini, i libri di Carlo Enrico 

da: http://www.regione.piemonte.it ehttp://www.comune.cuneo.gov.it

La storia 

Galimberti Tancredi (Duccio): Fu la figura più importante della Resistenza in Piemonte. Figlio di Tancredi (che era stato ministro delle Poste con Giuseppe Zanardelli e poi Senatore fascista a di Alice Schanzer, studiosa e poetessa di origini austriache, gli vennero imposti i nomi di Tancredi, Achille, Giuseppe, Olimpio, ma per tutta la vita sarebbe stato, appunto, Duccio. 

Dopo aver conseguito la laurea in giurisprudenza a Torino, esercitò l’attività di avvocato e continuò a svolgere studi inerenti a problemi giuridici. Divenne un valente penalista già in giovane età e, nonostante la posizione del padre, non venne mai a compromessi con il fascismo. 

Quando giunse il momento della chiamata obbligatoria alle armi, decise di svolgere il servizio di leva come soldato semplice, perché per poter frequentare il corso di allievo ufficiale avrebbe dovuto iscriversi al partito

fascista. da Wikipedia

da Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 51 (1998) di Giuseppe Sircana

GALIMBERTI, Tancredi (Duccio). – Nacque a Cuneo il 30 apr. 1906 da Lorenzo Tancredi, avvocato, politico, parlamentare e ministro, e da Alice Schanzer, studiosa di letteratura inglese, poligrafa e sorella di Carlo, anch’egli deputato e ministro. L’ambiente familiare ebbe grande influenza nella formazione culturale del G., che ereditò dal padre la predilezione per gli studi giuridici e dalla madre la passione per la letteratura e le simpatie mazziniane

Dopo aver conseguito, a soli sedici anni, la maturità presso il liceo S. Pellico, iniziò a collaborare al giornale paterno La Sentinella delle Alpi e nel 1924 scrisse il saggio Mazzini politico (pubblicato postumo a Milano nel 1963, con introduzione di O. Zuccarini e una nota biografica di V. Parmentola). In esso il G. analizzava i valori fondamentali della dottrina politica mazziniana, non mancando di cogliere elementi di incertezza e di utopia nella concezione che il Mazzini aveva dello Stato. Il 17 luglio 1926 si laureò in giurisprudenza a Torino discutendo con E. Florian una tesi su La pericolosità come base della sanzione penale. Nello stesso anno prestò servizio militare come soldato semplice e fu poi richiamato nel 1935 e nel 1939 con il grado di caporalmaggiore presso il battaglione “Dronero” del 2° alpini. Nel 1934 effettuò un viaggio in Russia e al ritorno tenne diverse conferenze sulla situazione di quel paese.

Il G. fece pratica presso lo studio paterno, dedicandosi particolarmente alle cause penali, ma non trascurò l’attività scientifica, sviluppando i suoi studi sul tema della pericolosità. Scrisse diversi saggi, tra cui Funzione e disciplina della pericolosità (in Studi teorico-pratici sulla nuova legislazione italiana, Bologna 1932) e fu incaricato di redigere la voce Pericolosità sociale e criminale dell’Enciclopedia giuridica italiana (XIII, 1937), mentre la raccolta dei suoi scritti di diritto e di procedura penale diede corpo ai Quesiti d’udienza (I-II, Milano 1943). Nel 1939, alla morte del padre, il G. decise di impegnarsi senza remore nella lotta al fascismo.

Fino ad allora, pur avendo rifiutato l’iscrizione al partito fascista, egli si era infatti astenuto da ogni iniziativa che sarebbe apparsa come una clamorosa contestazione nei confronti del padre, sostenitore del regime. Verso la fine del 1940 il G. compì alcuni viaggi a Roma, dove incontrò Meuccio Ruini e altri esponenti della politica prefascista, a Genova e a Torino. Al G. premeva soprattutto stabilire uno stretto rapporto con gli ambienti antifascisti torinesi e ritrovarsi con quelle persone che, a prescindere dal credo politico, fossero decise a combattere il regime. Non aveva compiuto ancora una precisa scelta politica, ma anche dopo aver aderito nel 1942 al movimento Giustizia e libertà, restò convinto che la pregiudiziale antifascista dovesse prevalere sulle divisioni ideologiche.

Una volta inseritosi nell’organizzazione giellista, il G. ritenne di possedere finalmente l’investitura per iniziare l’opera di proselitismo tra gli antifascisti di Cuneo. Prima convocò presso la propria abitazione una serie di riunioni serali, alle quali invitava gli amici più fidati, poi ampliò il raggio d’azione dell’attività cospirativa, rivolgendosi a professionisti, impiegati, insegnanti, studenti e anche militari. Agli inizi del 1943 si era così raccolto intorno al G. il primo nucleo cuneese del Partito d’azione. Egli si riconosceva appieno nella pregiudiziale repubblicana e nel progetto di una democrazia avanzata sul piano civile ed economico, affermati dal Partito d’azione, sebbene la sua collocazione in questo partito non fosse riconducibile ad alcuna delle correnti politico-ideali che vi erano confluite. L’originalità dell’azionismo del G. risultò evidente nel Progetto di costituzione confederale europea ed interna da lui elaborato insieme con Antonino Repaci tra l’autunno del 1942 e il luglio 1943 (ma pubbl. Torino-Cuneo 1946).

Questo progetto, caratterizzato da una forte carica europeistica, si rivelava in molti passaggi qualificanti “assai remoto dalle posizioni del Partito d’azione, sia dei “sette” e sia dei “sedici punti”, ovvero da entrambe le sue “anime”: quella liberistica o al più dirigistica di La Malfa, Parri, Paggi e la socialista di Lussu, De Martino, Codignola” (Mola, p. 283). Si trattava, inoltre, di un progetto gravido di ingenuità e utopia (contemplava, tra l’altro, la creazione di una lingua internazionale da insegnare nelle scuole e il divieto di costituire eserciti nazionali) e ispirato a una rigida concezione corporativa e sociale dello Stato.

Nel marzo 1943 il G. diffuse, dattiloscritto, un Appello agli Italiani, redatto in collaborazione con Lino Marchisio, nel quale si stigmatizzavano le tendenze particolaristiche dei partiti e si insisteva sulla necessità di unire tutte le forze dell’antifascismo. Il 26 luglio, parlando alla folla radunata sotto la finestra del suo studio in piazza Vittorio Emanuele al termine di una manifestazione di esultanza per la caduta di Mussolini, il G. affermò che bisognava subito rompere l’alleanza con la Germania e prepararsi all’insurrezione armata contro i Tedeschi.

Poche ore dopo ribadì le stesse cose nel corso di un comizio in piazza Castello a Torino e per queste due sortite l’autorità militare spiccò nei suoi confronti un mandato di cattura, che venne revocato tre settimane più tardi. In agosto il G. prese contatto con il comandante del reggimento alpino di stanza a Cuneo e all’indomani dell’8 settembre intensificò gli sforzi per coinvolgere reparti dell’esercito nell’organizzazione di resistenza. Più che a dar vita a un movimento partigiano il G. pensava infatti a tenere in piedi l’esercito, che avrebbe dovuto arruolare volontari civili disposti a prendere le armi contro i Tedeschi. Dopo aver invano richiesto per due volte, il 9 e il 10 settembre, al generale comandante della zona di Cuneo di procedere all’arruolamento volontario del gruppo azionista nei reparti alpini, il G. e i suoi amici “decisero di attuare il progetto sino allora perseguito solo in via eventuale, della creazione delle bande e della resistenza armata “irregolare”. Scelta questa soluzione, essi tornarono alla carica presso i comandi militari e gli ufficiali di grado elevato per sollecitarne la collaborazione nella raccolta delle armi e l’assunzione del comando del gruppo che si apprestava a raggiungere la montagna” (Giovana, 1964, p. 26). Risultati vani anche questi tentativi, gli antifascisti cuneesi decisero di abbandonare le città per dirigersi sulle montagne circostanti.

La notte del 12 settembre il G., Dante Livio Bianco e altri dieci suoi compagni raggiunsero la cappella di Madonna del Colletto, tra la Valle del Gesso e quella della Stura, dove costituirono la prima banda partigiana, denominata “Italia libera” (il medesimo nome venne assunto dall’altra formazione che si costituì contemporaneamente a Frise in Valle Grana).

Venne subito affrontato il problema dell’efficienza bellica, che riguardava sia l’utilizzazione migliore di armi e munizioni, in gran parte sottratte alle caserme, sia la necessità di una disciplina militare. I partigiani di “Italia libera” furono concordi nel rifiutare quelle forme coercitive e gerarchiche invalse negli eserciti e preferirono rifarsi alle esperienze del volontariato risorgimentale mazziniano e garibaldino, “delineando così nei suoi contorni quel costume partigiano dei giellisti cuneesi […] peculiare delle formazioni sorte in quel tratto di arco alpino per volontà della pattuglia di “azionisti” capeggiata da Galimberti” (Giovana, 1964, p. 31).

Dopo essersi trasferito con il suo gruppo a San Matteo di Valle Grana il G. si impegnò nell’opera di collegamento e di unificazione tra le varie bande che portò alla nascita delle brigate di Giustizia e libertà nel Cuneese.

“La guerra partigiana, per Galimberti e i suoi compagni, aveva il duplice compito di scompaginare con azioni aggressive i depositi nemici in pianura, demoralizzarne le truppe, creare un permanente stato d’allarme fra di esse, e impegnare quante più forze dell’avversario fosse possibile nella zona, distraendole dai fronti di guerra. Perciò doveva far perno su organismi agili, capaci di proiettare in pianura punte d’attacco ardite e fulminanti, ma anche di articolare nelle valli forze che apparissero come minaccia costante alla sicurezza dei centri della provincia occupati dai nazifascisti e fossero in grado, se attaccate, di sviluppare un discreto volume di fuoco per un tempo relativamente lungo, così da infliggere al nemico il massimo di perdite e di logorio” (ibid., p. 37).

Il 13 genn. 1944, nel corso di un attacco dei Tedeschi alla posizione di San Matteo, il G. rimase ferito alla caviglia, ma non volle abbandonare i compagni prima della fine degli scontri. Fu poi trasportato su una rozza barella in pianura e accompagnato per vie sicure in casa di un agricoltore a Canale d’Alba. Qui trascorse un periodo di convalescenza, durante il quale elaborò il Progetto di riforma agraria (apparso in Il Ponte, XV [1959], 12, pp. 1549-1556, e ristampato in Mazzini politico, pp. 67-81).

In questo suo scritto il G. sosteneva l’opportunità di limitare la proprietà privata a beneficio di forme di proprietà pubblica nell’ambito di una programmazione agricola gestita da organismi comunali.

Appena guarito il G., di cui erano ormai conosciute le doti di coraggio e l’autorevolezza, fu chiamato ad assumere il comando di tutte le formazioni gielliste del Piemonte e a far parte del Comitato militare regionale. Il 5 aprile – dopo la cattura e la fucilazione del generale G. Perotti e di quasi tutti gli altri membri del Comitato – toccò al G. assumere provvisoriamente la carica di comandante per la Valle d’Aosta, il Canavese e il Cuneese orientale. Rimasto nel Comitato in rappresentanza del Partito d’azione, il 22 maggio guidò la delegazione del Comitato di liberazione nazionale piemontese che si incontrò a Barcellonette con quella dei maquisards francesi per stabilire un’intesa tra i due movimenti di resistenza.

Animato da spirito europeista, il G. desiderava riallacciare fraterni rapporti con la Francia per cancellare l’onta dell’aggressione fascista, ma fu molto fermo nel far presente ai suoi interlocutori che le responsabilità del regime di Mussolini non potevano essere estese all’intero popolo italiano. Preoccupato di “salvare la dignità dell’Italia senza cadere nel patriottardismo” (Ruata, p. 1889), riuscì a evitare che si creassero attriti sulla questione della Valle d’Aosta e a far affermare negli accordi finali l’identità d’intenti nella lotta al nazismo e per l’avvento delle libertà democratiche.

Rientrato in Italia, il G. fu di nuovo preso dai suoi compiti di comando e proseguì nell’instancabile opera di collegamento, viaggiando con ogni mezzo. Benché usasse molte precauzioni, cambiando abitazione e assumendo diversi nomi di copertura (Garnero, Ferrero, Dario, Leone), si trovò esposto a sempre maggiori rischi e gli venne pertanto consigliato di allontanarsi dal Piemonte per andare a ricoprire un incarico di responsabilità a livello nazionale.

Il G. non aderì all’invito e il 28 novembre a Torino cadde nelle mani della polizia e fu rinchiuso nelle carceri Nuove, prima di essere trasferito, il 2 dicembre, a Cuneo. Qui venne preso in consegna dalle Brigate nere, che lo sottoposero a tortura, mentre ogni tentativo di ottenere la sua liberazione attraverso lo scambio di prigionieri fu respinto dai fascisti.

All’alba del 3 dic. 1944 il G. venne prelevato per essere condotto nei pressi della frazione Tetti Croce di Centallo, in località San Benigno, dove venne ucciso a raffiche di mitra, e la sua salma abbandonata.

Alla memoria del G. fu assegnata la medaglia d’oro al valor militare quale “altissimo esempio di virtù militari, politiche e civili”. Nel 1948 gli venne conferita la Legion d’onore per il contributo dato all’intesa tra i movimenti di liberazione francese e italiano.

Fonti e Bibl.: Le carte del G. sono conservate presso l’Archivio della casa-museo Galimberti di Cuneo, il cui inventario è stato curato da E. Mana e pubbl. in Archivio Galimberti, Roma 1992; altri documenti e testimonianze sull’attività del G. nell’antifascismo e nella Resistenza sono depositati a Cuneo presso l’Istituto per la storia della Resistenza in Cuneo e provincia. Si vedano inoltre: In memoria della medaglia d’oro D. G. da Cuneo, partigiano alpino, sentinella delle Alpi, Roma 1945; G. Bocca, Partigiani della montagna. Vita delle divisioni “Giustizia e Libertà” del Cuneese, Borgo San Dalmazzo 1945, pp. 11 s., 15, 22, 25-27, 35, 63, 94; numero speciale di Giustizia e libertà del 2 sett. 1945; Il processo ai torturatori di Cuneo, ibid., 17 ott. 1945; A. Ruata, Ricordi di D. G., in Il Ponte, X (1954), pp. 1883-1894; D.L. Bianco, Guerra partigiana, Torino 1954, ad ind.; D. G. eroe nazionale del secondo Risorgimento, Cuneo 1959; M. Giovana, La Resistenza in Piemonte. Storia del CLN regionale, Milano 1962, ad ind.; R. Battaglia, Storia della Resistenza italiana, Torino 1964, ad ind.; M. Giovana, Resistenza nel Cuneese. Storia di una formazione partigiana, Torino 1964, ad ind.; G. Bocca, Storia dell’Italia partigiana, Bari 1966, ad ind.; E. Lussu, Partito d’azione e gli altri, Milano 1968, ad ind.; A. Repaci, D. G. e la Resistenza italiana, Torino 1971 (con ampia bibliogr. sul e del G.); L. Valiani – G. Bianchi – E. Ragionieri, Azionisti, cattolici, comunisti nella Resistenza, Roma 1971, ad ind.; A.A. Mola, Trent’anni fa l’assassinio di D. G., in Gazzetta del popolo, 3 dic. 1974; M. Salvadori, Breve storia della Resistenza ital., Firenze 1974, ad ind.; M. Giovana, Un uomo nella Resistenza. Detto Dalmastro, Cuneo 1977, pp. 10, 12-17, 19-24, 42, 44, 52; P. Calamandrei, Uomini e città della Resistenza, Roma-Bari 1977, pp. 243 s., 348; G. De Luna, Storia del Partito d’azione. La rivoluzione democratica 1942-1947, Milano 1982, ad ind.; D. Giacosa, Ricordo di D. G. e D.L. Bianco, Cuneo 1986; F. Franchi, Caro nemico: la costituzione scomoda di D. G., eroe nazionale della Resistenza, Roma 1990; A.A. Mola, T. G. jr. (Duccio), in Il Parlamento italiano, Storia parlamentare e politica, XII, 2, pp. 283-285, 601; Enc. dell’antifascismo e della Resistenza, II, ad vocem; Enc. Italiana, App. II, ad vocem.

Abonante o Cuttica?. Non importa di che partito è chi vince le elezioni, ma che sappia governare

Non importa di che partito è chi vince le elezioni, ma che sappia governare

di Pier Carlo Lava

Alessandria today: Comunque sia chiaro che come cittadino ed ex Manager in imprese private del settore food dove ho svolto funzioni di Sales manager e marketing non mi interessa il colore di chi Governa sia a livello Nazionale che locale, ma che si operi con efficienza nell’interesse generale… con idee progetti realizzabili, lungimiranza, visione del futuro, ecc. ecc. 

Serve la capacità di intercettare tutte le varie possibilità di finanziamenti, da: Stato, Regione, Europa (aspetto quest’ultimo che purtroppo vede liItalia fanalino di coda a livello Europeo..). 

E ovviamente serve inoltre la capacità di definire progetti che consentano di aggiudicarseli, ed infine effettuare i relativi lavori a regola d’arte!!!.

Ancora e di nuovo sulla solitudine…

Pavese scriveva che il problema della vita è come rompere la solitudine,  come comunicare con gli altri. Sempre Pavese scriveva che l’importante era avere una donna a letto e a casa e tutto il resto erano balle. Secondo una celebre frase nessun uomo è un’isola. Per altri invece siamo tutti soli. C’è una problematica collettiva: sulla Terra si sono scordati di Budda, Socrate, Cristo, Maometto. Inoltre è Darwin a fare il mercato. Non c’è giustizia in questo mondo. Infine come scriveva la Wilcox: “Ridi e il mondo riderà con te./ Piangi e piangerai da solo”. È vero che ognuno può sperimentare la morsa della solitudine in vita sua perché la vita è fatta anche di solitudine. Tuttavia qualche goccia di veleno non risulta spesso letale. Solo per pochi la solitudine è intollerabile. Quando succede qualcosa di tragico per troppa solitudine nessuno sembra avere colpa. Invece la società, la politica stessa dovrebbero combatterla. Ma tutto ciò è lettera morta perché il potere divide e governa. Ai potenti tornano comode l’asocialità, l’isolamento di alcuni. I potenti godono quando le persone scomode e anticonformiste sono sole. Chi resiste alla pressione di uniformarsi avrà tra i vari guai anche una solitudine crescente. Ma poco importa se uno viene lasciato solo o sceglie di essere solo. Poco importano i motivi della solitudine. Il sesso è il modo più popolare e più istintivo per rompere la solitudine. Da giovani è quasi un’esigenza, che può sfociare nel ludico. Da maturi è soprattutto un modo per non sentirsi soli. La solitudine è affare che riguarda la soggettività, come direbbero gli psicologi riguarda la percezione soggettiva, anche se talvolta ci sono riscontri oggettivi. La solitudine è uno stato d’animo. Comunque di solito siamo fatti così: quando proviamo troppa solitudine telefoniamo, andiamo al bar, al ristorante,  in centro. Ma talvolta è comunanza, socialità senza un minimo di comunione. A volte basta poco per sentirsi sollevati. Basta una conversazione anche formale. Ci sono persone per cui la solitudine si fa feroce. Sono coloro che soffrono di deprivazione sociale, ovvero di povertà di stimoli sociali. Uno può essere ben disposto nei confronti del prossimo, ma a forza di essere soli ci si disabitua alle regole del gioco sociale, alla convivenza civile. Finisce  così che certi uomini sono costretti a vivere tra “pareti invisibili”, come ne “Il carcere” di Pavese, romanzo che parte dalla condizione esistenziale dell’uomo al confino per poi trattare della solitudine in senso lato. Ognuno dovrebbe scrivere un sos, un messaggio in bottiglia, come nella canzone di Sting.  Il problema è che di solito non li scriviamo gli sos né leggiamo quelli altrui. A questo mondo la solitudine è bandita. È considerata un falso problema. Invece esiste. Ci sono persone più o meno sole e ci sono persone più o meno resistenti nel sopportarla. Si può essere soli per i motivi più disparati. Talvolta ad altri problemi si somma anche la solitudine. Altre volte la solitudine è l’origine di altri problemi. La solitudine è un problema sottovalutato perché troppi artisti hanno cantato la solitudine,  assumendo una posa. La solitudine spesso era una questione borghese prevalentemente e spesso gli artisti trattavano questo tema non parlando di problematiche sociali ed economiche importanti. È però vero che ognuno dovrebbe parlare di ciò che conosce meglio e probabilmente molti artisti conoscevano a menadito la solitudine. Però chi voleva fare la rivoluzione combatteva non solo i controrivoluzionari ma anche i valori piccoloborgesi incarnati da essi. Chi era solo lo era perché asociale e solitario, perché non prendeva parte alla lotta, perché non era un compagno e perciò meritava la solitudine e con lui c’era poco o niente da spartire. Questa era la prassi. Succede che alla solitudine ci si abitua e si ha paura del cambiamento. Ci sono persone che accettano una solitudine eroica pur di andare avanti per la loro strada, come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Una domanda che mi faccio spesso è, realisticamente parlando, quali e quanti compromessi bisogna accettare per non rimanere soli. Per esempio io preferisco starmene in disparte. Accade che se qualche persona nuova mi invita a uscire quasi sempre declino l’invito. Ho il timore di essere inadeguato, di deludere, di avere motivi di attrito, di non essere compreso o di non comprendere. Due sono le questioni cruciali della solitudine: quanta se ne può sopportare? Come e con chi romperla? Queste domande sono universali, ma le risposte hanno solo validità individuale. Spesso si va per tentativi ed errori. Le regole in questo senso sono ignote. Così talvolta per non sbagliare rimandiamo a data da destinare. Eppure stamani ho preso un caffè e sulla bustina di zucchero c’era una frase di Wayne Dyer, che dice: “Quello che hai da fare fallo adesso. Il futuro non è promesso a nessuno”. Diamo quasi per scontato la buona salute, l’autonomia fisica, una condizione economica non disagiata. Eppure tutto potrebbe finire da un momento all’altro. Alcuni poeti, addirittura troppo sfiduciati nei confronti dei contemporanei, affidano le loro parole ai posteri. Scrivono così le loro lettere al mondo, sperando che se non li comprende il mondo attuale li comprenda quello futuro. Come Emily Dickinson,  che scriveva questi versi immortali: 

“Questa è la mia lettera al mondo

che non ha mai scritto a me –

le semplici notizie dalla natura dette –

con tenera maestà

Il suo messaggio è affidato

a mani per me invisibili –

per amore suo – dolci compatrioti –

teneramente giudicate – me”

ELEZIONI AMMINISTRATIVE E REFERENDUM GIUSTIZIA – affluenza alle ore 19 nel comune di Alessandria 

ELEZIONI AMMINISTRATIVE E REFERENDUM GIUSTIZIA – affluenza alle ore 19 nel comune di Alessandria 

ELEZIONI AMMINISTRATIVE E REFERENDUM GIUSTIZIA – affluenza alle ore 19 nel comune di Alessandria 

Si comunica che l’affluenza alle urne per le Elezioni Amministrative e il Referendum Giustizia, alle ore 19, è stata pari al:

DescrizioneSezioniTotale IscrittiTotali Votanti% 
INCANDIDABILITÀ DOPO LA CONDANNA (ROSSA) – REF 193/9367.27021.39731,81 
LIMITAZIONE DELLE MISURE CAUTELARI (ARANCIONE) – REF 293/9367.27021.36731,76 
SEPARAZIONE DELLE CARRIERE (GIALLA) – REF 393/9367.27021.35031,74 
CONSIGLIO DIRETTIVO CASSAZIONE E CONSIGLI GIUDIZIARI, COMPETENZE MEMBRI LAICI (GRIGIA) – REF 493/9367.27021.34031,72 
ELEZIONI DEI COMPONENTI TOGATI DEL CSM (VERDE) – REF 593/9367.27021.34031,72 
ELEZIONE DIRETTA DEL SINDACO93/9373.65723.88932,43

Comunali, Viminale: affluenza definitiva alle ore 12 al 17,64%

Domenica 12 giugno 2022 – 17:15

Comunali, Viminale: affluenza definitiva alle ore 12 al 17,64%

Si vota fino alle 23

Comunali, Viminale: affluenza definitiva alle ore 12 al 17,64%

Roma, 12 giu. (askanews) – L’affluenza definitiva alle 12, alle elezioni comunali, è stata del 17,64% (818 comuni su 818). Lo riporta il sito del Viminale. Alle precedenti elezioni omologhe era stata del 19,37%. I seggi resteranno aperti fino alle 23.

https://www.askanews.it/politica/2022/06/12/comunali-viminale-affluenza-definitiva-alle-ore-12-al-1764-top10_20220612_171507/

Clima: Molinari (Lega), Letta e Pd filocinesi distruggono nostro automotive 

Clima: Molinari (Lega), Letta e Pd filocinesi distruggono nostro automotive 
Alessandria, 11 giu. – “Letta e il Pd votano in Europa per smantellare l’automotive italiano facendo perdere migliaia di posti di lavoro in tutto il Piemonte a favore della Cina in nome di una falsa sostenibilità visto che la Cina inquina più di Usa, India, Russia e Giappone messe insieme. Poi scopriamo che lo stesso Letta nel recente passato, come raccontato da diverse fonti giornalistiche, è stato co-presidente di ToJoy Western Europe, la consociata di ToJoy, gruppo cinese impegnato su molti fronti. Rapporti che certo alimentano i nostri sospetti. Non vorremmo che dietro al tema dell’ambiente, ci sia un disegno per smantellare l’Italia e favorire la Cina”.  
Così Riccardo Molinari, capogruppo della Lega alla Camera.

VENERDI’ 10 GIUGNO LA GRANDE FESTA DI CHIUSURA DELLA CAMPAGNA ELETTORALE DI GIORGIO ABONANTE

VENERDI’ 10 GIUGNO LA GRANDE FESTA DI CHIUSURA DELLA CAMPAGNA ELETTORALE DI GIORGIO ABONANTE

Alessandria: Una grande giornata di festa chiuderà, venerdì 10 giugno, la campagna elettorale del candidato sindaco Giorgio Abonante e della sua coalizione. Gli eventi prenderanno il via già dalla mattina con un percorso che toccherà quattro “Abo Point” individuati nei quartieri della città. Si parte alle 9 da Spinetta, per proseguire alle 11 a Valmadonna, alle 15.30 a San Michele e alle 18 al quartiere Cristo. Quattro punti cardinali di Alessandria, quattro momenti di incontro per condividere con la cittadinanza gli ultimi attimi della lunga ma entusiasmante campagna elettorale che porterà alle elezioni di domenica 12 giugno.
Il clou della giornata sarà però la grande serata di chiusura. Il ritrovo è alle 19.00 ai Giardini Pubblici, da dove partirà un “tour” dei locali del centro passando attraverso corso Roma e Via Milano per giungere in Piazza Santo Stefano. Qui, dalle 21, si festeggerà sulle note dei “Mega Toto”, tribute band dei Toto per poi concludere con un Dj Set.

“La ragazza di Genova”, il nuovo romanzo di Riccardo Amadio 

“La ragazza di Genova”, il nuovo romanzo di Riccardo Amadio 

Sullo sfondo i fatti del G8 di Genova fino all’attentato alle Torri Gemelle.

In libreria con il romanzo “La ragazza di Genova”, editato dalla Aletti Editore nella collana “I Diamanti”, Riccardo Amadio ripercorre le vicende storiche di un momento storico cruciale, di grandi cambiamenti nella società globale, con conseguente svolta per i destini dell’umanità. «Il libro è nato all’indomani dei fatti accaduti nel luglio 2001 a Genova in occasione del G8 e subito dopo l’attentato terroristico alle Torri Gemelle di New York l’11 settembre dello stesso anno – ha affermato lo scrittore romano, insegnante in pensione di materie scientifiche, che ha impiegato all’incirca tre mesi per la stesura.

La trama, che si sviluppa in 160 pagine, segue le vicende di Adriano Robbiani, fotografo e pubblicitario di successo, a capo dell’omonima agenzia nota a livello mondiale. L’uomo, folgorato dall’espressione di un volto femminile, inquadrato durante le riprese del funerale di Carlo Giuliani, decide di mettersi sulle tracce della misteriosa ragazza per coinvolgerla in un ambizioso progetto. L’individuazione de “La ragazza di Genova” sarà l’effetto domino di tutto il racconto, che coinvolgerà il protagonista, spesso accompagnato dalla moglie Doriane, in una serie di incontri con nuovi personaggi che entreranno in scena. L’espediente narrativo darà il via ad una sequela di spostamenti in più luoghi, movimentando la narrazione, e sarà anche l’occasione per approfondire molteplici punti di vista su quello scorcio cruciale della Storia mondiale, grazie all’abile costruzione dei dialoghi, in cui i vari personaggi esprimono i propri pensieri nel rispetto delle opinioni altrui, in una ideale rappresentanza dell’intera umanità.

Attraverso una scrittura asciutta, precisa e incalzante, la penna esperta di Amadio consegna una prospettiva originale, in cui emerge la sua passione e profonda conoscenza delle tematiche annesse alla Storia d’Italia e alla politica globale, di cui quest’opera rappresenta la sintesi di tutte le «convinzioni maturate nel corso della vita», come ha dichiarato lo stesso romanziere. 

Le pagine del libro, oltre che ad una lettura di primo livello che segue la trama tout court, presentano una densità di argomenti che evidenziano lo sguardo illuminato dello scrittore nel comporre il ritratto dello spirito del nostro tempo. La visione include le tematiche a lui care: «La questione femminile, nella consapevolezza che la società italiana era troppo arretrata culturalmente e socialmente nei confronti delle donne. L’energia delle nuove generazioni, approdate a nuove sensibilità, al rispetto dell’ambiente naturale e delle specie animali e vegetali, dopo che le precedenti generazioni di giovani avevano dato origine a lotte altrettanto importanti per l’affermazione delle idee di libertà, di solidarietà e di conquiste di diritti sociali e civili. La necessità di giungere finalmente a una Europa dei popoli che sia prima di tutto politica nei valori universali di libertà, di giustizia e di solidarietà.» 

È una scrittura, infine, vivace e magnetica, che coinvolge il lettore. Con l’inserimento anche di un simpatico cameo nel racconto.

“Riflettendo sulla giustizia” – Riflettendo sulla giustizia

l Movimento ecclesiale di impegno culturale e l’Azione Cattolica Italiana organizzano, martedì 7 giugno, ore 19, un incontro di riflessione intorno ai temi oggetto dei cinque quesiti referendari sui quali il corpo elettorale è chiamato a esprimersi domenica 12 giugno.

Interverrà Renato Balduzzi, che dialogherà con il presidente nazionale del MEIC, Luigi D’Andrea, e con il presidente nazionale dell’AC, Giuseppe Notarstefano.

L’incontro sarà trasmesso in diretta streaming sui canali Facebook e Youtubedell’Azione Cattolica. Alleghiamo il programma.

Ufficio stampa del prof. Renato Balduzzi

https://alessandria.today

Il Sottosegretario Nisini (Lega) martedì ad Alessandria e a Acqui Terme

Il Sottosegretario Nisini (Lega) martedì ad Alessandria e a Acqui Terme

L’on. Tiziana Nisini, Sottosegretario di Stato al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, sarà martedì 7 giugno ad Alessandria e ad Acqui Terme, a sostegno dei candidati sindaco, prof. Gianfranco Cuttica di Revigliasco e dott.essa Franca Roso.

La mattina alle 10 il sottosegretario parteciperà a Villa Guerci ad un tavolo dedicato a lavoro e formazione, insieme a Mattia Roggero, assessore al Lavoro e alle Attività Produttive del Comune di Alessandria.

Alle 11 sarà ospite del punto elettorale in Piazzetta della Lega, e alle 12 si trasferirà a Palazzo Pacto per un incontro al ForAl.

Successivamente raggiungerà Acqui Terme, dove alle 14,30 ci sarà a Palazzo Robellini (piazza Levi) un incontro con gli imprenditori locali su attività produttive e lavoro.  La tappa acquese del sottosegretario Nisini si concluderà con la visita ad alcune primarie realtà imprenditoriali del territorio.