Cammino all’alba (racconto brevissimo natalizio)…

“È Natale il 24

non riesco più a contare

la vita va così

Ho una folle tentazione

di fermarmi a una stazione

senza amici e senza amore.”

(Piero Ciampi, cantautore e poeta)

Cammino all’alba nella nebbia, che per qualche istante soltanto mi confonde i pensieri. Solo i miei passi nell’aria che riecheggiano. Pontedera è addormentata. Ho i capelli molto corti. Mi sono fatto la barba e lo shampoo, appena alzato. So a memoria queste strade, questa piazza. Per il resto poi sembra una mattina come le altre, se non fosse che è Natale. Il cielo è nuvoloso. Non si apre ancora uno spiraglio di luce tra le nuvole.  I lampioni con una luce fioca e obliqua  illuminano il mio cammino. Attorno non c’è nessuno. Giungo davanti all’ospedale e tutti i bar sono chiusi. C’è una donna fuori di sé che urla dal suo appartamento. Continuo facendo finta di niente. Non mi volto. So chi è e non è nuova a dare in escandescenze. Ha spesso delle crisi di nervi e parla a voce alta. Prima o poi del resto ognuno ha le sue crisi, dei momenti puntuali o dei veri periodi di insoddisfazione e di depressione. A volte le crisi scaturiscono da cose futili, dopo aver accumulato strati di cose negative. Ora vedo affiancarsi una macchina. Sento il vocio di due giovani fidanzati che litigano. La ragazza inveisce, gesticola, quindi scende furiosa dalla macchina, sbattendo lo sportello; lui alterato suona il clacson e quindi riparte sgommando. Due infermiere e un dottore con la borsa fanno finta di nulla, non si intromettono, entrano in ospedale. Anche la guardia robusta e imponente fischietta, si fuma nervosamente una sigaretta e finge di non aver visto i due fidanzati né di aver mai udito le urla della donna, poco distanti. Continuo a camminare. Ecco il cinguettio dell’alba. L’edicolante naturalmente è chiuso. C’è una macchina che sfreccia a velocità elevata e io mi metto da parte. Intravedo la sagoma di un passante, che forse va al lavoro. Arrivo alla stazione. C’è gente di passaggio. Io sono un estraneo, uno straniero tra estranei, tra stranieri. Non c’è più nessuno che abbia una sua identità e che si sente a casa sua: ammettiamolo candidamente, la crisi è di ognuno, la crisi è di questa epoca e di questa società  e tocca tutti, più o meno. Tutti sono in una terra di nessuno psichica, esistenziale, mentale, prima ancora che geografica. C’è chi si sente di non appartenere a questo luogo perché arriva da molto lontano. Io non mi sento più di qui perché qui sono l’eterno rifiutato, quello scartato, quello messo in un angolo buio, quello riposto lontano e dimenticato. Io non mi sento di qui perché qui a conti fatti non ho una vera vita sociale e lavorativa, perché la mia è una non vita che ha però a tutti gli effetti la parvenza di una vera vita, perché non sono mai voluto partire per un posto più accogliente e ora è inutile fare recriminazioni o avere rimpianti. Cammino all’alba nella nebbia fino a quando non giungo al bar. Penso che è Natale, anche se si è perso il senso più profondo e autentico del Natale. Ha prevalso il consumismo e fino al 24 la gente ha fatto carte false per fare o ricevere i regali più belli e costosi. La cosa migliore è stare assieme con la famiglia per Natale e considerarsi fortunati di avere una famiglia. Rifletto sul fatto che certe festività possono davvero far male a chi è solo o è povero, a chi non è stato considerato da nessuno, ma il trucco è tollerare, sopportare questi giorni e aspettare la quotidianità dei giorni qualsiasi, quelli in cui non c’è l’obbligo sociale, il bisogno socialmente indotto di essere felici insieme agli altri a tutti i costi. Penso a chi è solo, a chi si sente solo, a chi è in difficoltà economica. Guardo l’insegna illuminata. Entro dentro. Saluto la titolare. C’è solo un avventore. Faccio colazione.  Poi la saluto, lei ricambia il saluto e mi fa gli auguri e io contraccambio.  Esco fuori e una barbona settantenne, che sta fumando una sigaretta, mi fa gli auguri e mi dà il buongiorno. Anche io faccio gli auguri e mi incammino verso il mio destino. La gentilezza e la convivialità sincera di queste due donne mi hanno rincuorato, mi hanno scaldato il cuore. A volte ci si riconosce tra estranei, tra stranieri e la nostra umanità ha la meglio sulla nostra crisi. È l’alba. Questo giorno non è ancora sbocciato, la luce non ha ancora rischiarato questa mattina, questa cittadina. E mentre ascolto il suono dei miei passi penso che l’esistenza è fatta di cose semplici, che a ogni modo è sempre meglio semplificare che ingarbugliarsi nelle astruserie e negli intellettualismi, che spesso per restituire la complessità della realtà si finisce per perdersi nei meandri del niente, che ci sono già tante sfaccettature della vita che la complicano, che non bisogna moltiplicare gli enti o gli specchi (in fondo già Berkeley aveva intuito che i principi che governano la natura e la scienza sono pochi, semplici, essenziali e lo stesso Einstein aveva rafforzato il concetto, dicendo che quando la risposta è semplice è Dio che risponde, alla faccia di ogni epistemologia della complessità). Cammino all’alba nella nebbia, che per qualche istante mi confonde i pensieri. Sembra una mattina come le altre, se non fosse che oggi è Natale. 

Una piccola meschinità (miniracconto di fantasia)…

Ha preso una tachipirina. Ha mangiato solo due crostini tanto per non essere digiuno, tanto per fermarsi lo stomaco.  Accende la radio. La stazione sta passando una canzone straniera  di moda negli anni ’80, di cui non riesce a ricordarsi il titolo. Fa degli sforzi di memoria, proprio non riesce a ricordarlo. Sono arrivati a un paese del circondario dove c’è un panificio che fa una buona schiacciata. Suo padre parcheggia. Poi va a comprarla. Lui aspetta in macchina. Dopo cinque minuti suo padre mette sui sedili posteriori la busta con dentro la schiacciata. Gli fa cenno di uscire fuori dell’abitacolo e andare in un bar vicino, distante solo trenta metri, per prendere qualcosa. Piove a dirotto, ma loro si incamminano, incuranti di tutto. Due schizzi d’acqua non hanno mai rovinato la salute a nessuno! Entrano. Il titolare è cinese. La barista è italiana. Suo padre ordina un caffè.  Lui prende un cappuccino. Ci sono degli avventori che parlano tra di loro. Scherzano, ridono, parlano del tempo. Lui prende il cappuccino e si mette seduto a un tavolino. Prima si gusta la schiuma con dei colpi di cucchiaio. Quindi apre la bustina dello zucchero, che gira e rigira. Infine si sorbisce lentamente il liquido. È un buon cappuccino perché il latte e il caffè sono di qualità. Si guarda intorno. Arriva una donna sulla quarantacinquina.  È lei o non è lei? È una sua vecchia conoscenza? Rimane interdetto. I suoi pensieri sembrano fermarsi. Il tempo sembra fermarsi. Sono istanti di incertezza e di sospensione. Molti anni fa quando lei era una bella ragazza lo aveva illuso. Passava sempre davanti al suo negozio. In realtà lei aveva solo giocato. Lei aveva molti uomini e lui non significava niente per lui. Solo un gioco di sguardi molto prolungato, durato delle settimane, ma che non aveva portato a nulla. Appena lui aveva provato ad approcciarla, lei si era rivelata ferma, decisa, categorica, risoluta. Lo aveva preso a male parole e il giorno dopo si era presentata davanti al suo negozio con un uno dei suoi amanti a scambiarsi effusioni. La delusione era stata cocente, ma erano altri i drammi, le vere sofferenze nella vita. Bisognava non pensarci, andare avanti, fare finta di niente, sopportare tutto. Lei continuava a passare davanti al luogo dove lavorava come se fosse invincibile, irreprensibile, totalmente padrona del mondo o almeno di quel piccolo mondo di provincia, dove le belle ragazze potevano permettersi tutto. Lui non sapeva il suo nome, sapeva solo dove lavorava. Poi lui aveva chiuso il negozio e non l’aveva più vista. Poco male! Meglio così! Quindi un giorno morì un ex collega di lavoro di sua madre. Lui andò a visitare il profilo Facebook del defunto e trovò che lei era una sua amica sui social. Solo allora seppe il suo nome e cognome. Poi seppe, leggendo il giornale, che il  padre di lei era morto. Forse è lei in quel bar. È quasi irriconoscibile.  Quello è un vero tuffo nel passato. È un vero tuffo al cuore. Prende la tazza e la riporta al banco. In quel breve tragitto la guarda. È davvero lei. È appoggiata al banco di tre quarti. Lei lo guarda di sguincio, con la coda dell’occhio. I loro sguardi si incrociano, ma senza alcuna curiosità né elettricità né erotismo da parte di entrambi. Lei forse si chiede cosa mai ci faccia lì. Lui sa già che quello è il suo paese. Nota che la sua bellezza è sfiorita.  Lei mormora qualcosa, mentre lui posa sul banco la tazza. Lei sussurra queste parole: “il tuo problema è che non hai il fisico”. Le bisbiglia, le pronuncia in modo appena percepibile. I due uomini che sono con lei, forse suoi amici o forse suoi amanti, lo guardano male, lo apostrofano con due insulti. Cercano la rissa. Sono disposti a venire alle mani. Lui capisce che non tira aria, che quel luogo non fa per lui. Chiede a suo padre che sta leggendo un giornale sportivo se possono andare via. Il padre annuisce.  Vanno verso la macchina. Lui è totalmente immerso nei suoi pensieri. Non l’attrae più quella donna e poi è una vecchia ferita ormai interamente cicatrizzata.  Però non riesce a non pensarci. Pensa che a volte il destino gioca dei brutti scherzi. Pensa che è strano e davvero buffo rivederla dopo poco più di quindici anni. Quante cose sono avvenute in quel periodo! Pensa a un mare di cose. Pensa che lei prima poteva puntare sulla bellezza e ora non è altro che una donna rozza, sgraziata,  ormai non più appariscente, non più piacente. Certo il suo pensiero o questa sua semplice constatazione di fatto non è da comunicare al prossimo perché sarebbe stato ritenuto cinico, odioso, politicamente scorretto, insensibile nei confronti delle donne. Certe grandi intellettuali femministe se sapessero questi suoi pensieri lo considererebbero un omuncolo banale, scontato, sotto la media. Lui se ne frega altamente. Questa sua idea cattiva, spietata gira e rigira nella sua mente e lui quella mattina è davvero di buon umore. Sa che è senza lavoro, che ha solo un amico fidato, che non ha una donna, che forse i suoi soldi finiranno presto, che c’era stata una pandemia terribile e una terribile guerra è in corso. Sicuramente questo è  segno inequivocabile che è meschino, ma ognuno ha la sua meschinità che nasconde a tutti in fondo all’animo. Sono piccoli pensieri da non rivelare al prossimo, ma esistono e ci fanno talvolta stare meglio, sono garanzia di momenti di felicità. Non fate finta di essere puri e candidi come gigli! Ammettetelo serenamente. Non cercate di dimostrare una grandezza d’animo che non avete. Confessatelo che è la vostra gretta meschinità che vi fa tirare avanti in questa vita! E lui quella mattina si sente solo ma felicemente solo. È stato rifiutato da quella ragazza anni fa.  Non ha avuto baci, carezze, calore, orgasmi da lei.  Ma ora a 50 anni è felice di essere stato rifiutato, di non esser il suo uomo, di non avere figli da lei e si sente davvero un uomo fortunato. Pensa a tutti i problemi del mondo,  ma non può  fare a meno di essere di buon umore e niente e nessuno possono togliergli quello stato d’animo,  pensando a come è diventata ora quella ragazza che un tempo stordiva tutti con la sua bellezza. È di nuovo in macchina. Partono. Sono di nuovo in un ambiente caldo e confortevole. Accende di nuovo la radio. La stazione passa una canzone straniera di moda negli anni ’80, di cui lui proprio non riesce a ricordarsi il titolo, nonostante gli sforzi di memoria. 

L’attrice (miniracconto di fantasia)…

“E sui destini che si incrociano un po’ male
E che si parte per vedersi ritornare…” (Roberto Vecchioni)

Era in una città straniera, anzi era lui a essere uno straniero in quella città fredda. Forse sarebbe andato con una escort. Era l’unico modo di rompere la solitudine. Aveva preso il treno. Aveva fatto centinaia di km, guardando distrattamente fuori dal finestrino. Avrebbe abbandonato per due o tre giorni quella sua cittadina maledetta, dove molti lo odiavano o dove comunque nessuno lo aiutava. Anzi era addirittura inutile per lui ormai chiedere aiuto perché sapeva già la risposta. Aveva collezionato troppi no, troppi rifiuti. Era così sul lavoro, con le amicizie ma anche con le ragazze. Troppe porte chiuse in faccia. Nessuna novità all’orizzonte. Così era partito per qualche giorno. Era un’evasione da poco, un abbozzo di fuga. Ma sapeva che non poteva abbandonare la sua cittadina per motivi familiari ed economici. Forse niente e nessuno si sarebbe potuto frapporre tra lui e una bella escort. Era una questione di vita o di morte. Si sentiva troppo solo e un incontro furtivo avrebbe rimandato una crisi. Intendiamoci: non era così giù da tentare il suicidio perché l’aiutava uno stabilizzatore dell’umore. Ma il calore di una donna l’avrebbe aiutato assai. Così comprò un quotidiano locale perché c’erano gli annunci delle escort. Pensò che in fondo i giornalisti erano tutti ipocriti a fare la morale a cittadini e politici quando i giornali per cui scrivevano sfruttavano il mestiere più antico del mondo e ricevevano lauti finanziamenti dallo Stato. Entrò in un pub. Prese una birra. Poi altre ancora. Fu grazie al coraggio, l’ebbrezza e l’incoscienza degli alcolici ingurgitati che conobbe una ragazza poco più grande di lui. Era bella. Partiva molto svantaggiato perché le ragazze così avvenenti vanno con tipi in carriera o particolarmente attraenti. Lui invece non era un maschio alfa. Non aveva possibilità di conquista. Ma lei quel giorno non aveva niente da fare e bevve insieme al ragazzo sfigato. Dopo un’ora erano entrambi su di giri e lei lo invitò a casa sua. Pagò lui il taxi. Salirono di corsa le scale. Lei le disse che voleva fare l’attrice. Lui annuì senza rispondere. Lei aveva molte idee e molti progetti per il futuro. Lui sapeva di non avere futuro. Il ragazzo si giocò tutte le carte. Le raccontò che si sentiva solo. Lei lo lasciò fare. Nel giro di poco tempo si baciarono sul divano del soggiorno. Poi lui la prese per mano. Lei non lo respinse e lo guidò in camera sua. Fecero quel che dovevano fare, come se fosse un bisogno, qualcosa di insopprimibile e irrinunciabile.  Nessuno seppe se era accaduto per destino o libertà. Neanche se lo chiesero. Quando lei si rivestì capì che quel ragazzo era d’intralcio per i suoi progetti e lo mise gentilmente alla porta, risoluta ma con delicatezza d’animo. Non le lasciò neanche il suo numero di telefono. Le disse “addio” e niente più. Forse era stato solo l’alcol. Forse lui era stato solo un diversivo in una città deserta d’agosto. Non si rividero più. Anzi lui la rivide nel piccolo schermo. Lei diventò infatti famosa e ricca. Diventò un’attrice importante.  Lui non lo raccontò mai a nessuno perché nessuno gli avrebbe creduto. Visse tutta la vita in quella cittadina maledetta. Fece ancora qualche piccola fuga, prendendo il treno. Ma non incontrò più nessuna donna. Era ormai troppo in là con gli anni. Neanche lui cercò di incontrare di nuovo l’attrice. Ogni tanto alla fine della giornata pensava a lei, ma era solo un attimo. Lui era stato solo un diversivo, un passatempo. Lui con lei aveva rotto la solitudine, lei invece con lui era evasa dalla routine di un agosto, ormai troppo lontano. Qualche volta pensava che quell’incontro non fosse reale, credeva di averla solo sognata. 

RACCONTO: VIAGGIO IN MARE DI UN FLACONE DI PLASTICA – Ester Cecere

RACCONTO: VIAGGIO IN MARE DI UN FLACONE DI PLASTICA – Ester Cecere

«La crema solare è finita!» sbottò stizzita Gabriella e lanciò il contenitore sul bagnasciuga in secca.

Si alzò la marea e il flacone marrone cominciò a galleggiare allontanandosi dalla costa di quella spiaggetta all’interno del Mar Grande di Taranto. Galleggiò e galleggiò fino a quando non uscì dal bacino e si diresse verso il largo, più o meno velocemente a secondo dell’intensità del vento e delle correnti. In pochi giorni fu in mare aperto. La sua navigazione, tuttavia, non fu sempre tranquilla. Più di una volta, infatti, esemplari della specie Caretta caretta, la tartaruga tipica del Mediterraneo, tentarono di afferrare il contenitore che avevano probabilmente scambiato per un pesce. Non ci riuscirono mai e il flacone la fece sempre franca!

Intanto passavano i mesi. Sotto l’effetto dei raggi solari, il colore marrone, prima intenso, si era sbiadito e la superficie del contenitore non era più liscia ma cominciava a sfarinarsi. Eh si, perché il malcapitato flacone stava iniziando a degradarsi!

Esso sembrava ancora intatto, ma il processo degradativo incominciava a rompere i legami tra le molecole e ne modificava la struttura. Così il flacone andò incontro a ingiallimento, anche se sembrava mantenere la sua forma originale. Col passare dei giorni, la sua struttura divenne sempre più fragile e iniziò a spezzettarsi in frammenti più piccoli. In ognuno di essi, il processo degradativo continuò fino a produrre frammenti di dimensioni sempre minori ,fino a divenire invisibili a occhio nudo, ma sempre presenti nell’ambiente.

Alle fine si arrivò alla completa degradazione del polimero che costituiva la materia plastica, cioè al suo “spezzettamento” in unità di piccolissime dimensioni tanto da poter essere assimilate dagli organismi viventi (biodegradazione).

Così il contenitore della crema solare di Gabriella finì “mangiato” dagli organismi marini ed entrò nelle catene alimentari.

“No, non mangiare le ostriche!  – con veemenza il padre apostrofò sua figlia Gabriella – Un gruppo di ricercatori di un famoso ente di ricerca italiano ha rinvenuto nelle ostriche, ma anche in altri molluschi eduli lamellibranchi, un’alta percentuale di microplastiche!”

Gabriella stava per “mangiare” il contenitore della sua crema solare!

Ester Cecere dalla rivista Punti di vista press

O N D E, di Silvia De Angelis

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Rincorro  quelle interminabili onde, che col loro andirivieni, riportano in quell’arenile solitario fibrillanti attimi di remoto, unici  nel momento,  a inorgogliosire trame nascoste  perse in complicate falangi d’esistenza, interminabili e irrisolvibili.

Intense nuances smaglianti,  e  variegate sfumature tonalizzano  inquiete  intime trine , risvegliate d’un tratto a inusitati palpiti, che, col loro fremere, hanno delineato inaspettati percorsi  vissuti, volti a donar certezze nella personalità, sempre vogliosa di crescenti  sagome  caratteriali.

Quel continuo plasmare innovativi intenti ,assimilati  da quel che valido, ruota intorno a noi ,riassumendone le parti migliori, quelle che ampliano la nostra visuale, donandole l’ intrigante  nota in più, che insieme a originali accordi, tempra un’armonia interiore in grado di captare ogni minuscola inezia del percorso esistenziale, colorandolo di  straordinaria emozionalità  e di quel sovrappiù, da non sottovalutare, capace di aprire radiosi spiragli.

Quegli spiragli piccolissimi emanano briosa luce, che s’ingrandisce giorno per giorno rendendoci  capaci di osservare oltre il consueto, in una dimensione più languida e accattivante, in grado di percepire arcane sensazioni che proiettano il nostro sentire al di là di un insipido attimo d’essenza….

@Silvia De Angelis