Racconti: “Tu non puoi giocare… vai a divertirti con le bambole!”, di Lorenzo Rossomandi – Scritti

“Tu non puoi giocare… vai a divertirti con le bambole!”

Erano passati tre anni da quella frase e ora Luca ne aveva sedici.

Ma quell’invito lo ricordava ancora. Era incisa nella sua memoria come una cicatrice.

Peggio di una cicatrice. Quest’ultima è un segno, un ricordo, ma difficilmente fa male dopo qualche mese.

Quella frase, invece, era ogni giorno sempre più dolorosa.

Era quella che gli aveva sbattuto in faccia la verità, il suo essere diverso, il suo non essere accettato dagli altri.

Ma cosa aveva poi di così diverso? Era gentile, non accettava di fare a botte per qualsiasi stupidaggine che accadeva in classe, non lo appassionavano le ricreazioni passate a scalciare una palla di carta e scotch nel corridoio, come facevano gli altri.

E tutta questa era la sua diversità? Eppure era così!

Le notti insonni, la vergogna di parlarne con qualcuno per non peggiorare le cose, lo stavano logorando.

Ogni notte, ogni santa notte.

In realtà, un giorno, trovò il coraggio di parlarne con Serena, la sua compagna di classe che viveva nel suo condominio. A lui piaceva Serena. Nata in Toscana, si era trasferita da poco a Milano. Ancora non lo conosceva, pensava, per quello lo salutava e ci parlava. Ricordava la sua espressione inizialmente stupita, mentre le spiegava che quando a scuola vedeva “lui”, sentiva come delle farfalle nella pancia. Poi quello stupore si trasformò in sorriso e poi quel sorriso si rivelò un sogghigno, poi la bocca di Serena pronunciò quella frase che lo distrusse dentro: “Ma te, allora, sei finocchio!”

Non ci parlò più con lei.

Anzi.

Decise di non parlarne più con nessun altro.

Ormai si era convinto: era anormale. Uno con dei problemi. Uno da curare.

Probabilmente il suo silenzio peggiorava le cose; i suoi genitori lo avrebbero potuto portare da uno bravo in queste cose.

Per farlo tornare “normale”.

Quel giovedì però fu una giostra di emozioni forti.

L’aria di quella mattina di giugno era già calda, la città aveva già preso vita e la scuola invece era finita. Il balcone era invitante e il dolore per l’ennesimo amore che sapeva di non poter vivere era troppo forte.

Ci aveva pensato tutta la notte. Non poteva continuare così. Tutto quello era uno strazio. Non si può vivere senza amore e non si può vivere senza essere accettati e amati dagli altri.

Era il momento di farla finita.

Quattro piani erano una garanzia per il risultato.

Era quella la cosa migliore da fare… chiudere gli occhi… contare fino a tre… uno… due…

Il cellulare squillò. Luca tenne ancora gli occhi chiusi incapace di decidersi se pronunciare il “tre” o rispondere al telefono.

Guardò lo schermo e vide che era Davide.

Perché lo chiamava? Non lo aveva mai fatto prima.

Rispose: “Ciao Luca…”

“Ciao Davide…”

Entrambi rimasero in silenzio per un po’… come bloccati.

Poi Davide ruppe gli indugi.

“Voglio uscire con te”.

Luca rimase di sasso. Non aveva mai pensato che Davide… insomma, non ci aveva mai pensato…”

Quel pomeriggio andarono insieme al “Milano Pride”.

Conobbero un sacco di persone, si lasciarono travolgere dai colori, dalla musica, dai sorrisi.

Non si misero insieme, ma insieme, da quel giorno, impararono ad accettarsi.

E quel balcone al quarto piano rimase solo un buon posto dove esporre i gerani.

Racconti: Stefano iniziò ad odiare, di Lorenzo Rossomandi – Scritti

Stefano iniziò ad odiare.

Il momento in cui accadde fu quando si rese conto che i conti non tornavano più.

E quell’estate non avrebbe portato i suoi figli a Euro Disney.

Ci volevano troppi soldi.

Possibile che lavorando 8 ore al giorno, facendosi un mazzo cosí, dovesse imporre alla propria famiglia una vita di rinunce? Possibile che non fosse in grado di poter mantenere lo stesso tenore di vita che, invece, suo padre era riuscito a dargli?

In quel momento si sentì un fallito, Stefano.

Ma solo in quel momento.

Perché la sua mente non poteva accettare questa realtà. Il suo “ego” non poteva ammettere che fosse così.

Ascoltava i discorsi dei politici. Ascoltava le loro promesse, le loro rassicurazioni e si incazzava ancor di più. “Sono trent’anni che promettono, ma le cose vanno sempre peggio!”

Poi ascoltò quelli che anziché promettere, spiegavano.

E quelle spiegazioni avevano un senso.

Ovvero, davano un senso a ciò che gli stava accadendo e, contemporaneamente, lo scagionavano dal sentirsi un fallito.

Non era lui il problema.

La colpa era dei burocrati europei. Quelli ci vogliono annientare come popolo. La colpa era dei poteri forti, di coloro che hanno come disegno quello di distruggere la classe media per concentrare la ricchezza nelle loro mani.

La colpa era di quelli che continuavano a sprecare risorse per accogliere quei migranti, gente con un’altra cultura, un’altra storia, un’altra pelle, che non riesce ad adattarsi al mondo civile e vive di violenza e furti.

Avevano ragione quei politici che spiegavano tutto questo. Tutto adesso aveva una logica.

E, sopratutto, lui non aveva alcuna colpa.

E fu così che, quell’estate, Stefano cominciò ad odiare!