DE LINGUA LATINA, Marco Terenzio Varrone, Traduzione e note di Maria Rosaria De Lucia, Recensione di Raffaele Piazza

Marco Terenzio Varrone

DE LINGUA LATINA

Traduzione e note di Maria Rosaria De Lucia

Recensione di Raffaele Piazza

Il volume che prendiamo in considerazione in questa sede presenta una premessa di Nazario Pardini intitolata Un viaggio dal De lingua Latina di M. Terenzio Varrone alla conoscenza dell’italiano nell’opera di Maria Rosaria De Lucia e un’introduzione della stessa curatrice scandita nelle seguenti sezioni: Breve storia dell’etimologia, Struttura originaria dell’opera, Il manoscritto, Avvertenze.

Seguono i libri del saggio De lingua Latina di Varrone dal quinto al decimo.

A proposito dell’utilità dell’opera scrive Pardini che meditare su vocaboli che sono comuni nel nostro quotidiano ma il cui uso è, per così dire, meccanico, aprirà nuovi orizzonti di pensiero e si può aggiungere che sono proprio i vocaboli nel loro assemblarsi a costituire una lingua. 

Le parole di Varrone hanno l’innegabile fascino di farci immaginare la vita nei tempi dell’antichità, di proiettarci nel quotidiano del mondo della latinità, della storia di Roma e dell’impero romano.

L’esistenza dei nostri antenati latini è lontana anni luce; la malia e il fascino di usi e costumi di cui parla Varrone sono per noi motivo di vivo interesse per penetrare filologicamente in una realtà lontana di quando si veneravano gli dei e i lari e i penati e lo spirito della guerra era fiorente e c’erano anche i poeti erotici e quelli patriottici per cantare le gesta dei potenti.

Come scrive la De Lucia nell’introduzione esauriente e ricca di acribia nasce spontanea la domanda del chiedersi cosa può indurre un lettore del III millennio ad accostarsi ad un’opera risalente a più di 2060 anni fa. Per l’appassionato di lingua latina la risposta è facile: trovare nuovi spunti e nuove prospettive da cui guardare all’idioma della Roma antica, con l’ausilio dell’etimologia.

Per chi invece ha un rapporto di diffidenza, se non addirittura di idiosincrasia, per quella lingua odiata fin dai banchi di scuola, perché ricordata solo come un labirinto di noiose regole grammaticali, può essere l’occasione per scoprire che il latino non era e non è solo declinazioni e sintassi, ma era la lingua viva che ha permesso a Varrone di lasciarci una vera enciclopedia sul mondo romano.

I brani degli autori classici, che costituiscono “le versioni” proposte a scuola, sono in massima parte, se non esclusivamente, incentrati su gesta leggendarie, battaglie, assedi, eroi, ma non si sa nulla della quotidianità del popolo romano.

Leggere il De lingua Latina significa aprirsi al mondo realmente vissuto da essere umani come noi che dovevano lavorare, nutrirsi, vestirsi, far di conto, dilettarsi nell’area romana, ante Cristo.

Nel Libro V in L’origine delle parole Varrone scrive di essersi «…proposto di esporre, in sei libri, il modo in cui, nella lingua latina, furono imposti i nomi alle cose. Dei sei libri ne ho già compilati tre precedenti a questo, nei quali ho trattato la materia che chiamano studio dell’etimologia e li ho dedicati a Settimio».

Continua Varrone affermando che «…ognuna e tutte le parole hanno due aspetti naturali, da cosa e a cosa il nome sia stato imposto, così quando si va a ricercare da cosa derivi “pertinacia”, persistenza, si dimostra che deriva da “pertendere” persistere; secondo a quale atteggiamento il termine pertinacia sia applicato, si parla di ostinazione quando non ci si dovrebbe ostinare e ci si ostina; invece si parla di perseveranza quando si persevera in ciò in cui è bene perseverare…».

Uno studio complesso e profondo quello di Varrone sulla lingua latina sul quale si potrebbero scrivere fiumi d’inchiostro ben oltre lo spazio di una recensione.

Raffaele Piazza

Marco Terenzio Varrone, De lingua Latina, traduzione e note di Maria Rosaria De Lucia, premessa di Nazario Pardini, Guido Miano Editore, Milano 2021; isbn 978-88-31497-08-4.

Da un Poemetto alla Luna I fiori di Gelsomino, di Adriana Deminicis. Recensione di Raffaele Piazza

Adriana Deminicis

Da un Poemetto alla Luna I fiori di Gelsomino

Recensione di Raffaele Piazza

La raccolta di poesie di Adriana Deminicis, insegnante di Monte Vidon Corrado, in provincia di Fermo, che prendiamo in considerazione in questa sede, presenta una prefazione di Maria Rizzi esauriente e ricca di acribia.

Come scrive la prefatrice l’Autrice crea una sorta di romanzo in versi che tocca vette altissime di lirismo e trascina nel suo universo, in apparenza surreale, in realtà quanto mai vicino alla concretezza. Il riferimento Alla luna, l’idillio leopardiano dell’opera I Canti, è inevitabile, tanto più che il poeta di Recanati aveva come tema di fondo il ricordare, ovvero il rimettere nel cuore, per riferirci al significato etimologico del termine.

Leggerezza che si coniuga a icasticità sembra essere la cifra distintiva del poiein e della poetica della Deminicis, connotato fortemente dalla linearità dell’incanto, ad una capacità di stupirsi, di fronte alle cose e alla natura e non manca un riferimento concreto alla quotidianità di componimento in componimento come quando vengono detti la medaglietta del cane Zoe e la caffetteria, che a loro volte divengono simboli della ricerca di un rassicurante profitto domestico.

Tutte ben risolte le composizioni che sono sottese ad una forte dose di magia e malia e sembra che la poetessa raggiunga equilibrio e armonia nel suo approccio alle cose come quando, per esempio, prova un forte senso di amore per le piante, metafora di purezza, qualcosa che scende nel cuore e nell’anima.

Tutto l’ordine del discorso pare essere immerso in una costante riscoperta della bellezza che trova la sua realizzazione in quello che potremmo definire Eden privato dell’io-poetante stesso.

Chiarezza, nitore, luminosità e precisione sembrano connotare questi versi e la raccolta per la sua unitarietà contenutistica, semantica e stilistica potrebbe essere considerata un poemetto.

«…/ Il fiore nasceva come sentimento d’Amore / ogni qualvolta passava un Cuore colmo / d’Amore /…» (La caffetteria) scrive Adriana riscoprendo la rima che per antonomasia appartiene ai giardini eterni, infiniti e salvifici della poesia.

«Aspettavo la guarigione / andavo a cercare nei libri antichi / della memoria che dentro di me conservavo / per far venire alla Luce quel medicamento / antico, naturale, / quando ancora non c’era il caos / della disinformazione /…» (Aspettavo la guarigione): e qui pare essere sottintesoche proprio la pratica della scrittura poetica porta salvezza e guarigione dell’anima e del corpo.

In Una pianta di ulivo vengono decantate le qualità terapeutiche dell’ulivo e dell’olio e l’ulivo stesso diviene animato perché saluta l’io-poetante.

In un’epoca come la nostra di pandemia e guerra, di inquietudine per il destino dell’umanità, è raro incontrare una voce poetica, in questo caso autentica e originale come quella della Deminicis che non rifletta sul dolore e la morte.

C’è qualcosa di virgiliano in questi versi quando l’amore per la natura che si fa poesia anima le pagine.

Un esercizio di conoscenza tout-court intelligente e sensibile per ritrovare sintonia con se stessi e la realtà.

Raffaele Piazza 

Adriana Deminicis, Da un Poemetto alla Luna – I fiori di Gelsomino, pref. Maria Rizzi, Guido Miano Editore, Milano 2022, pp. 120, isbn 978-88-31497-32-9, mianoposta@gmail.com.