“Chi cavalca così tardi nella notte e nel vento” Goethe, il re degli Elfi
Questa è la vicenda di un dolore impossibile consumato al galoppo nei campi a distesa di un cuore arso come stoppia tra file d’ alberi nudi e crepe di fantasmi che si concedono a una boscaglia dopo l’altra a voler disarcionare dalle tue ciglia lacrime che non scendono ma salgono Una storia che non c’è -non c’è mai stata e mai ci sarà- una stregoneria che passa attraverso parole che trafiggono veloci il tempo che abbiamo e solo quello (era un inquisitore quel pettine che mi baciò la spalla e mi lasciò il suo marchio?) e che vendiamo a poco prezzo a una sorte d’accatto -che tutto si piglia nei luoghi comuni-. Mi hanno beccata calva e spettinata a contare le dita di una mano tagliata poi dell’altra e a sbagliare, a sbagliare a contare perché non arrivavo a 10 e le mie dita invece le avevano le chiome degli alberi. E anche il cielo non c’era più
Sono partito per incontrare l’Uomo – o un dio? per incontrare Dio e un uomo. Ma questo non posso discuterlo con te elegante anziano signore al caffè dove bevo il mio te al latte verso sera. Perché arrivo da un paese dove si ascolta la rigida tempesta dell’inverno e il deserto dietro la tempia. E parlo una lingua in cui dio significa uomo e uomo dio E in questa lingua è scritta la poesia da questa dipende il suo destino
un corpo che sta dentro un corpo che va un qualcuno solo a metà
guadare il fiume del senza senso il venir meno quotidiano di pezzi di “sé’”: il sé dalle gambe dalle braccia dalla pelle, dal cuore infine dalla parola
come una perdita di rime
apparire solo sparendo, allucinazione e verità, non sono nulla di ciò che mi circonda
un resoconto sotto l’epidermide della stranezza: essere qualcuno solo a metà
può un inizio essere bugiardo? il mio lo fu come nacque in me l’idea? che m’ assedia quanto la scheggia di una bomba scoppiata in un’ altra testa
II
in me nascevano le idee poi le distruggevo come fanno gli uomini con le città c’era qualcuno che si toccava e non aveva scelta nei suoi occhi ma aveva una sorella che guardava e contava fino a dieci e poi ricominciava
saltava l’oggi numerava l’altro ieri che era cambiato il mese saltava l’oggi numerava un dopodomani che sarebbe cambiata la stagione
saltava il qui era sempre là e poi un poco più in là saltava il qui perché non lo cercava e non lo trovava ed era senza tempo e senza spazio sempre in penombra
era sì era. ma non sono sicura che ci fosse era ma forse non c’era
tutto l’universo non era abbastanza grande da accogliere il suo non esserci
III
saltava il padre che le mancava non aveva mai amato le paternità dell’ultimo minuto
Inquietudine di gesti assemblati nel vuoto e questa casa
piena di cose non fatte di cibi non digeriti di lacrime non accadute e ormai secche di parole pagliacce di carezze in cammino verso un altro destino di baci ululanti desiderio e nostalgia non era un’allegoria:
passeggia frenetica sul lungomare di una psicotica fretta e accade che ancora mi cerchi
l’indirizzo su una scheggia di carta o una pagina di vetro mi ha abitato come un’omissione
il colore delle nostre vesti l’arancio aggredito dal rosso ciliegio quel lieve sentore di bugia l’emozione sgualcita a pezzi nel tappeto le fusa del gatto un gesto: l’ adagiarsi del corpo il suono della porta sul più bello
vorrei… vorrei avere occhi di cristallo trasparenti e fulminanti mani che tolgono la polvere anche ai sogni orecchie che avvertono i punti morti nel cammino odori col profumo di maree che lanciano speranze sulla riva
tu che mi accarezzi
e invece… … solo malintesi: una formica ci passeggia sopra
il mondo, quel vecchio usuraio, come sempre, continua a prestare e a esigere interessi non dovuti
Ormai da giorni rimugino sul mio resoconto del lavoro svolto con i profughi non ce la faccio proprio a metterlo sulla carta quell’odore odore di gente di creature umane quell’odore dolciastro un misto di urina di vomito di sangue mestruale di sangue di feci di sudore di gente spaventata
ormai da giorni rumino questo resoconto nei sogni è il resoconto a ruminare me mi perseguita insomma come dire
«Per loro tutto può andar bene!» il sudicio pavimento di cemento i vestiti fradici le interminabili attese in fila esattamente in una fila 2000 persone in un’unica fila una dietro l’altra per ore e ore per 2 pezzi di pane pesce in scatola una mela e mezzo litro di latte per l’acqua per mezzo litro d’acqua
ormai da giorni rumino questo rapporto già da giorni mi tormento come comporlo insomma come raccontare che la gente mi faceva segno sono affamato sono affamata siamo affamati dimagriti stanchi sporchi rassegnati
come raccontare che li sorvegliavamo come i peggiori e i più pericolosi nemici avvertendo la gente del luogo di non lasciar passare i loro animali dove erano passati loro potrebbero contrarre malattie terribili la tubercolosi, il colera, la scabbia, i pidocchi
«Neanche per sogno! Non sperate davvero che io vada a pulire le tende finché c’è anche uno solo di quella marmaglia infernale!» sbraitava una signora anziana mandata dai servizi sociali «Non voglio avere a che fare con loro, che tornino là da dove sono venuti!» strillava a notte fonda durante una delle notti più serene nel campo svegliandosi di soprassalto dal placido sonno dei giusti
come raccontare come descrivere la scena iniziale quando son giunta per la prima volta alla fabbrica Beti la mattina presto prima dell’alba
nei campi vicini silenzio nebbia in lontananza invece fasci di luce dei fari elicotteri suono insistente di sirene veicoli della polizia esercito con i loro furgoni e camionette armati fino ai denti agenti specializzati con passamontagna nero sul viso e il casco in testa muniti di giubbotti antiproiettile mitragliatrici rivoltelle sfollagente scudi e volti mascherati perfino i membri del servizio umanitario con guanti e maschere da naso e bocca
eppure dappertutto quell’odore quell’odore intenso e dolciastro odore umano
Parla anche tu, parla per ultimo, di’ ciò che hai da dire.
Parla – ma non separare il no dal sì. Dai anche senso a ciò che dici: dagli l’ombra.
Dagli ombra che basti, dagliene tanta quanta sai sparsa intorno a te fra mezzanotte e mezzogiorno e mezzanotte.
Guardati in giro:
lo vedi, che il vivo è dappertutto – Prossimo alla morte, ma vivo! Dice il vero, chi dice ombra.
Ma ora si stringe il luogo dove stai: e adesso dove andrai, rivelatore d’ombre, dove? Sali. Innalzati a tentoni. Più sottile diventi, più irriconoscibile, più fine! Più fine: un filo, lungo il quale vuole scendere la stella: per nuotare nel basso, giù in basso dove vede se stessa luccicare: nella risacca di erranti parole.
Da “La Rosa di Nessuno”
55 anni fa’, nella notte tra il 19 e il 20 Aprile 1970, Paul Celan andava incontro alla Senna. Al suo genio e a Lui il mio commosso omaggio
Ascolta bene, figlio mio: le bombe cadevano su Città del Messico ma nessuno se ne rendeva conto. L’aria portò il veleno per le strade e dentro le finestre aperte. Tu avevi appena mangiato e guardavi alla tele i cartoni animati. Io leggevo nella stanza accanto quando capii che stavamo per morire. Nonostante le vertigini e la nausea, mi trascinai nella sala da pranzo e ti trovai sul pavimento. Ci abbracciamo. Mi hai chiesto cosa stava succedendo e io non dissi che eravamo nel programma della morte, ma che stavamo per iniziare un viaggio, un altro, insieme, e che non dovevi avere paura. Quando se ne andò, la morte nemmeno ci chiuse gli occhi. Che cosa siamo?, mi domandasti una settimana o un anno dopo, formiche, api, cifre sbagliate nella grande zuppa marcia del caso? Siamo esseri umani, figlio mio, quasi uccelli, eroi pubblici e segreti.