Il ponte sul nulla ora è in abito da sera crespo l’ignavia sta a guardare una donna violentata tenere in pugno i suoi ragli di asina scuoiata mentre la parola diventa macigno urlante dentro il suo occhio
“Chi cavalca così tardi nella notte e nel vento” Goethe, il re degli Elfi
Questa è la vicenda di un dolore impossibile consumato al galoppo nei campi a distesa di un cuore arso come stoppia tra file d’ alberi nudi e crepe di fantasmi che si concedono a una boscaglia dopo l’altra a voler disarcionare dalle tue ciglia lacrime che non scendono ma salgono Una storia che non c’è -non c’è mai stata e mai ci sarà- una stregoneria che passa attraverso parole che trafiggono veloci il tempo che abbiamo e solo quello (era un inquisitore quel pettine che mi baciò la spalla e mi lasciò il suo marchio?) e che vendiamo a poco prezzo a una sorte d’accatto -che tutto si piglia nei luoghi comuni-. Mi hanno beccata calva e spettinata a contare le dita di una mano tagliata poi dell’altra e a sbagliare, a sbagliare a contare perché non arrivavo a 10 e le mie dita invece le avevano le chiome degli alberi. E anche il cielo non c’era più
Mi è rimasto un solo divertimento: le dita in bocca e fischiare allegro. Si è diffusa la cattiva nomea che sono un tipo volgare e un attaccabrighe.
Ah, che stupida perdita! Nella vita ci sono tante stupide perdite. Mi vergogno perché credevo in Dio, provo amarezza perché non credo più.
Dorate, lontane lontananze! Tutto brucia la vita quotidiana! E io mi comportavo da maiale e davo scandalo perché bruciasse più forte.
Il dono del poeta è accarezzare e tagliare. Un marchio fatale è dentro di lui. Una rosa bianca con un rospo nero avrei voluto sulla terra far sposare.
Eppure non si sono avverati, non si sono realizzati questi propositi dei giorni dorati. Ma siccome i diavoli hanno fatto il nido significa che gli angeli vivevano nell’animo mio.
E allora per queste allegre torpidezze, partendo insieme verso un altro paese, voglio all’ultimo minuto chiedere a quelli che saranno con me
per tutti i miei terribili peccati, per la sfiducia nella bontà divina che mi mettano vestito di una camicia russa a morire sotto le icone.
La vita è un sogno. Sogna il re il suo stesso regno, e vivendo in questo inganno, regna, dispone e governa; ed il plauso che è fugace riceve, lo scrive al vento e la morte-sorge ingrata! – in cenere lo trasforma. E chi vorrà più regnare sapendo che si risveglia già nel sonno della morte? sogna il ricco, la ricchezza, che tanti affanni gli reca; sogna il povero la propria tribolazione e miseria; sogna chi accresce i suoi beni, sogna chi cerca e s’appena; sogna chi opprime ed offende; e nel mondo, in conclusione, tutti sognano ciò che sono, ma nessuno lo comprende.
Sono partito per incontrare l’Uomo – o un dio? per incontrare Dio e un uomo. Ma questo non posso discuterlo con te elegante anziano signore al caffè dove bevo il mio te al latte verso sera. Perché arrivo da un paese dove si ascolta la rigida tempesta dell’inverno e il deserto dietro la tempia. E parlo una lingua in cui dio significa uomo e uomo dio E in questa lingua è scritta la poesia da questa dipende il suo destino
Tempo verrà in cui, con esultanza, saluterai te stesso arrivato alla tua porta, nel tuo proprio specchio, e ognuno sorriderà al benvenuto dell’altro,
e dirà: Siedi qui. Mangia. Amerai di nuovo lo straniero che era il tuo Io. Offri vino. Offri pane. Rendi il cuore a se stesso, allo straniero che ti ha amato
per tutta la tua vita, che hai ignorato per un altro che ti sa a memoria. Dallo scaffale tira giù le lettere d’amore,
le fotografie, le note disperate, sbuccia via dallo specchio la tua immagine. Siediti. È festa: la tua vita è in tavola.
un corpo che sta dentro un corpo che va un qualcuno solo a metà
guadare il fiume del senza senso il venir meno quotidiano di pezzi di “sé’”: il sé dalle gambe dalle braccia dalla pelle, dal cuore infine dalla parola
come una perdita di rime
apparire solo sparendo, allucinazione e verità, non sono nulla di ciò che mi circonda
un resoconto sotto l’epidermide della stranezza: essere qualcuno solo a metà
può un inizio essere bugiardo? il mio lo fu come nacque in me l’idea? che m’ assedia quanto la scheggia di una bomba scoppiata in un’ altra testa
II
in me nascevano le idee poi le distruggevo come fanno gli uomini con le città c’era qualcuno che si toccava e non aveva scelta nei suoi occhi ma aveva una sorella che guardava e contava fino a dieci e poi ricominciava
saltava l’oggi numerava l’altro ieri che era cambiato il mese saltava l’oggi numerava un dopodomani che sarebbe cambiata la stagione
saltava il qui era sempre là e poi un poco più in là saltava il qui perché non lo cercava e non lo trovava ed era senza tempo e senza spazio sempre in penombra
era sì era. ma non sono sicura che ci fosse era ma forse non c’era
tutto l’universo non era abbastanza grande da accogliere il suo non esserci
III
saltava il padre che le mancava non aveva mai amato le paternità dell’ultimo minuto