Il 13 luglio 1954 scompariva Frida Kahlo, un’artista poliedrica, innamorata della vita, dei colori, dell’amore, della passione che riusciva a intravedere in ogni dettaglio del reale.
Di struggente bellezza di Frida Kahlo
Ho smesso di contare le volte in cui, arrivata alla seconda riga, ho cancellato e riscritto tutto nuovamente. Cercavo un inizio ad effetto, qualcosa di poetico e vero allo stesso tempo, qualcosa di grandioso, ma agli occhi.
Non ci sono riuscita. Poi ho capito, ricordando ciò che non avevo mai saputo: che per i grandi cuori che muoiono nel corpo ma che continuano a battere nel respiro della notte, non ci sono canoni o bellezze regolari, armonie esteriori, ma tuoni e temporali devastanti che portano ad illuminare un fiore, nascosto, di struggente bellezza.
Spesso la bellezza non si cela nella perfezione, spesso una poesia non colpisce il cuore solo per l’armonia dei versi. Come dice Frida spesso la meraviglia si cela dietro un temporale con la forza dirompente dei suoi tuoni, basta saper guardare.
Frida Kahlo, all’anagrafe Magdalena Carmen Frida Kahlo y Calderón (Coyoacán, 6 luglio 1907 – Coyoacán, 13 luglio 1954), è stata una pittrice messicana. Frida Kahlo nacque a Coyoacán, un villaggio oltre la periferia di Città del Messico. Suo padre era Guillermo Kahlo Kaufmann (nato Carl Wilhelm Kahlo; 1871-1941), un fotografo tedesco, mentre sua madre era Matilde Calderón y González (1876-1932), una benestante messicana di origini spagnole e amerinde. Affetta da spina bifida, che i genitori e le persone intorno a lei scambiarono per poliomielite (ne era affetta anche sua sorella minore), fin dall’adolescenza manifestò una personalità molto forte, unita a un singolare talento artistico e aveva uno spirito indipendente e passionale, riluttante verso ogni convenzione sociale. Un evento terribile segnò per sempre la sua vita, il 17 settembre 1925, quando, all’età di 18 anni, all’uscita di scuola salì su un autobus con Alejandro per tornare a casa e pochi minuti dopo rimase vittima di un incidente causato dal veicolo su cui viaggiava e un tram. L’autobus finì schiacciato contro un muro. Le conseguenze dell’incidente furono gravissime per Frida: la colonna vertebrale le si spezzò in tre punti nella regione lombare; si frantumò il collo del femore e le costole; la gamba sinistra riportò 11 fratture e il passamano dell’autobus le trafisse l’anca sinistra; il piede destro rimase slogato e schiacciato; la spalla sinistra restò lussata e l’osso pelvico spezzato in tre punti. Subì 32 operazioni chirurgiche. Dimessa dall’ospedale, fu costretta ad un riposo forzato nel letto di casa, col busto ingessato.Questa circostanza forzata la spinge a leggere tanti libri, molti dei quali sul movimento comunista, ed a dipingere. Il suo primo soggetto è il suo piede che riesce ad intravedere tra le lenzuola. Per sostenere questa passione i genitori le regalano un letto a baldacchino con uno specchio sul soffitto, in modo che possa vedersi, e dei colori; è qui che inizia la serie di autoritratti. Dopo che le viene rimosso il gesso, Frida Kahlo recupera la capacità di camminare, nonostante i forti dolori che sopporterà e che la accompagneranno per tutti gli anni a venire. Porta i suoi dipinti a Diego Rivera, illustre pittore murale dell’epoca, per avere una sua critica. Questi rimane colpito molto positivamente dallo stile moderno della giovane artista tanto che la avvicina alla sua ala e la introduce nella scena politica e culturale messicana.
Frida diventa un’attivista del partito comunista partecipando a molteplici manifestazioni e nel frattempo si innamora dell’uomo che diventa la sua “guida” professionale e di vita; nel 1929 sposa Diego Rivera – per lui è il terzo matrimonio – pur sapendo dei continui tradimenti di cui sarebbe stata vittima. Lei, dal canto suo, lo ripagherà allo stesso modo, anche con esperienze bisessuali.Un amore al limite della follia. Un amore che ha ispirato quasi tutta la vita artistica di Frida, rendendola il simbolo della libertà e dell’indipendenza femminile in tutto il Mondo. Ma, l’amore con Diego Rivera è qualcosa di profondo. Malgrado, i reciproci tradimenti l’amore di Frida non scemava mai. Era sempre vivo e presente. In quegli anni al marito Rivera sono ordinati alcuni lavori negli USA, come il muro all’interno del Rockefeller Center di New York, o gli affreschi per la fiera internazionale di Chicago. Nello stesso periodo in cui la coppia soggiorna a New York, Frida rimane incinta: a gravidanza inoltrata avrà un aborto spontaneo a causa dell’insufficienza del suo fisico a sopportare una gestazione. Questo accaduto la sconvolge molto tanto che decide di tornare in Messico con il marito. I due decidono di vivere in due case separate collegate da un ponte, in modo da avere ognuno i propri spazi “artistici”. Divorziano nel 1939 a causa del tradimento di Rivera con la sorella di Frida. Non passa molto tempo e i due si riavvicinano; si risposano nel 1940 a San Francisco. Da lui assimila uno stile intenzionalmente “naïf” che porta Frida a dipingere piccoli autoritratti stimolati all’arte popolare e ai folclori precolombiani. L’afflizione maggiore dell’artista è quella di non aver avuto figli. Dell’appassionata (e all’epoca discussa) storia d’amore con Diego Rivera è testimone un diario personale di Frida Kahlo. Le cronache dicono che abbia avuto numerosi amanti, di ambo i sessi, con personaggi di spicco che non passano inosservati come il rivoluzionario russo Lev Trotsky ed il poeta André Breton. E’ molto amica e probabilmente amante di Tina Modotti, militante comunista e fotografa nel Messico degli anni Venti.
La vita e le opere della pittrice messicana Frida Kahlo esercitano un grandissimo fascino artistico e un forte impatto emotivo. Per alcuni questa artista coraggiosa sarà ricordata nei tempi come la più grande pittrice del Novecento. Tre importanti esposizioni le sono dedicate nel 1938 a New York, nel 1939 a Parigi e nel 1953 a Città del Messico. L’anno successivo a quest’ultima mostra, il 13 luglio 1954, Frida Kahlo muore nella sua città natale. La sua abitazione di Coyoacán, la “Casa Azzurra”, meta di migliaia e migliaia di visitatori, è rimasta intatta, così come volle Diego Rivera che la lasciò al Messico. E’ una casa meravigliosa, semplice e bellissima, con muri colorati, luce e sole, piena di vita e di forza interiore come fu la sua proprietaria.
La sua vita di artista e il suo grande carisma l’hanno portata ad ispirare grandi donne e uomini in tutto il mondo. E non solo con i suoi quadri!
Con un linguaggio diretto, forte, ma anche dolce, Frida descrive, in una serie di scritti, raccolti successivamente in un libro “Lettere appassionate”, la sua vita, le sue tragedie, la passione per il suo primo amore Alejandro, il doloroso rapporto con Diego Rivera e il suo interesse al marxismo e alla politica. Le lettere e le poesie della pittrice messicana, nella loro profondità, ci fanno rivivere la sua vita da vicino, da protagonisti, come se fossimo parte dei suoi incontri, delle sue passioni, rivelando i suoi pensieri più intimi e nascosti.
Dedicherà molte poesie e lettere all’amato Diego Rivera, che descriveranno alla perfezione l’amore tormentato e passionale tra i due
“Niente è paragonabile alle tue mani”:
“Niente è paragonabile alle tue mani,
né niente è uguale all’oro-verde dei tuoi occhi.
Il mio corpo si riempie di te per giorni e giorni.
Sei lo specchio della notte.
La luce violetta del lampo.
L’umidità della terra.
L’incavo delle tue ascelle è il mio rifugio.
Tutta la mia allegria è sentire germogliare la vita della tua fonte-fiorita, che la mia custodisce per riempire tutte le vie dei miei nervi che sono tue”
*Una donna forte, un’artista completa e dall’eccezionale talento. Una vita breve segnata dal dolore ma a cui non si è mai arresa godendone a piene mani, in modo appassionato. Poetessa, pittrice, attivista politica, il matrimonio con l’amore della sua vita, tormentato e assoluto. Meravigliosi questi versi, la celebrazione del corpo dell’amato che diventa il proprio rifugio.
Nella raccolta “Odi Elementari” pubblicata nel 1954, egli dedica le sue poesie ai piaceri elementari, quelli che ravvivano e possono rendere speciali e indimenticabili gli attimi della vita di ogni giorno. Ecco allora che Neruda ci canta le piacevolezze del vino, del pane, del pomodoro, del limone…Piaceri fisici e voluttuosi, rustici e insieme raffinati. Nelle parole del poeta la cipolla è la fata madrina del popolo, del bracciante nel duro cammino, la stella che porta splendore sulla mensa della povera gente. Neruda ne canta la bellezza e la generosità e ci ricorda che dalla cipolla “sgorga l’unica lacrima senza pena. Ci hai fatto piangere senza affliggerci”
l’Ode alla Cipolla.
Cipolla, anfora di luce, petalo a petalo si formò la tua bellezza, squame di cristallo ti crebbero e nel segreto della scura terra s’arrotondò il tuo ventre di rugiada. Sotto la terra fu miracolo e quando apparve il tuo grezzo stelo verde, e nacquero le tue foglie nell’orto quali spade, la terra accumulò il suo potere rivelando la tua nuda trasparenza, e come in Afrodite il mar antico duplicò la magnolia innalzando i suoi seni, così ti fece, cipolla, chiara come un pianeta, e fatta per brillare, costellazione costante, rotonda rosa d’acqua, sopra la tavola della povera gente. Generosa disfi la tua sfera di freschezza nella consumazione furente della pentola, e la parete di cristallo al calor dell’olio si trasforma in riccioli di penna d’oro. Anche ricorderò come feconda la tua forza l’amor dell’insalata, e sembra che il cielo contribuisca dandoti fine foggia di grandine a celebrare la tua trasparenza sminuzzata sugli emisferi di un pomodoro. Ma alla portata delle mani del popolo, innaffiata d’olio, spolverata con un po’ di sale, uccidi la fame dell’operaio nella dura strada. Stella dei poveri, fata madrina avvolta in delicata foglia, esci dal suolo, eterna, intatta, pura come semenza d’astri, e nel tagliarti il coltello in cucina sale l’unica lacrima senza pena. Ci hai fatto piangere senza dolore. Io ho cantato quanto esiste, cipolla, ma per me tu sei più bella di un uccello dalle penne luminose, sei per i miei occhi globo celeste, di platino coppa, ferma danza di candido anemone, e vive la fragranza della terra nella tua natura di cristallo.
*Evviva la penna di un grande poeta, di un premio Nobel che canta la “cipolla” in sublimi immagini di mirabile bellezza. Ha tutte le qualità, i colori trasparenti di candidi fiori che si racchiudono a bocciolo, la fragranza della terra in cui nasce.e la generosità di sfamare la mensa degli umili.
Questa sera è previsto nel cielo uno spettacolo unico. Oltre alle tante stelle cadenti previste, ci sarà la luna del cervo. Ovvero uno spettacolo indimenticabile perché questa sarà anche Super. Il satellite della Terra, infatti, sarà molto vicina al perigeo – ovvero il punto più vicino alla Terra dell’orbita lunare. Saranno “appena” a 357.418 km contro i 384.400 km di media.
LUNA
Vieni! È sera, ti aspetto, lo so che sei solo. Io ti vedo sempre, ti sono accanto e ti aspetto ogni notte. Alza lo sguardo! Non sono così lontana. Vieni! Sono qui per te, fredda e misteriosa ti accolgo. Non aver paura… guardami! Non aver vergogna di mostrare che mi ami. Io sono l’astro che illumina la notte, quello che dà luce a chi cerca di orientarsi nel buio. Io sono la musa che ispira i poeti, quando si perdono tra le stelle. Io sono l’amante che ispira i cuori di coloro che si cercano nell’oscurità.
Dante visse in un periodo in cui la cucina non era ancora uscita dalla situazione di “oscurità” in cui l’avevano relegata, insieme ad altre espressioni delle umane attività, eventi storici, credenze e consuetudini alto-medievali. La stragrande maggioranza della popolazione seguiva abitudini alimentari condizionate dall’esiguità dei mezzi finanziari e legate alle sole disponibilità del territorio. Mentre la nobiltà usava esibire grandi quantità di cibo molto speziate senza una vera cultura della buona cucina. Anche nelle opere di Dante viene evidenziata l’importanza dell’alimentazione nella vita dell’uomo. “Grosse lamprede, o ver di gran salmoni/ aporti, lucci senza far sentore./La buona anguilla non è già peggiore;/alose o tinche o buoni storioni./Torte battute o tartere o fiadoni:/queste son cose da acquistar mi’ amore,/o s’e’ mi manda ancor grossi cavretti,/o gran cappon di muda be-nodriti/o paperi novelli o coniglietti”.
Vi è un approccio dantesco alla tavola costituisce buona parte del 125° dei 232 sonetti che compongono il pometto Il fiore, opera che la maggior parte della critica considera una riscrittura compendiosa del Roman de la Rose composta da un Dante ventenne durante un soggiorno in Francia. Tali versi parrebbero delineare il profilo di una persona che non nasconde un certo compiacimento con i piaceri della tavola. Invece il divino poeta aveva idee molto sobrie riguardo al cibo: “Nel cibo e nel poto fu modestissimo, sì in prenderlo all’ore ordinate e sì in non trapassare il segno della necessità” e biasimava chi non si attenesse alle regole della sobrietà affermando “Questi cotali non mangiare per vivere, ma più tosto vivere per mangiare”. Si narra che, durante un soggiorno napoletano, venne invitato alla corte di re Roberto d’Angiò e, “Come solean li poeti fare”, si presentò abbigliato con una certa trascuratezza; di conseguenza, “Fu messo in coda di taula” e, al termine del pasto, abbandonò la tavola ostentando il suo disappunto. Il re si rese conto che il trattamento riservato al Poeta era stato inadeguato e lo invitò nuovamente.
Questa volta Dante si presentò con abiti sontuosi e il re lo fece accomodare “In capo della prima mensa”; una volta seduto, il Poeta si strofinò le vesti con i cibi e le bevande che erano state servite e, alla sorpresa del re, replicò: “Santa corona, io cognosco che questo grande onore ch’è ora fatto, avete fatto a’ panni, e pertanto io ho voluto che i panni godano le vivande apparecchiate”.
Il re riconobbe le ragioni di Dante, ordinò che fosse rivestito con indumenti puliti e lo trattenne a corte per trarre altri insegnamenti dalla sua scienza. Nel poema dantesco il cibo assume un’accezione prevalentemente negativa, oggetto di quella gola che i padri della Chiesa condannavano come vizio capitale e che si esprime in cinque modi: mangiando fuori tempo, molto frequentemente, ricercando cibi prelibati, eccedendo nella quantità, con soverchia avidità, esagerando nei condimenti.
*Eh sì Dante non tradisce il suo rigore nemmeno a tavola. Eppure, soprattutto per l’epoca, aveva ragione a condannare l’ingordigia che di certo non è sinonimo di buona cucina o di salute. Forse un po’ esagera punendo i golosi mandandoli addirittura in un girone dell’Inferno sbranati da Cerbero.
Nelle “Odi elementari” Pablo Neruda canta i cibi semplici: tra questi il pane, la cipolla, il limone, la mela, il pomodoro. La fisicità e la voluttà del frutto del pomodoro sono l’anima di questi versi, che letti e riletti, rendono poetici pranzi raffinati, ma anche rustici, mediterranei spuntini fatti di pane, olio e pomodoro.
La strada si riempì di pomodori, mezzogiorno, estate, la luce si divide in due metà di un pomodoro, scorre per le strade il succo. In dicembre senza pausa il pomodoro, invade le cucine, entra per i pranzi, si siede riposato nelle credenze, tra i bicchieri, le matequilleras la saliere azzurre. Emana una luce propria, maestà benigna. Dobbiamo, purtroppo, assassinarlo: affonda il coltello nella sua polpa vivente, è una rossa viscera, un sole fresco, profondo, inesauribile, riempie le insalate del Cile, si sposa allegramente con la chiara cipolla, e per festeggiare si lascia cadere l’olio, figlio essenziale dell’ulivo, sui suoi emisferi socchiusi, si aggiunge il pepe la sua fragranza, il sale il suo magnetismo: sono le nozze del giorno il prezzemolo issa la bandiera, le patate bollono vigorosamente, l’arrosto colpisce con il suo aroma la porta, è ora! andiamo! e sopra il tavolo, nel mezzo dell’estate, il pomodoro astro della terra, stella ricorrente e feconda, ci mostra le sue circonvoluzioni, i suoi canali, l’insigne pienezza e l’abbondanza senza ossa, senza corazza, senza squame né spine, ci offre il dono del suo colore focoso e la totalità della sua freschezza.
*Capolavoro di un Maestro del verso, trasforma un umile ortaggio in una sinfonia di colore e odore che lascia senza fiato.
Soffiami la tua voglia dalle labbra al cuore. Baciami,si baciami, come un affamato che ha trovato il pane. Sfiorami l’anima fino alla radice della mia essenza… Rendi viva la mia carne, che vibra alle tue carezze perché fatta per le tue mani. Guardami, sii luce che mi spoglia, oltre le vesti che coprono la pelle ma che niente possono nascondere ai tuoi occhi.
Nel primo dolce sonno della notte mi risveglio dai sogni in cui tu appari, quando sospira lievemente il vento e splendono le stelle luminose: mi risveglio dai sogni in cui tu appari, e uno spirito allora mi ha condotto, chissà come, vicino alla finestra della tua camera, o dolcezza mia!
Le arie vagabonde illanguidiscono lungo il ruscello oscuro e silenzioso, i profumi del champak svaniscono come dolci pensieri in un sogno; muore il lamento dell’usignolo sul cuore della diletta, proprio come me destinato a morire sul tuo, o tu che sei la mia amata!
Oh, ti prego, sollevami dall’erba! Muoio e mi sento debole e languido! Oh, che il tuo amore piova in mille baci sulle mie labbra e sulle smorte palpebre. Ahimè, le guance sono fredde e pallide, ed il mio cuore batte impetuoso e forte! Oh, stringilo al tuo cuore nuovamente, dove alla fine si dovrà spezzare!
*Uno dei maggiori esponenti del romanticismo inglese, un eroe amante dell’amore, in un senso totale e libero, molto anticonformista soprattutto per l’epoca. Meravigliosi e intensi questi versi dove l’incontro passionale si trasforma in un sogno denso di profumi e immagini seducenti.
Ho cosparso di ambra e sandalo la mia pelle morbida e calda. Mi sono coperta solo di seta trasparente attendo le tue mani attendo la tua bocca e quelle note di dolce lussuria che solo tu saprai comporre sul mio corpo. Vieni mio adorato amante accorri al mio richiamo e anche gli dei sorrideranno beati quando consumeremo le nostre ore di letizia. Scioglieremo nettare dalle nostre corolle e di esso ne faremo miele che delizierà il palato e scenderà saporita ambrosia fino all’anima accendendo quella danza che appagherà la fame vibrante dei nostri sensi e l’ardore dei cuori. Vieni mio adorato amante amami, raggiungiamo le alte vette del piacere e Afrodite gelosa nulla potrà sottrarre al nostro intenso idillio.