APPRODI (impoesia)

APPRODI

Approdare? A guardare bene

non esiste nessun approdo.

Abbiamo davvero poche certezze

(si contano sulle dita d’una mano);

sono il nostro terreno che giorno

dopo giorno si sfalda 

sotto i piedi. Basta poco,

magari un niente per

smontare le nostre meccaniche

razionali.  Importante

è mangiare pane e companatico,

avere salute, essere autosufficienti, 

avere da campare (chissà per quanto

ancora poi?), dimenticare i torti subiti,

gli amori non corrisposti,

il disagio, il dolore provato

o che pensavamo di provare

da giovani.

Le auto sfrecciano sulla

circonvallazione, un opuscolo 

pubblicitario è in balia del vento

caldo, un anziano porta a spasso

il suo cane; arriva in lontananza

dalle case il vociare delle famiglie, 

un uomo brizzolato lava la sua macchina

in giardino, dei ragazzi nello spiazzo

sono a torso nudo sotto

il sole battente e forse

tutti abbiamo margini 

di miglioramento,  perfino

le nostre esistenze potrebbero

avere margini di miglioramento. 

È domenica. La calura ci attanaglia.

I meteorologi dicono che gli anticicloni

subsahariani hanno preso il posto

dell’anticiclone delle Azzorre.

Forse noi sopravviveremo ancora,

ma dall’Antropocene all’abisso 

il passo è breve

e nessuno è disposto a fare

piccole rinunce per salvare

le prossime generazioni,

mentre nei circoli letterari

si discute animatamente

se sia meglio in poesia

l’intimismo o l’impersonalità. 

Viene sera e confidiamo di impatrichirci

ancora con la vita, ora che

qualcuno ci chiede informazioni 

e mentre noi ci apprestiamo 

a darle se ne va e chiede

ad altri passanti, ritenuti più svegli,

e rimaniamo interdetti sul da farsi

e poi affrettiamo il passo

e ritorniamo a casa;

deve essere così morire:

essere fraintesi totalmente 

come degli idioti

o lasciati soli inaspettatamente 

nel disinteresse generale

in un pomeriggio estivo qualsiasi

in una strada  periferica polverosa.