Perché io non sto, non so stare, ovunque nella normalità. E rifiuto l’intrattenere mellifluo che conforta. “Andrà bene, io sento, lei disse, ama, l’anima, liberi, vivere, vivi!”. Ho il ribrezzo solo a riportarne degli esempi. Smettiamo di insudiciare la bocca, che le mosche vigilano.
Paura della solitudine? No, anzi mi affanno in ogni angolo della casa per scovarne una nuova manciata. Non esiste la vera solitudine. Neanche adesso che scrivo per nessuno, o per tutti coloro che non leggeranno. La stanza della mia coscienza è un monologo con un solo fievole riflettore puntato sulla mia diafanità, travestita da corpo. Volgo parole al pubblico, ma questo è troppo buio per riflettere alcuna presenza.
Eccola qui, la solitudine. È questa, per me. Il pubblico lì, silenzioso, invisibile, ma c’è. O non c’è? Non mi è dato saperlo, non preclude la performance. È perfetto: tutti e nessuno.
Così funziona l’agire interiore. Non è mai rivolto al nulla, o all’assenza reale, ma è rivolto al buio, vuoto, potenziale presenza di esseri inspiegabili. Seducente e oscuro, il mio pubblico.
Appena volgo lo sguardo verso la melma lunare ho come la sensazione improvvisa di essere nient’altro che una potenzialità di cose mai raggiunte. Un bisticcio di mani ansiogene, che uno spirito recondito – fra i miei tanti, sfuggenti – muove. E i fili non li trovo, davvero, adesso che mi vedo così, groviglio burattinato, arranco nell’aria per spezzarli, ma non si fanno spezzare.
Il male più viscido non sta tanto nell’inconcludenza che si fa concreta fra le dita, quanto nel sentimento necessario che la precede. Perché mai devo scrutarmi le mani adesso, contare i frutti, investire nuove energie nelle conquiste? Quale originale anomalia mi muove alla capitalizzazione dei pensieri, delle azioni, per produrre per guadagnare per spendere per guadagnare, nel sogno dell’accumulo, della stabilità, nella smania di approvazione lungo un processo di ossessiva dilatazione della mia vecchiaia?
Guardo le mani che non sono più mie e scorgo la crosta di un mito uroborico di cui non conosco il nome. Il mito della crescita. Non può che essere un subdolo parassita di civiltà evolute. Per non dire il motore stesso.
Non ho mai disegnato per me un mondo fantastico, piuttosto sarebbe stato meglio uno fatalistico. Così che ognuno possa liberarsi dalle responsabilità di presunto fallimento. Ma avrei voluto sognare anche un mondo spogliato fino all’osso crudo, in cui il tempo scava e il peso di esistere si fa più lieve; un mondo più povero di se stesso ogni giorno, lungo il senso dell’essenzialità, che si fa sacrificabile, senza pretese di approvazione o di grandezza, né ombra di pentimento.
La meteopatia mascherata da malessere mascherato da esperienza metafisica è l’unica autentica condizione perché possa incontrare nuove solitudini nascoste al mio io, esse prendono la forma di altre ombre che non mi appartengono, che sono le ombre di tutti coloro che si nascondono da loro stessi, e dunque da me. Nel malessere metafisicopatico non esistono davvero “altri” ma solo ombre di vuoti affini. Proprio nella lettura, indotta da questa condizione, è possibile penetrare vasti maelstrom neri, esattamente come wormhole, per governare il tempo psicologico nonché bucare la dimensione del vero contatto con l’altro. L’altro non è il diverso ma semplicemente il corpo successivo, o precedente. Una buccia originale attecchita ad un meccanismo mobile che internamente è dotato solo di paura e attrazione. Ma il motore che lo muove non sono davvero quest’ultimi, piuttosto un vortice residuo di nullità cosmica, come un fuocherello che non brucia, custodito dentro un’ampolla fatta di menzogna. Allora la paura e l’attrazione turbinano vorticosamente intorno ad essa, ma non sono capaci di vedere attraverso perché la superficie di quest’ampolla è opaca; dunque bruciano vive, alimentate dal dubbio del suo contenuto.
Questo satellitismo atomico è scintilla di tutto l’organismo che sostiene, ma si manifesta stratificato: in altre vertigini o cose brusche antropomorfizzate, in ombre, profili, volti o ghigni, discorsi e dialoghi, banchetti, silenzi, paralisi e danze, manie, insicurezza, spasmo, dolcezza, fastidio, malessere, desiderio.
Ricordo il vitreo bulbo oculare di una volpe appena morta. Voragine muschiosa, sospesa nel nulla.
Avevo provato a raccoglierla dalla sua zampa ossuta – scricchiolii di un corpo appena investito – ma scivolava fra le dita. La spostai a lato della strada, il muso ritorto pesava di assenza.
Una carezza ultima gliel’ho voluta dare mentre un ragazzino, fermatosi anche lui, mi chiedeva se fosse ancora calda. “Funzionano anche loro come noi?” Disse, ma non sono sicura di aver inteso davvero il significato di quella domanda. “Bè, non è ancora fredda, forse è morta da una ventina di minuti”, provai a rispondere.
Siamo noi ad attraversare le cose, il bosco. Tutto è bosco anche senza alberi.
E poi la notte, addormentata, ricordo di aver corso nel mio sogno e lei mi seguiva, quella volpe, saltava e correva fra gli alberi, vivace, ma non si faceva toccare. La persi quasi subito. Io delusa e sollevata tornai a casa. Spiai dall’oblò della mia roulotte tutta la notte. Osservavo il buio di cespugli sperando che si animassero all’improvviso. Volevo che tornasse da me.
D’un tratto, al mattino, lei tornò, ma senza pelliccia: la vidi: traballante e spaesata. Solo un corpo nudo di donna, adulta, con un ventre, l’ombelico e i capelli crespi. La bocca era dipinta di terra fino al mento, una leggera peluria d’oro brillava su braccia e gambe. Le andai incontro e la baciai, quanto era morbida, esile. Rimase inginocchiata, inesperta nelle sue gambe, con la testa fra le mie mani, vicina al mio ventre. Toccai le sue labbra e le riempii di fiori, poi baciai la sua fronte e lei socchiuse gli occhi, forse addomesticata dalla sua nuova debolezza.
Presto mi accorsi che il suo corpo era scosso da scariche irregolari e, quasi bruscamente, gli arti cominciarono a tremare. L’adagiai subito vicino ad una pietra e le strinsi la mano, lei soffriva senza emettere alcun suono, la gambe leggermente divaricate come a voler partorire.
D’un tratto un tuono in lontananza lo vidi spaccare il cielo e lasciar filtrare una densa nube di cenere. Non sapevo che un universo aldilà avesse iniziato a bruciare.
Il corpo di lei, tremando, cominciò a perdere contorno; incrociai le sue dita scure e mi accorsi di ciò che teneva stretto, una piccola pietra vitrea, muschiosa. La presi e la imbucai frettolosamente nella tasca.
Il suo viso cominciava a scricchiolare. Tremolii di nervi, sabbia. Provai a baciare la sua bocca socchiusa ma la sentii sfaldarsi sotto la mia pressione, anche le dita si fecero sabbia.
Vidi lo spacco del cielo che continuava a riversare cenere sulla valle. Mi voltai nuovamente ma di lei non rimaneva più alcuna forma. C’era una lieve piramide ocra accanto alla pietra. Lei era svanita, la mia volpe. Ed io seduta lì accanto, con la bocca polverosa.
Un boato terribile, d’un tratto: la nube avanzava e sapevo che avrebbe sparpagliato ovunque quella sua sabbia brillante. Feci per prenderne una manciata, ma fuggì.
Raggiunsi la mia roulotte, ero al sicuro. Scavai nel fondo della tasca per trovare quel piccolo oggetto che mi era scivolato fra le dita. Fuori la cenere infuriava tra gli alberi. Lo guardai da vicino e capii: era un bosco, un micro-bosco vivo dentro una sfera. Le punte minuscole dei suoi albeti fluttuavano, stormi di microorganismi esplodevano fra i rami. La accostai all’orecchio e credetti di sentir provenire un ronzio, un grido lontano. La strinsi fra le mani mentre fuori tutto si faceva buio.
Che raccolga questa manciata di pruriti e dia loro una forma compiuta.
Ho bisogno di un codice, dettato dai lampi, o scosso da un ramo sul ciglio della strada. Si affaccia in saluto, è una mano secca di foglie. Punto linea punto, punto accento linea seme. Si inchina al vento.
Fuga dalla nausea del sentire. In un luogo riservato al vuoto, nostalgia d’assenza emotiva. Cerco uno spazio per la trasparenza, con temperatura colore 2000 k. Se ci abitassi delineerei solo difformità al mio fianco perché non sono capace di costruire un viso che mi consoli. Buon odore quando ci si abbandona, lascio riposare la coscienza: eclissi caleidoscopio.
Non un essere compiuto, giacerei con orecchie distopiche e arti sparsi, fluidi viscosi o improvvisa tempesta di polvere fine. A dirigere l’onda amorfa 8 hertz, pareidolie a tratti.
Linea punto punto, linea linea linea, punto punto punto linea, punto.
Seguo i miei fari proseguire sull’asfalto, a sinistra la linea bianca dice: linea linea linea…cinque linee: zero gradi. Rischio sbandamento temporale, le ruote fanno prurito alla strada, io mi faccio prurito coi pensieri. Fermo il mio secondo veicolo, l’auto, proseguo a piedi col mio primo veicolo, il corpo. Dall’alto vedrei solo un paesaggio buio, l’essere (io) che lo percorre non ha alcuna azione rilevante, è parte stessa del paesaggio. “Veduta notturna con accessori mobili.”
Non è il mio corpo un essere che percorre, è spazio – disomogeneo – dentro lo spazio.
Sono le colline a generare fiumi, o i fiumi a generare colline?
Ricevo paleocontatti con le mani mozzate, dentro una melodia di fischi che prima dell’alba mi inquieta.
Temporeggio con gesti retorici, fuori, fuggo da una consistenza stantia che impregna la casa. Stesso odore, stessa luce, causa di un guasto temporale appeso a questo grumo di giorni dell’anno. Come se il clima fosse in grado di sorbire l’urto di una tragedia, e poi rilasciarlo, quando l’asse terrestre ritrova quella stessa pendenza. Memoria olfattiva di Maggio: è sofferenza.
Tanto non sarà più casa mia, mi rincuoro. Rancido profumo di nausea. La mia esistenza non è radicata alla mura di qualcosa che non ho e che non avrò mai. Investire è tacita illusione.
Spesso vago in vani automatismi del fare. Tesa a necessità essenziali, poco complesse. Mi inselvatichiscono: è un avvicinarsi ad una condizione più autentica, più aerea. Guardo con sospetto chiunque e qualunque cosa dalla fessura del mio occhio rettile, pronta a fuggire al primo movimento.
Il sogno: una fuga dalla nausea del sentire reale. Oppure il reale: una fuga dalla nausea sottile del sogno.