
Luoghi, personaggi, fatti e leggende
A due passi dal cielo Novella di Luciana Benotto Seconda parte

E’ di nuovo mattino. Ci mettiamo in marcia presto, dobbiamo salire da 2.800 metri a quota 3.600, fino al lago Phoksumdo.
Butto giù una tazza di caffè liofilizzato che mi sono portato dall’Italia, controllo l’allacciatura delle stringhe come se controllassi la pressione dei pneumatici prima di un rally e comincio l’arrampicata.
Mano a mano che si sale il paesaggio diventa povero di vegetazione e l’aria gradatamente si rarefà, se ne accorgono i miei polmoni.
Attraversiamo un villaggio chiamato Rahagaon, toponimo che significa sopracciglia e poi, altri sperduti paesi. La gente pare intimidita e al tempo stesso attratta dalla nostra presenza. In effetti, il territorio che stiamo attraversando non è stato molto visitato da occidentali; noi siamo qui senza il permesso delle autorità, anche perché, nell’ultimo gruppo che ci ha preceduto c’è scappato il morto a causa di una frana.
Ci fermiamo a riposare in un borgo che troviamo lungo il percorso. Cerco di sedermi un po’ all’ombra e un po’ al sole. All’ombra l’aria è troppo fredda, ma fermi sotto il sole ci si scotta. Mentre mi rifocillo con una ciotola di riso bollito, ceci e non so che altro, osservo delle donne impegnate ad eliminare la pula dal miglio e dall’orzo, facendone ripetutamente saltare i chicchi nei setacci, mentre il vento, loro invisibile aiutante, soffia via le nubi di pulviscolo vegetale.
Sugli stentati campi ci sono degli uomini che dissodano la terra col kodali, una rudimentale zappa dal manico corto. Penso ai nostri avanzati macchinari agricoli e a quanto sia duro per questa gente guadagnarsi, in senso letterale, la pagnotta. Quanta fatica…
I bambini non resistono, si avvicinano curiosi e ci sorridono; uno scricciolo sui sei anni mi prende per mano e mi porta a fare un giretto tra le abitazioni. Guardo sorpreso degli uomini che filano la lana (Kvac mi dirà poi che lo fanno per passare un po’ il tempo), mentre le loro donne intrecciano fili che si stanno trasformando in coperte a bande colorate.
Da una tasca che ho sul giubbino, inaspettatamente mi cade una biro; il mio piccolo accompagnatore la raccoglie e la guarda sorridente, allora, estraggo dalla tracolla uno dei taccuini che mi sono portato appresso e gli faccio un disegno. Il bimbo rimane affascinato, capisco che desidera quegli oggetti per lui inconsueti. Altro che videogiochi!
Devo ammetterlo, ho avuto la fortuna di essere bambino quando le automobili in circolazione erano pochissime, che sono riuscito a giocare per strada come un monello della via Paal, con fionde, archi e frecce costruite alla belle e meglio da me, e che ho pure pedalato e pattinato per il parco Sempione, oggi pieno di cartacce e siringhe, quando ancora giravano i vigili in bicicletta e controllavano che nessuno calpestasse le aiuole, così come c’era scritto sui piccoli cartelli piantati nei prati. Era davvero un altro mondo.
Quando arriviamo ad Ankhe, un altro villaggio il cui nome significa -occhio- (che stranezza, sembra quasi che la montagna possegga il dono della vista), entriamo nel parco nazionale Shey Phoksumdo. Siamo tutti stanchi, lo vedo dalle facce, ma per poter alzare le tende dobbiamo marciare ancora per un’ora buona prima di raggiungere il ruscello più vicino.
Dopo cena mi faccio scaldare dell’acqua da mettere in una bottiglia di plastica che infilo nel sacco a pelo per scaldarmi i piedi. La notte è fredda. E di notte tornano a galla i cattivi pensieri. Purtroppo, non riesco a non ricordare quello che è successo sei mesi fa, quel pomeriggio che, liberatomi da un impegno, sono corso nello studio dentistico di Laura con un mazzo di roselline e gipsofile, fiori che a me ricordano il giorno delle nostre nozze, dieci anni fa.
Quando li ho visti, avrei voluto cestinare quei fiori, ma poi mi sono detto che loro, i fiori, non se lo meritavano, che erano degni di essere rispettati, loro. E così li ho portati al cimitero Monumentale, a Ippolito, il mio amico d’infanzia che un mattino di primavera di due anni fa, si è lasciato cascare nel vuoto: sette piani con un biglietto di sola andata.
Li ho dati a lui quei fiori, a lui che mi guardava dalla fotografia con occhi beffardi, a lui che credeva nell’aldilà e che forse, in quel momento, ombra di se stesso, era seduto su quella lastra ad ascoltare il mio silenzioso lamento.
Il sonno deve avermi afferrato, me ne rendo conto durante la notte quando mi sveglio angosciato e col viso rigato di lacrime. Gli uomini non piangono, mi dico, ma sono un uomo io?
Stavo sognando. Sì, sognavo Ippolito che se stava accovacciato lì, in fondo alla tenda e mi parlava…ma cosa mi diceva? Cerco di rientrare nell’atmosfera del sogno, e dopo pochi istanti ricordo le sue parole.
– Lo sai benissimo perché è successo- mi aveva detto – non riesci ad avere figli, ma questo caro Lucio, non significa che tu non sia un uomo come gli altri, ricorda che hai una dignità e che meriti il rispetto di tua moglie. Hai fatto la scelta giusta venendo qui a due passi dal cielo. Prendi pure le distanze dal tuo quotidiano e riorganizzati il futuro, tu che ne hai uno. In quanto a me, ben lo vedi, che me lo sono giocato-.
“Perché non mi hai cercato? Perché?” gli avevo gridato mentre lo vedevo svanire con stampato sul volto quel suo solito sorriso canzonatorio.
“…non avevo più illusioni, tu sai a cosa mi riferisco.” mi parvero le sue ultime parole.
Qualcuno nella tenda accanto tossisce. Mi giro sul fianco.
Ippolito sembrava proprio qui penso, ma è la notte che inganna materializzando i sogni e rendendoli reali; è il sonno che fa sembrare vivi quelli che non ci sono più e rende i dormienti simili a morti, ed è il sonno che sta di nuovo prendendo il sopravvento su di me.
Continua…


