A Colonia, una città di ossa
e tuniche, con strade
acciottolate scassacranio
e vecchie e vecchi e orribili
putti, profuma come se
tutti stessero sfornando. Samuel
Taylor Coleridge ha contato
settantadue essenze, e ognuna
marcata, ognuna un inconfondibile
fetore. Esattamente tante quante le lingue
che esistono. Ho fatto il calcolo.
Perché so pensare superficialmente,
bene quanto qualsiasi Hänneschen e
qualsiasi Scheng. Il linguaggio si respira,
qui a Colonia, dove uno beve tutto
ciò che l’altro ha detto, dove
uno trangugia ciò che l’altro
promette, dove nel parlare
già sempre dal linguaggio
si sorseggia, mentre ci si sfrega
l’acqua di Colonia dietro l’orecchio
o subito la mattina la si rovescia
nel decolleté. Lo vedo storcere
il naso. L’uomo sprizza
stanchezza da tutti i pori. Cerca la
sezione ceramiche. Disperato
brama le ninfe. C’è odore
di roba liquida, c’è odore
di knödel. E poiché io
faccio rime e sono anche
di buon umore, o forse
piuttosto perché passo
da porco e mi infiammo, ho
raccontato cos’ha annusato Coleridge
a Colonia dove, da quando i Romani
se ne sono andati, non si arieggia più.
E prima di sparire, mi stappo
ancora una bottiglietta
di Mum, una bottiglietta
di Rüdesheimer. Salute.
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