Subito quei versi asciutti,privi di qualunque retorica o virtuosismo linguistico colpiscono come
Sentenze capaci di dare pena senza aver commesso colpa e per questo ,ancora più terribili perché ingiuste.
Ci chiediamo ,quando capita un evento doloroso:” perché io ?” rifiutando irrazionalmente il destino che spesso razionale non è e che ci colpisce senza alcun preavviso e ci toglie qualcosa che “di Diritto “ sentivamo già nostro possesso: è quanto accade a chi ha in grembo una parte del proprio Io e non ne accetta la perdita. O meglio: la accetta ma rimane come tramortito da un qualcosa che appare fuori natura. E allora quasi l’abulia a tutto “possiedo giorni che non sono giorni/piuttosto un ventaglio con cui fare /i conti; tane per nascondersi/buchi da riempire…” e quel martellare di versi franti, come un diario ,un quaderno di appunti dove scrivere i pensieri che transitano per la mente,senza dar loro un titolo e, dunque ,una collocazione mentale ordinata . Ma del resto, l’ordine è raziocinio, inquadratura di qualcosa che si metabolizza e Baglione si sente invece spezzata, disorganizzata perché rimasta nell’animo quella che in realtà non è più pur essendo “Madre “.
Si è madri infatti pur non avendo un figlio o non avendolo più avendolo avuto nel grembo e perduto come è accaduto a lei,che già aveva nel cuore e negli occhi il suo bambino, come parte integrante e completiva del suo Io. Un Io che fatica ora a riconoscersi ,perché in qualche modo mutilato, cambiato e allora il suo dolore ha bisogno di esternarsi nella poesia per farne cosa “altra” da se stessa e materializzandolo, renderlo accettabile e stemperarlo…”voglio adottarmi intera,/imparare a tremare/vedermi unita,mai più separata/un pezzo a destra,l’altro/ a sinistra-combattuta/pure di me stessa.Accogliere la paura/,fiorire in trasparenza /voglio smettere di morire/ un po’ alla volta.
Forse un figlio significa per l’autrice anche un vedersi vivere attraverso una vita nuova ,incontaminata eppure derivante e connessa con la sua: sensazioni che molte donne, nate madri ,provano: già perché come detto, madri si diventa, certo, ma lo si è già prima di diventarlo davvero perché è un tuo modo di essere, di sentirti donna, alveo e grembo di vita. E se poi nutri dentro di te un essere destinato a diventare occhi,mani,piedi e carne, questa vocazione diventa concreta e segna il percorso esistenziale ,tanto da far dire all’autrice;”Madre che resta”.
Colpisce dei suoi versi,anche quel concretizzarsi in porzioni ,parti anatomiche; ti immagini,figlio caro,/con quali braccia,occhi/gambe ,cuore ,io lo sarei stata(madre)perché amare significa anche corpo:quel corpo che prima è culla e che poi si fa parte integrante del rapporto madre-figlio per esternare tutta quella tenerezza che si ha dentro.
Ogni poesia è legame con la natura e con una presenza mai dimenticata e che si fa emblema stesso di tutte le perdite; ogni poesia,breve ma incisiva, è lacrima che sorge dentro e che si fa portavoce di un dolore “tutto femminile” per come è qui cantato e che non può non colpire,come uno schiaffo, ogni donna che legga i versi di Patrizia che conclude e dice”abiteremo il pianto /noi mai più divisi / vivremo sotto alberi /di cedro…
Una silloge particolare,sia nel filo conduttore ,sia nella scelta linguistica con frasi che dicono oltre la parola scritta perché sottintendono molto altro lasciato alla sensibilità di chi legge