Su chat Gpt, sul giornalismo, sul postumano…

I giornali cartacei sono quasi finiti. È tutto un pullulare, un moltiplicarsi in modo esponenziale di testate giornalistiche online. Però i giornalisti dovranno cambiare lavoro o rimanere senza lavoro. È già da anni che sono sottopagati. Fino a qualche anno fa i giornalisti venivano considerati dei privilegiati. Si diceva e lo dicevano loro stessi: “sempre meglio che lavorare”. Vecchioni in tempi non sospetti cantava: “il giornalista in fondo è un modo di campare”.  Un tempo c’era chi se la tirava perché era iscritto all’albo dei giornalisti e più recentemente qualcuno sosteneva che per far parte di una redazione giornalistica ci volesse la raccomandazione e ancora c’erano forze politiche come i grillini che denunciavano lo scandalo dei milioni per i finanziamenti pubblici ai quotidiani. Insomma i giornalisti da anni non sono più ben visti e rispettati ma da aplcuni addirittura considerati una casta di mangiapane a tradimento.  Un tempo gli operai venivano licenziati per la diffusione della robotica. C’è stato un tempo in cui il giornalismo ufficiale è stato messo in crisi dal giornalismo partecipativo. Ora è arrivata l’intelligenza artificiale. La casa editrice Axel Springer è in fase di ristrutturazione, durante la quale alcuni giornalisti sono stati licenziati e sostituiti dal chatbot Chat GPT. I tagli riguardano due testate tedesche: Die Welt e Bild. Ora i giornalisti verranno licenziati per l’intelligenza artificiale. Ho scaricato la chat Gpt. Ho chiesto in inglese un articolo sul porno. Mi ha risposto che non poteva trattare temi sessualmente espliciti. Ho chiesto in inglese un saggio sulla poesia. Me lo sono fatto tradurre in italiano. Più che un saggio breve era un riassunto di un riassunto di circa 400 parole, però scritto correttamente, anche se molto basilare e scontato. Dopo 2 minuti ho chiesto direttamente in italiano un saggio sul poeta Montale. Dopo 10 secondi avevo un riassunto di circa 500-550 parole della poetica di Montale. Era più profondo del saggio precedente sulla poesia, non banale, anche se non aveva la stessa qualità di una pagina Wikipedia di Montale oppure di un articolo su Montale di una rivista letteraria online o cartacea. Scrivere un articolo di cronaca locale o fare un’inchiesta giornalistica sarà molto più semplice e più facile con l’ausilio di chatbot. Ma perché -mi chiedo- io chat Gpt è gratuita? Che cosa ci guadagna Musk, che insieme ad altri l’ha ideata? Ebbene questa forma di intelligenza artificiale non è neutrale; la tecnologia non è mai neutrale. I contenuti, così come tutte le risposte di chat Gpt, possono essere strumento di propaganda, possono veicolare certi messaggi e certe ideologie invece di altre. A questo mondo nessuno fa niente per niente. La stessa Alexa fa parte del capitalismo di sorveglianza.  I nostri dati, le nostre abitudini sono tutti in mano del potere. Siamo tutti controllati, schedati, sorvegliati. E state pur tranquilli che chat Gpt è un modo per condizionare i mass media di tutto il mondo. Un tempo c’erano i condizionamenti dei mass media. Ora questi chatbot condizionano i mass media, sono un cavallo di Troia dei mass media. Di sicuro ne è passata tanta di acqua sotto i ponti da quando venne diffuso il primo chatterbot, ovvero Eliza, grazie a cui a molti sembrava di parlare con uno psicoterapeuta.  Certamente l’asticella si è alzata perché oggi con la presenza dell’intelligenza artificiale sopravviveranno solo i giornalisti e i content creator che per l’appunto sapranno scrivere cose pregevoli, di qualità elevata. Forse i giornali e il giornalismo sopravviveranno, ma i giornalisti saranno sempre di meno. E coloro che sopravviveranno per scrivere i propri articoli si avverranno sempre più spesso di chatbot. Insomma intelligenza artificiale,  giornalisti artificiali,  articoli artificiali.  Cosa c’è rimasto di vero o almeno di umano? Benvenuti nell’epoca del postumano, dove noi umani siamo sempre più ibridi e i robot sembrano avere un’anima…

Tutto ha un’inizio

Di Frida la loka

Quando ho iniziato a scrivere, non sapevo da dove iniziare, ancora oggi sono confusa, nel cosa…

Volevo scrivere e basta, avevo bisogno di trasmettere, di condividere,  ma no, come nei social, a mio parere molto più, se mi passate la parola, superficiali.  Scrivevo e non riuscivo ad arrivare alle persone, mi sentivo no capita, ho addirittura, giudicata.

Qui, ho trovato un posto molto accogliente,  come per tanti che abbiamo fatto un salto nel vuoto, lasciando ognuno la loro terra.

Non ho mai aspettato niente di nessuno,  né i likes, né parole belle nei miei confronti.  Sorpresa mia, non sono da sola, non mi sento sola, anche sé nel quotidiano lo sia e affrontare,  malattia, famiglia e quello che arriva improvvisamente,  e non aspetti.

Volevo solo ringraziare ogni singola persona che mi ha letto, ha lasciato qualche parola o messo un mi piace.

Non avete idea del peso psicologico che possiede,  in positivo!!! Anche sé,  quest’anno è stato davvero duro per me.

RINGRAZIO A TUTTI VOI!

Avete alleggerito ogni singolo giorno di quest’anno,  mi auguro di cuore che proseguirà…

BUON 2023
A TUTTI VOI
Grazie

Vostra

1 gennaio, 2023

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Ossa rotte

Di Frida la loka ( Lombardia)

Distrutta giaccio, in modo informe, un’ammaso non ben preciso;

Carne adesso più molle con osse che inchiodano da per tutto dando molto fastidio.

Pure la lenzuola sembra pungere, quando in altri momenti non te ne accorgi nemmeno ch’è lì, in entrambi casi, raccoglie sudore che il corpo emana, talvolta sono due che depurano la pelle e la lenzuola serve come corda ferma da dove afferrarsi.

Libreria multimediale W.press

Oggi sola; sofferenze al musculo (che domina tutto), irriggidito dalla vita, dal passare del tempo, da tanti vocaboli detti a sua volta col rigor della delicatezza; rimasti incisi a sangue però;

in atessa siano cancellati… ma non credo accada. Neanche un profondo vento di scirocco porterebbe con loro.

Per ora, mi devo accontentare, far passare il temporale, ma remare da sola ogni volta si fatica di più.

Di Frida la loka

Ci sarà un domani o un dopodomani e ci sarà pure il sole, anche sé il vento gelido mi darà quattro sberle in faccia. Sarò pronta per aprire le finestre e fare un accumulo di carne, lenzuole e ossa.. e fare pulizia.

Tua.

24 novembre, 2022.

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Sui test di ammissione a medicina, sui quiz e sui test…

Il problema non è che  mancano i medici in Italia perché ci sono i test d’ingresso e il numero chiuso nella facoltà di medicina. Secondo gli esperti questo è dovuto al cosiddetto “imbuto formativo”, cioè all’insufficiente numero di borse di studio per laureati in medicina. Le questioni casomai sono altre: quando lo Stato deve fare una selezione? Non sarebbe  meglio se la scrematura avvenisse esclusivamente in  base al vero merito e all’impegno, ovvero in base al profitto degli studenti? Non  è discriminatorio il numero chiuso? Non è contro il diritto allo studio?  Certamente il diritto di essere curati da medici capaci e competenti è sacrosanto e imprescindibile (e viene prima del diritto allo studio), ma siamo davvero sicuri che quei test d’ingresso verifichino oggettivamente le capacità e il talento dei candidati? Siamo tutti d’accordo che la selezione deve esserci, ma non è che ancora una volta ci facciamo abbindolare dalla presunta scienza dei quiz e dei test, come se potesse essere verità assoluta e dare responso certo e definitivo su un giovane, che voglia intraprendere lo studio della medicina? Siamo veramente sicuri che quei test d’ingresso siano il modo migliore per selezionare i migliori? Ne siamo veramente certi? Da dove nasce questa fiducia smisurata nei test? Senza ombra di dubbio sono il metodo più economico, più sbrigativo, più democratico (apparentemente perché mette tutti nella stessa condizione). Un tempo i test li chiamavano reattivi carta e matita. Ma siamo sicuri che sia il migliore, quello che cioè ci dice la verità sulle capacità e la preparazione di quei candidati? Alcuni studiosi potrebbero snocciolare una gran mole di dati sulla predittività dei test di ammissione e su correlazioni significative tra resa dei test d’ingresso e profitto universitario. Però c’è il rischio tangibile della profezia che si autoavvera a cui potrebbero essere soggetti i professori: visto che gli studenti sono stati ritenuti migliori con i test  allora li potrebbero considerare tali a priori, valutando meno severamente i loro studi. E ancora perché affidare gran parte della selezione ai test quando questo compito potrebbero svolgerlo i professori? Alcuni potranno rispondere in questo modo: allo stato attuale delle conoscenze i test e i quiz sono il modo migliore per selezionare i candidati. Ma anche se fosse cosa dire del costo proibitivo per la preparazione a quei test di ammissione? E ancora mi chiedo se è meglio avere dei laureati in medicina disoccupati oppure la mancanza di medici in periodi di crisi, di emergenza, come durante la pandemia? Così come mi chiedo se lo Stato contempla adeguatamente il numero di medici, formati in Italia, che vanno a lavorare all’estero, e il numero di medici italiani, formati a Tirana o nei Paesi dell’Est, che vengono a lavorare in Italia? Certamente qualcuno potrebbe ritenere sensatamente che la facoltà di medicina metta alla prova i candidati esattamente come qualsiasi scuola di eccellenza italiana. Però la selezione non deve diventare troppo esclusiva perché altrimenti ci sarebbe davvero la carenza di medici italiani. Non è  che alla base di tutto domina incontrastata la diffusissima sottocultura dei quiz e dei test, il cui primo postulato è che in base a queste prove si può individuare gli intelligenti ed escludere quelli non validi? Siamo veramente sicuri che vengano scelti i migliori ed esclusi i peggiori?  Il problema a riguardo è che questa fiducia nei test si perpetua perché coloro che diventano professori avendo superato un test di ammissione da studenti ritengono che questo sistema sia giusto ed esatto. Ma non è tutto ciò una convinzione fondata su una percezione errata, dato che la cosiddetta scienza dei test e dei quiz ha dei limiti metodologici evidenti e noti a chi abbia masticato un poco di psicologia delle differenze individuali? 

Due parole sul web oggi…

Anche Internet è cambiato molto in questi anni. Se prima si chattava da anonimi con persone sconosciute, oggi l’anonimato si sta riducendo. Non è più tempo di giochi di ruolo. Non è più tempo come nei primi anni 2000 di sperimentare nuove subpersonalità.  Oggi l’identità personale e sociale è determinata in buona parte dai social. Si diffonde a macchia d’olio il personal branding; molti cercano di presentarsi meglio che possono, di farsi un’ottima reputazione online. C’è sempre una confusione tra Sé effettivo e Sé desiderato, tra reale e virtuale, tra atto e potenza. Alcuni si perdono in questo guazzabuglio. Tutti vogliono essere online. La dipendenza da Internet come la dipendenza dalla televisione sono menzionate entrambe dal DSM. Tutti vogliono testimoniare la loro esistenza. Essere online a qualsiasi livello è un certificato ineludibile della propria esistenza. C’è chi va in un posto nuovo e lo fotografa. C’è la mania dei selfie. Ogni evento, ogni accadimento deve essere immortalato, eternato.  Per dirla alla Goethe “fermati attimo”! C’è anche chi si filma nei propri momenti di intimità (è lapalissiano che il reato di revenge porn non ha scuse né giustificazioni e va perseguito in ogni sede). Condividere qualsiasi cosa sui social dal punto di vista neuropsicologico è spiegabile con la scarica di dopamina dei like nella corteccia orbitofrontale e nel nucleo accumbens. Anche la quantità di visualizzazioni dà  scariche di dopamina. Ma c’è qualcosa di più profondo, ovvero l’affermazione dell’ego e della propria esistenza. Condividere qualcosa significa contemporaneamente esserci, dire “io sono”, dire “io esisto”. Molti devono dimostrarlo agli altri ma anche a sé stessi di esserci, di esistere. Cercano conferme e approvazione dagli altri. C’è un modo probabilmente più nobile di stare su Internet, cioè aggiornare il profilo social come se fosse un diario online in cui promuovere i pensieri, le impressioni, scrivendo in modo indipendente, strafregandosene della reazione altrui. Talvolta è  per autopromuoversi.  Anche questo modo più nobile di stare nel web è un piccolo lascito intellettuale, la testimonianza certa di ciò che pensavamo e sentivamo, nel caso in cui dovessimo morire. Ci sono tantissimi profili social di persone morte. Ogni tanto mi ci imbatto e mi fanno sia un poco di impressione che di tristezza e di nostalgia.  Mi è successo di avere qualche contatto social che è scomparso. Ognuno dissemina tracce nel web. Ognuno lascia una minuscola traccia nel mondo virtuale, a cui la stragrande maggioranza dell’umanità non farà minimamente caso. Come io che scrivo in vari siti. Probabilmente io scrivo per mantenere in esercizio la mente, per esprimermi, ma anche per lasciare le mie piccole idee, le mie sensazioni a qualcuno. Il bello e allo stesso tempo il brutto di diffondere parti di sé nel web è che non ci sono destinatari precisi, noti e non si sa che cosa ne penserà la maggioranza di coloro che le conoscono. Però in fondo cosa importa? Ognuno contribuisce a suo mondo all’intelligenza collettiva del web nel migliore dei casi oppure nel peggiore al gran calderone, all’orripilante pandemonio internettiano.  Una volta una tale mi ha detto ironicamente: “tu continua a fare lo splendido sui social, a fare l’intellettualoide del web”. Informo tutti che la libertà delle proprie idee è garantita dalla Costituzione e ognuno lo fa nel modo che ritiene più consono oppure anche come sa fare meglio. A ogni modo queste frasi sferzanti da fini dicitori o da fini dicitrici non mi tangono minimamente. Io ho il mio piccolo dovere.  Mi obbligo ogni giorno a scrivere una riflessione breve, un articolo semplice. È una cosa che mi impongo ogni giorno.  Non sarà poesia memorabile. Non sarà prosa da grande casa editrice. Ne sono consapevole. È roba mia. È gratuita. Se volete potete favorire. Può darsi che ogni tanto ci sia del buono che stimoli altre riflessioni, altro pensiero. Può anche darsi di no e io scrivo col beneficio d’inventario quando invece nel mondo delle patrie lettere molti pensano di scrivere capolavori. Insomma si sta tutti sul web per condividere, esprimersi, esibirsi, guardare, farsi i fatti degli altri, etc etc. A volte la stupidità o la creatività altrui possono stupirci, estasiarci, rassicurarci o infastidirci. Poi i nostri scritti  al momento della dipartita  saranno solo piccole tracce disseminate nel mare magnum del web, di cui potranno accorgersi solo persone a noi care e altre che non abbiamo mai visto nella vita reale perché il web, anche nel 2022, è sempre rizomatico, casuale, comunque asettico. 

Dacci oggi la nostra follia quotidiana…

“Accettiamo la follia, Oh uomini

della mia generazione. Seguiamo

le tracce di quest’epoca massacrata:

guardiamola trascinarsi dentro la scura terra del Tempo

nella casa chiusa dell’eternità

col latrato del morente

col viso che indossa cose morte –

non diciamo mai

volevamo di più; cercavamo di trovare

una porta aperta, un estremo atto d’amore,

che trasformasse la crudele oscurità del giorno;

ma

trovammo inferno e nebbia diffusi

sulla terra, e nella testa

una putrida palude di enormi tombe sghembe.”

“Accettiamo la follia” (Kenneth Patchen)

Freud  tanto tempo fa scrisse un libro riguardante la psicopatologia della vita quotidiana, che lui ravvisava negli atti mancati, nei lapsus, nelle dimenticanze. Oggi a mio avviso la psicopatologia della vita quotidiana si è accresciuta enormemente. Basta vedere i social e tutto il loro bullismo telematico,  mentre molti altri sempre sul web non fanno che predicare nel deserto, scrivendo cose interessanti, e fanciulle discinte un poco svampite, un poco sgrammaticate hanno centinaia di migliaia di follower, guadagnando cifre da capogiro mettendosi in posa. È normalità tutto ciò? Non parliamo di chi governa il mondo, di chi decide le guerre e gli assetti geopolitici. Non sono forse persone psicopatiche o che comunque prendono decisioni folli? Non c’è forse follia nella razionalità tecnologica esasperata,  nelle guerre, nella povertà diffusa in molte parti del pianeta, nel cosiddetto progresso,  che porta in definitiva al suicidio probabile della specie? Ma ritorniamo alla psicopatologia della vita quotidiana. Non è forse psicopatologico chi in macchina accelera pur di non fermarsi per far passare il pedone sulle strisce? E non è psicopatologico chi percorre in macchina una strada in controsenso per abbreviare il percorso per andare a casa? Non è psicopatologico creare assembramento in un bar frequentato mettendosi a fare colazione al banco quando si potrebbe prendere cappuccino e pezzo dolce e spostarsi al tavolino? Non è psicopatologico spendere centinaia di euro quando alcuni vanno a fare la spesa, comprando molte cose di cui non avevano bisogno per niente? Non è psicopatologico spendere cinquantamila euro per una bella automobile e poi non avere soldi per pagarsi il  dentista? Non è psicopatologico invocare il rispetto della legge e poi pensare di farsi giustizia da soli? Non è psicopatologico sorpassare più macchine quando dopo cento metri c’è un semaforo? Non è psicopatologico passare una decina di ore al giorno come fanno molti pensionati davanti alla televisione? Non è forse psicopatologico drogarsi per evadere dalla realtà? Non è forse psicopatologico essere dipendenti dal sesso? Non è forse psicopatologico spendere migliaia di euro in abiti firmati? Non è forse psicopatologico imbottirsi di Viagra 85 anni? Non è forse psicopatologico scaricare in aperta campagna dei rifiuti tossici? Quello che voglio dire è che erroneamente pensiamo che i folli siano disadattati. Forse è vero per i folli migliori e più innocui. Ma per stare al passo e adattarsi a un mondo folle bisogna per integrarsi socialmente e lavorativamente sviluppare nevrosi e psicosi. Ogni tanto le persone lasciano intravedere, lasciano scorgere la loro follia, quasi sempre inibita, come in queste piccole azioni quotidiane che io ho elencato,  ma sarebbero un’infinità gli atti quotidiani psicopatologici, che ciascuno di noi compie, spesso senza accorgersene e senza riflettere. La maggioranza delle persone non riesce a mettere a fuoco né a frutto la propria follia. Etichettare un modo molto negativo i cosiddetti folli è un modo per esorcizzare la propria follia, i disturbi che tutti più o meno abbiamo. Ci sono persone che non riconoscono il loro lato folle, lo reprimono totalmente e poi dopo aver covato rabbia, inadeguatezza hanno uno scatto d’ira, perdono totalmente la lucidità, diventano pericolosi socialmente. In questi giorni sono saliti alla cronaca degli omicidi causati da persone  con problemi psicologici non curati. Io assumo psicofarmaci per prevenire ogni disturbo. Mi vedo una volta ogni tre anni con il mio terapeuta, ma c’è una buona alleanza terapeutica, nel senso che se dovessi avere pensieri strani la prima cosa che faccio sarebbe chiamarlo. Eppure soffro di attacchi di panico e di ideazione prevalente, due cose non invalidanti, non socialmente pericolose e non patologiche a livello psichiatrico. Quando ci vediamo gli descrivo i miei umori e i miei stati mentali. Vuole che gli consigli dei libri. Mi ha detto che se voglio posso anche non pagare, ma io pago sempre. Ritengo che andare da un terapeuta possa favorire l’evoluzione mentale di ognuno. Non la vedo una cosa degradante, umiliante, di cui vergognarsi. Dovremmo tenere presente queste cose quando si tratta di salute mentale: 1) tutti, più o meno, abbiamo problemi psicologici. Dire che una persona ha dei problemi è superfluo e dispregiativo perché tutti abbiamo dei problemi. Non riconoscerlo significa negare l’evidenza dei fatti, la natura umana, la problematicità odierna con un mondo sempre più caotico e complesso 2) tutti avremmo bisogno di uno specialista della psiche per fare un check-up, almeno una volta all’anno 3) ognuno dovrebbe lavorare su sé stesso e tramite l’introspezione cercare di integrare la  parte non patologica con la parte patologica, che tutti abbiamo 4) non si dovrebbe aspettare di andare da uno psicologo solo quando si ha una crisi. Bisognerebbe andarci sempre 5) andare dallo psicologo anche quando si sta bene non è mai inutile perché tutto sommato aumenta la nostra autoconoscenza interiore e funge da valvola di sfogo 6) bisogna sfatare qualsiasi pregiudizio sulla follia. Basti pensare a riguardo al risaputo e provato legame tra follia e creatività 7) andare da un esperto della psiche non è segno necessariamente di essere gravemente disturbati, ma significa essere delle persone civili, che curandosi si prendono cura della loro salute mentale e migliorano i rapporti umani con le persone con cui interagiscono. 8) certe cose intime e scomode è meglio raccontarle a un professionista che ha il segreto professionale tra le regole deontologiche che a finti guaritori, maghi, cartomanti, santoni, sempre pronti a specularci sopra. 9) talvolta psicologi, psicoterapeuti,  psichiatri si rivelano non adeguatamente preparati o empatici. Questa però non deve essere la scusa buona per non andarci. Prima o poi la persona giusta si trova 10) come andiamo una volta all’anno a fare le analisi del sangue o l’elettrocardiogramma dovremmo andare da uno psicoterapeuta a farci fare un controllo ogni anno. 11) molto meglio la moda di andare dallo psicologo che quella di non andarci affatto

Tutte queste cose potrebbero sembrare scontate per coloro che credono di essere raffinati intellettuali, in realtà non lo sono per niente perché in Italia da questo punto di vista della salute mentale siamo ancora indietro e c’è ancora molta strada da fare. Il vero progresso umano passa anche da un cambiamento di mentalità nei confronti della cosiddetta follia. 

Scomoda verità, forse per altri.

Frida la loka ( Lombardia)

A te Frida.

Non molto tempo fa, la mia persona ha ricevuto una, potremo denominarla, segnalazione?, già; la chiamo così perché è quasi come un atto di denuncia, un ammonimento , da far notare che hai qualcosa in te che non va.

Essa, dopo essere stata raggirata mile volte con parole a vuoto, senza arrivare al dunque, semplicemente dire quello che ” secondo questa persona” ha riferitomi, mi ha fatto scoppiare dal ridere.

– ” HAI BISOGNO DI UNO PSICOLOGO “…

Silenzio… nel mentre facevamo una passeggiata, continuiamo a camminare muti. Mentre pensavo e riflettevo. Dopo un paio di metri, che non è che posso fare una gara di corsa; mi fermo ed inizio a raccontare minuziosamente, ogni singola avventura o disgrazia che ho dovuto subbire da quando questa nuova ” me “, ha deciso di cercare di andare avanti, lasciando dietro delle ombre nere come la pece che non andranno mai più via e mi perseguitano, là dove vada.

E pure mi potrà un giorno semmai se l’ha sente, ringraziare, perché ho tagliato parecchio di ogni singolo episodio, come ad esempio, stare per venti e passa giorni in coma e non precisamente indotto. Nel senso che oggi avrei potuto interagire, ma non certamente molto earthly.

Evidentemente è un percorso chirurgicamente ( questo aggettivo si adicce proprio al caso) complesso, che non è finito e non finira mai, finché magari la scienza si evolva e trovi una cura, sè redditizio per altri, meglio, caso contrario sarò alla frutta.

Ovviamente non potrà mai capire, che, altro che psicologo! Ho bisogno d’un team di professionisti, i migliori nel campo, che lavorino in squadra, cosa veramente utopica… un team!

Chi non è pronto oppure letteralmente non interessato ad ascoltare non potrà mai capire perché, sí, ho bisogno d’uno psicologo, con cui sfogare la mia ira o profonda tristezza, uno psichiatra bravo! A darmi i farmaci giusti, un neurochirurgo, che abbia mani d’un Canova, d’un Michelangelo! Uno che stia dietro a minimizzare i dolori quando sono insopportabili, un medico di base che quando prendo appuntamento da lui, lo trovi con buona pace di dio, sveglio!

Insomma, credetemi, finché non siete da questa parte della trincea, non saprete mai cosa significa vivere una vita a metà, la testa percorre cento in cinque minuti, il mio corpo martoriato l’ho fa in venti. Nemmeno io l’ho pensavo fino a tempo fa.

Quando tocco questo argomento a me tanto doloroso, inesorabilmente viene al mio pensiero quei furbetti dell’ INPS, che per prendere una pensione perché disabile, mal messa per lavorare, ma non lo suficiente per prendere la pensione e accompagnamento. Per loro anche in questo claustro siamo dei semplici numeri, che facendo la media, per una percentuale, non mi danno il centone.

E allora son altri tipi di dolori quando inizia il momento di prenotare specialisti privatamente.

PS: non sono il tipo di ” poverina” , ecc. Magari quest’è il karma che devo vivere per saldare conti passati in un’altra vita, chi lo sa…

Tua.

24 ottobre, 2022

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Provate voi – Barbara Garlaschelli

Ripubblicato da Frida la loka (Lombardia)

"Provate voi a essere donne
con il coltello alla gola
le gambe aperte
e la pistola puntata alla tempia.

Provate voi a essere donne
la costola di Adamo
la polvere di stelle
gli assorbenti con le ali
le ali senza vento,
in caduta libera.

Provate voi a essere donne
a morire come foglie
calpestate come foglie
bruciate come foglie.

Provate voi ché noi siamo stanche
di mettere al mondo uomini che ci tagliano la vita
e ci seppelliscono che ancora respiriamo."
Libreria multimediale

Breve biografia:

Laureata in Lettere Moderne all’Università Statale di Milano, ha esordito nella scrittura nel 1993 con l’antologia in floppy disk Storie di bambini, donne e assassini, Del 1995 è il suo esordio a stampa, con O ridere o morire, edito da Marcos y Marcos.

Scrittrice versatile, si è cimentata in vari generi: dal noir, alla letteratura per ragazzi (quest’ultima edita da EL, di cui ha diretto la collana “I corti”; con Walt Disney in collaborazione con Nicoletta Vallorani) al teatro. Costretta fin dall’età di 16 anni su una sedia a rotelle a causa della rottura di una vertebra per un tuffo in acque troppo basse, ha descritto con stile asciutto il suo percorso di vita nei dieci mesi successivi in Sirena, Moby Dick, Faenza 2001. Il libro è considerato un long seller e ha avuto varie ristampe: nel 2004 con Salani, nel 2007 con TEA e nel 2014 con Laurana Editore. (Wikipedia).

Tua.

14 ottobre, 2022.

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Cellulari in classe, insegnanti esasperati e giudizi irriverenti, di Mariangela Ciceri. Psicologa Alessandria

Cellulari in classe, insegnanti esasperati e giudizi irriverenti

È di questi giorni la notizia che un dirigente scolastico di Padova ha vietato l’uso dei cellulari in classe.

Tale decisione – che per altro una decisione non è poiché esiste una normativa sull’uso degli smartphone in classe (la 104) che risale al 2007 nella quale si afferma: «(…) di non utilizzare il telefono cellulare, o altri dispositivi elettronici, durante lo svolgimento delle attività̀ didattiche…» ha suscitato una variegata serie di commenti.

Mi permetto una riflessione: l’educazione è qualcosa con cui un bambino non nasce e se non le viene insegnata, più con gli esempi che con le parole, difficilmente l’apprenderà.

Se da un lato è vero che le adolescenze e i loro conflitti «mutano» a seconda dei contesti storici e sociali, ci sono tuttavia elementi che la caratterizzano senza cambiare un dato di fatto importante: l’adolescenza è l’età dei conflitti.

Si ha spesso, anche se non tutti e non sempre lo fanno, la tendenza a giudicare quello che non comprendiamo o che sentiamo non controllabile cosicché l’aggressività, la trasgressività, l’irruenza, l’opposizione, la disobbedienza e la provocazione dei giovani, anziché essere vista come una modalità usata per capire la propria identità, viene messa al bando, valutata e spesso condannata.

Ma l’adolescente di oggi, non è tanto diverso dall’adolescente di ieri.

Una crescita senza conflitti, non sarebbe una crescita, così come nelle famiglie in cui non si discute mai e tutto va sempre bene, non significa che non esistano motivi di attrito, ma solamente che quel nucleo famigliare, non è in grado di riconoscere e gestire il conflitto e allora preferisce annullarlo, farsi andare bene tutto, pur di mantenere un equilibrio fittizio che non può permettersi di perdere.

Un tempo la ricerca della propria identità passava anche attraverso l’osservazione delle immagini famigliari, sfogliando vecchi album accanto a genitori disponibili a spiegare chi fossero le persone immortalate su fotografie ingiallite. I volti, gli sfondi, gli oggetti, aiutavano a intrecciare le ricerche sulla storia famigliare portando alla luce miti, credenze, segreti del passato.

Oggi l’identità degli adolescenti passa prevalentemente attraverso le immagini che mamme, padri, zii e amici postano sulle bacheche dei social network.

Se si rompe un computer, una chiavetta, un telefono, le immagini possono andare perse e scomparire. I cellulari sostituiscono gli album di famiglia, le lettere scritte agli amici e anche le parole dette ai genitori.

WhatsApp varca confini che dovrebbero essere rispettati, dove le madri chiedono ad altri madri di fotografare le pagine di storia da studiare e poi magari, rimproverano i figli, di non essere stati attenti.

Leggere ciò che viene scritto su alcuni gruppi di classe (sempre su WhatsApp fa rabbrividire).

Così il messaggio inviato al bambino, al preadolescente e all’adolescente è quello del: tutto passa attraverso un cellulare. Lo studio, la relazione, la fotografia. Non esistono sguardi che si incrociano, mani che si sfiorano, conflitti che devono trovare soluzioni.

Una volta per parlare con i compagni di scuola, facevamo viaggiare bigliettini sotto il banco. Contenevano di tutto, dagli appuntamenti, alle soluzioni dei compiti in classe.

Gli insegnanti a volte chiudevano un occhio, altre volte ci bloccavano, qualche volta ci punivano. Ma non mi risulta che qualche dirigente lo abbia annunciato al mondo.

I rapporti con le famiglie sono più complicati di un tempo?

Sicuramente ma non è un problema dei minori.

Non mi sento di dire che sono gli adolescenti ad essere «sbagliati» ma solo che hanno imparato da ciò che noi abbiamo loro mostrato, mancato riconoscimento delle regole comprese.

Mariangela Ciceri

Sono psicologa clinica e forense. Come clinica mi occupo di consulenza e supporto psicologico sia individuale che di coppia, di psicodiagnostica, di sostegno alla genitorialità, di psico-geriatria, di orientamento scolastico e professionale. Come libera professionista in ambito giuridico e forense il mio ruolo è quello di consulente nella valutazione del danno psichico dovuto ad eventi traumatici, di valutazione delle competenze genitoriali in caso di separazione e divorzio, di mediazione familiare. Conduco inoltre laboratori di comunicazione, psicologia sociale, uso della scrittura come strumento di consapevolezza e problem solving, al fine di facilitare il superamento di criticità emotive.

Alessandria

cicerimariangela@gmail.com

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Relazioni che possono «ingrassare», di Mariangela Ciceri – Psicologa. Alessandria

Mariangela Ciceri

Relazioni che possono «ingrassare», di Mariangela Ciceri

Nonostante per molti relazionarsi rappresenti una fatica quotidiana, viviamo di relazioni. 

Alessandria: Ci relazioniamo con gli amici, con i conoscenti, con i colleghi, con i genitori degli amici dei nostri figli, con i figli stessi, con il partner, con la cassiera del supermercato che incrociamo più spesso di altre, con il dentista e perfino con chi, in auto, ci taglia la strada non rispettando il nostro diritto di precedenza.

Quando i rapporti sono superficiali, occasionali, minimi e le regole prevedono che ci possa ritirare dalla relazione, l’equazione potrebbe essere: tu, non mi piaci, mi deludi, mi ferisci = io mi allontano da te.

Una strategia valida che a volte non è possibile o facile mettere in atto e usare.

Pensiamo alle relazioni obbligate con persone che percepiamo come invadenti, giudicanti, inopportune, sfacciate, arroganti, ma a cui non possiamo (oppure non vogliamo) sottrarci.

Di fronte all’impossibilità di farlo, diamo vita a una delle più frequenti illusioni: lui, lei, loro cambieranno. E così mentre si attende che il miracolo avvenga, restiamo «sospesi», fermi sperando che gli altri facciano quello che sentiamo e crediamo, essere meglio per noi.

Le attese però, come ben sappiamo, logorano. 

Il tempo si ferma, ristagna, le aspettative creano ingorghi mentali e ci ritroviamo a dover colmare tempo e spazio.

Le statistiche dicono che una delle modalità con cui cerchiamo di contenere o arginare l’attesa che tutto migliori e che le situazioni cambino è mangiando. 

Assaggiare un biscotto, portarsi alla bocca una caramella, non resistere al secondo, terzo, cioccolatino, può aiutare. Può farci sentire meglio. Meno soli. Più forti. Persino più sicuri, perché ci offrono una consolazione fittizia, ma che in quel momento è l’unica che abbiamo.

Tuttavia se siamo nella situazione in cui abbiamo SEMPRE bisogno di sperare che il contesto fatto di vissuti, incontri e relazioni cambi, oppure viviamo in perenne attesa del consenso degli altri o del loro giudizio positivo per non essere (o sentirci) imperfetti, sottomessi, dipendenti, condizionati allora è bene chiedersi: come e quando è iniziato tutto questo? Cosa succede in me quando l’altro mi delude? Cosa provo? Quali paure attiva? Come posso sostituire l’aspettativa delusa in modo da riconoscermi io pregi e valori?

Sperare che gli altri ci amino incondizionatamente, quando noi primi non ci riconosciamo il diritto di essere amati, significa consegnare a loro il controllo della nostra vita.

Il cibo allora diventa il surrogato di quello che vorremmo essere e non siamo, di quello che gli altri dovrebbero darci e non ci danno, ma anche una modalità rapida e meno dolorosa di altre, per mettere a tacere disagi, confitti e bisogni. Proprio quelli che invece varrebbe la pena imparare ad ascoltare.

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Mariangela Ciceri

Sono psicologa clinica e forense. Come clinica mi occupo di consulenza e supporto psicologico sia individuale che di coppia, di psicodiagnostica, di sostegno alla genitorialità, di psico-geriatria, di orientamento scolastico e professionale. Come libera professionista in ambito giuridico e forense il mio ruolo è quello di consulente nella valutazione del danno psichico dovuto ad eventi traumatici, di valutazione delle competenze genitoriali in caso di separazione e divorzio, di mediazione familiare. Conduco inoltre laboratori di comunicazione, psicologia sociale, uso della scrittura come strumento di consapevolezza e problem solving, al fine di facilitare il superamento di criticità emotive.

Alessandria

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