Avevo 16 anni. Andavamo ogni domenica pomeriggio in una discoteca che si chiamava Waikiki. Distava poche centinaia di metri da casa. Io a quei tempi non sapevo assolutamente cosa significasse Waikiki, quel nome bizzarro ed esotico (adesso so che è un quartiere e una spiaggia delle Hawaii, meta di tutti i surfisti). Allora avevo tutti i denti. Non avevo neanche un filo di grasso. E i miei coetanei non erano ancora tutti palestrati. Ed ero alto 1.76 in un’epoca in cui alla visita di leva di quelli nati nel 1972 come me l’altezza media era di 1.72. Eravamo tutti sobri nel gruppo. Nessuno prendeva mai alcolici. Non ci sfiorava neanche per l’anticamera del cervello. Si consumava qualche Coca-Cola. Quella discoteca ci sembrava grande e invece era piccola. Le nostre cose della vita ci sembravano così importanti e invece eravamo dei ragazzetti insignificanti alla periferia di una provincia insignificante, in un angolo di mondo insignificante, dove non succedeva mai niente e la noia dominava su tutto. Eravamo dei piccoli provinciali insignificanti, ma quel piccolo nostro mondo angusto ci sembrava racchiudesse tutto il mondo e la sua illimitata varietà: avremmo scoperto nostro malgrado e a nostre spese che non era assolutamente così. Era tutto un guardarsi con le ragazze. Ce n’era una che si chiamava Eleonora, aveva 16 anni, era pontederese anche lei, a cui piacevo. Che poi me lo avevano detto altri perché io non me n’ero neanche accorto! La sua sorella l’aveva confidato a un mio amico. L’avevo saputo per vie traverse. Tutti mi dicevano che ero fortunato perché era molto bella. Poi si vociferava che fosse emancipata. Fumava molto. Qualcuno diceva che era scoppiata. Era un modo di dire tutto pontederese per dire che era alternativa, che era contro il sistema. Io ero vergine. Lei aveva già avuto delle esperienze. Avrebbe potuto insegnarmi tutto dell’amore o della sua parvenza. Tutti mi dicevano: che aspetti? Toccava a me fare il primo passo, ma mi limitavo a guardarla e sorriderle. Gli amici non avevano fatto i conti con la mia timidezza, la mia goffaggine, il mio essere così imbranato. E fu così che passarono le settimane ed Eleonora non perse tempo e si fidanzò con un altro. Io fui per gli amici uno sfigato, un gay, un perditempo, uno che sprecava le occasioni. Avevo perso un treno. Un bel treno. Ancora oggi in certi momenti oziosi passati a rigirarmi nel letto o mentre fisso il soffitto oppure mentre cammino da solo all’alba nella nebbia mi ricordo vagamente di Eleonora, che non ho più rivista e che a distanza di più di 30 anni non so più cosa faccia, dove e con chi viva; ormai a distanza di più di 30 anni tutto è sfumato, non mi ricordo più la sua voce, non mi ricordo che molto genericamente le sue fattezze; a un tratto però nel buio della mente e nella spirale della solitudine nel cuore della notte o mentre cammino da solo all’alba, a un certo punto quando meno me lo aspetto mi illuminano la mente i suoi occhi azzurri e penso a tutti I bivi della vita, a tutto quello che poteva essere e non è stato; poi faccio mente locale e penso che sono rimasto solo, che quella piccola discoteca l’hanno chiusa da decenni e al suo posto da qualche anno c’è lo studio di un notaio. Penso che Eleonora non la rivedrò mai più e molto probabilmente è meglio così perché non voglio vedere i segni del tempo su di lei, ma anche perché si riaprirebbe una ferita mai totalmente risarcita. Penso anche che io ho il lusso di poter sprecare del tempo a ricordare cose lontanissime, di fantasticare inutilmente come avrebbe potuta essere la mia vita con Eleonora, mentre lei più prosaicamente avrà problemi molto seri da affrontare come un marito, dei figli e un lavoro duro da sudare. Ma in certi momenti di solitudine più feroce penso che un giorno lontanissimo anche io piacqui a una ragazza come Eleonora (io che non ho più occasioni, non ho più opportunità di amare ed essere amato, io che sono un uomo solo) e questo pensiero per qualche istante soltanto mi rincuora e dilegua la tristezza passeggera.