LA GATTA, di Giovanni Pascoli, recensione di Elvio Bombonato
Era una gatta, assai trita, e non era
d’alcuno, e, vecchia, aveva un suo gattino.
Ora, una notte, (su per il camino
s’ingolfava e rombava la bufera)
trassemi all’uscio il suon d’una preghiera,
e lei vidi e il suo figlio a lei vicino.
Mi spinse ella, in un dolce atto, il meschino
tra’ piedi; e sparve nella notte nera.
Che notte nera, piena di dolore!
Pianti e singulti e risa pazze e tetri
urli portava dai deserti il vento.
E la pioggia cadea, vasto fragore,
sferzando i muri e scoppiettando ai vetri.
Facea le fusa il piccolo, contento.
GIOVANNI PASCOLI, Poesie Varie, 1885
La lirica è un quadretto di genere. Le gatte accudiscono i propri cuccioli fino al terzo mese, credo, poi li ignorano. La gatta è logora, randagia, anziana; mentre infuria la bufera, miagolando, affida il suo gattino al poeta, e sparisce. L’ultimo verso è tenerissimo. Troviamo alcuni topoi pascoliani: l’ambiente ostile che assedia il nido, la cui figura dominante è la madre.
Anche la gatta lo è. Il fuori è minaccioso, il dentro rassicurante perché la madre lo rende tale. La poesia è un sonetto canonico, di impronta petrarchesca, con endecasillabi piani. Rime: incrociata ABBA ABBA, e ripetuta CDE CDE. Lessico usuale, impreziosito da alcuni arcaismi: trassemi (pronome personale in fondo al verbo); singulti (singhiozzi, deverbale); sparve (sparì); cadea/facea (con uscita in ‘ea’, anziché ‘eva’). Un climax forte a quattro voci: pianti singulti risa pazze tetri urli. I tempi dei verbi sono il passato remoto e l’imperfetto.
