(Adnkronos) – I dati del rapporto Influnet, 762mila italiani a letto solo nell’ultima settimana, ci dicono che “l’influenza è tornata peggio di come ci aveva lasciato nel 2019 ed è partita a razzo, siamo tornati alla forza propulsiva dell’influenza del 2009 con numeri alti anticipati rispetto alla stagione. Abbiamo numeri importanti già a fine novembre. Sicuramente oggi fa paura anche per tutto quello che si porta dietro con una quantità di virus paninfluenzali, patologie da pneumococco e anche polmoniti. Qualcuno dice rimettiamo le mascherine, io dico assolutamente no. Questi microorganismi devono circolare e hanno sempre circolato, ci dobbiamo proteggere ma come? Ad esempio, abbiamo perso molto la copertura per lo pneumococco, la vaccinazione da polmonite, ma anche quelle per l’influenza”. Così all’Adnkronos Salute Matteo Bassetti, direttore Malattie infettive ospedale Policlinico San Martino di Genova.
La curva influenzale “continuerà a crescere perché questo è solo l’inizio”, avverte l’infettivologo. “Oggi l’incidenza è altissima tra i bambini piccoli, ma dove arriveranno gli adulti e poi i nonni. I primi perderanno qualche giorno di scuola ma i nonni finiranno in ospedale? Gli anziani – suggerisce in conclusione Bassetti – in queste due settimane che ci separano dal Natale invece di correre a fare i regali correre a fare il vaccino antinfluenzale”.
La Polizia di Stato in azione nei comuni di Arquata e Serravalle Scrivia per un’incisiva attività di controllo del territorio.
Proseguono i controlli straordinari disposti dal Sig. Questore di Alessandria su tutto il territorio provinciale al fine di presenziare in quei luoghi e in quelle aree in cui, l’opera continua di osservazione oltre che alle preziose segnalazioni dei cittadini, ha fatto emergere la necessità di una più incisa presenza della Polizia di Stato per dare un segnale di operatività oltre che per garantire il principio sempre fondamentale di legalità.
Nei giorni scorsi, al proposito, è stato effettuato un servizio mirato nelle stazioni ferroviarie di Arquata Scrivia e Serravalle Scrivia e nelle aree adiacenti tramite il personale della Questura, del Posto Polfer di Novi Ligure, del Reparto Prevenzione Crimine di Torino, delle Polizie Municipali di Serravalle Scrivia e Arquata. Importante anche la presenza di Orso Grigio, il cane antidroga in servizio presso la Polizia Locale di Alessandria, grazie al suo infallibile fiuto, è stato possibile rinvenire nell’area verde adiacente la stazione di Serravalle Scrivia un involucro di cellophane a chiusura ermetica contenente della sostanza stupefacente, nella fattispecie marijuana del peso di 68.5 grammi. Sostanza che veniva sequestrata a carico di ignoti.
L’attività è stata svolta ad ampio raggio ed in particolare venivano controllati alcuni locali pubblici nei pressi delle stazioni ferroviarie. In uno di questi, gli operatori notavano un uomo che si dirigeva verso il bagno all’ingresso delle Forze dell’Ordine. Questo, dopo l’identificazione, veniva sottoposto a perquisizione personale da cui emergeva che era in possesso di modiche quantità di hashish e marijuana, mentre nel bagno dove si era appena recato venivano rinvenuti a terra un paio di frammenti di cellophane di colore bianco vuoti e con segni di termosaldatura, tipicamente utilizzati per confezionare sostanza stupefacente in polvere, tipo cocaina. L’uomo veniva segnalato all’Autorità Amministrativa ai sensi dell’art. 75 del DPR 309/90 (possesso per uso personale).
Complessivamente, nell’arco dell’interno turno di servizio, sono state controllate 40 persone di cui 10 con precedenti di Polizia.
I progetti di una maggior presenza sul territorio proseguiranno nelle prossime settimane anche e soprattutto per l’avvicinarsi del periodo natalizio, al fine di incrementare il senso di sicurezza nella popolazione.
Dentro il soffio labile
d’una vertigine
ravvedo il senso sconfinato
d’un vortice di buio.
Una collisione amara
di pensieri senza verbo
sorseggiati
nel deserto della sera.
E’allora che tracima la guazza
d’un’assenza lancinante
divenuta grave
dietro la tenda della vita
molestata dallo sguardo d’uno strige.
@Silvia De Angelis
Sonetto a rime incrociate e ripetute ABBA ABBA CDE CDE.
I puffini sono uccelli marini, dell’ordine dei palmipedi. In questo sonetto pare si chiamino, si salutino, ridano e gioiscano insieme (Lavezzi). Un quadretto impressionistico, disegnato con tratto preciso e raffinato, che alterna sensazioni visive e uditive in rapida successione. Il soggetto del quadretto, i puffini, compare solo al v. 7. Parafrasi. ‘un rigo di carmino’: una riga di rosso vivo; ‘recide’: taglia; ‘marezzate’: mosse da increspature con riverberi; ‘cerula’: azzurro chiaro; ‘randa’: vela trapezoidale; ‘Pur’: eppure; ‘garbino’: libeccio; ‘oziose’: la dieresi allunga il verso; ‘chiacchiericcio’: sostantivo onomatopeico; ‘ad ora ad ora’: a intervalli; ‘risacca’: le onde a riva; ‘stagliate’: visibili come se fossero ritagliate; ‘l’oro e il fuoco’: i colori dell’alba e del tramonto; ‘paranzelle’: barche da pesca piccole e veloci; ‘dondolano’: verbo onomatopeico; ‘mar liscio di lacca’: immobile e lucido.
LA GATTA, di Giovanni Pascoli, recensione di Elvio Bombonato
Era una gatta, assai trita, e non era d’alcuno, e, vecchia, aveva un suo gattino. Ora, una notte, (su per il camino s’ingolfava e rombava la bufera)
trassemi all’uscio il suon d’una preghiera, e lei vidi e il suo figlio a lei vicino. Mi spinse ella, in un dolce atto, il meschino tra’ piedi; e sparve nella notte nera.
Che notte nera, piena di dolore! Pianti e singulti e risa pazze e tetri urli portava dai deserti il vento.
E la pioggia cadea, vasto fragore, sferzando i muri e scoppiettando ai vetri. Facea le fusa il piccolo, contento.
GIOVANNI PASCOLI, Poesie Varie, 1885
La lirica è un quadretto di genere. Le gatte accudiscono i propri cuccioli fino al terzo mese, credo, poi li ignorano. La gatta è logora, randagia, anziana; mentre infuria la bufera, miagolando, affida il suo gattino al poeta, e sparisce. L’ultimo verso è tenerissimo. Troviamo alcuni topoi pascoliani: l’ambiente ostile che assedia il nido, la cui figura dominante è la madre.
Anche la gatta lo è. Il fuori è minaccioso, il dentro rassicurante perché la madre lo rende tale. La poesia è un sonetto canonico, di impronta petrarchesca, con endecasillabi piani. Rime: incrociata ABBA ABBA, e ripetuta CDE CDE. Lessico usuale, impreziosito da alcuni arcaismi: trassemi (pronome personale in fondo al verbo); singulti (singhiozzi, deverbale); sparve (sparì); cadea/facea (con uscita in ‘ea’, anziché ‘eva’). Un climax forte a quattro voci: pianti singulti risa pazze tetri urli. I tempi dei verbi sono il passato remoto e l’imperfetto.
Aman è Parola che vibra sensibile e altruista, nella sostanza più immedesimativa e compartecipata, perché di queste qualità sublimi è composto il suo cuore travagliato.
Si tratta di una sensibilità che non nasconde nulla, perché il suo canto dell’anima si mostra visibile e allo scoperto, anche nell’acutezza del proprio tormento esistenziale, senza filtri simbolici, senza melliflui giri di parafrasi e metafore, senza mezze misure, mai in compromesso con sé stessa, vera fino alla sorgente dello spirito colorato d’Amore, che si fa strada attraverso la roccia più dura e impietosa della vita. Le sue espressioni liriche sono monumenti alla sincerità.
Antonella, come me, è convinta che la grandezza del valore umano passa proprio dalla rappresentazione del “fragile, piccolo e debole”, per costituirsi verità a servizio perenne dell’umanità intera.
Gli addii (a Francesca) di Luciano Erba – recensione di Elvio Bombonato
potrebbe essere l’ultima volta che li vedo mi dici dei tuoi compagni di classe che ti hanno fatto far tardi oggi che è finita la scuola dovrei sgridarti e sto invece ad ammirare i tuoi quaderni ben ordinati (con qualche sbavatura d’inchiostro di dita sudate di giochi di giugno) in autunno andrai alle superiori e questa tua bella scrittura un po’ tonda potrebbe essere l’ultima volta che la vedo.
LUCIANO ERBA (1980)
La figlia adolescente ha finito la terza media, arrivando tardi a casa. Il padre si intenerisce, e pensa al tempo che vola. Un’Italia che non c’è più, come il corsivo dei quaderni di Francesca.
La quale non è una futura velina, che aspira a mostrarsi in televisione, e non ha lo smartphone. Sapiente andamento prosastico per riprodurre il lessico famigliare; assenza di punteggiatura – tranne l’inciso –, mimesi del parlato.
Notevole il telaio metrico: il primo verso e l’ultimo – quasi identici – sono di 14 sillabe; il secondo e il penultimo di 12; il v.6 è un decasillabo in mezzo ai v.5 e 7, endecasillabi.
EUGENIO MONTALE, SU UNA LETTERA NON SCRITTA, recensione di Elvio Bombonato
Per un formicolìo d’albe, per pochifili su cui s’impigliil fiocco della vita e s’incollaniin ore e in anni, oggi i delfini a coppiecapriolano coi figli? Oh ch’io non odanulla di te, ch’io fugga dal baglioredei tuoi cigli. Ben altro è sulla terra.
Sparir non so né riaffacciarmi; tardala fucina vermigliadella notte, la sera si fa lunga,la preghiera è supplizio e non ancoratra le rocce che sorgono t’è giuntala bottiglia dal mare. L’onda, vuota,si rompe sulla punta, a Finisterre.
EUGENIO MONTALE, agosto 1940; poi in “La bufera e altro”.
E’ una poesia di assenza e di lontananza; anche da Clizia (Montale). Lo sfondo di guerra c’è (Montale). Clizia è il senhal con cui M. indicava Irma Brandeis, la studiosa americana, con la quale ebbe una tormentata relazione amorosa a Firenze, dal 1933 al 1938.
Coppie di delfini giocano coi figli, immagine di innocenza e di gioia di vivere, alla quale si contrappone la realtà storica di distruzione e di morte (la II guerra mondiale iniziò quasi un anno prima): la fucina vermiglia. ‘Distilla veleno una fede feroce’ – il nazismo -: “Dora Markus”, la cui seconda parte fu scritta nel 1939. Nel buio cupo dei tempi è necessario respingere ogni tentazione o promessa di un’impossibile salvezza, ne fosse portatrice Clizia stessa (Dante Isella). Il messaggio contenuto nella bottiglia gettata nell’oceano, è inghiottito dall’onda, fino all’estremo promontorio dell’Europa. Ma la bottiglia è vuota, la lettera non è stata scritta, perché anche pregare per l’impossibile salvezza, è un supplizio. Come sempre in Montale, la tragedia della storia diviene dramma esistenziale, ossessione provocata dalla comunicazione interrotta dall’incertezza e dall’attesa della fine.
Certe sere vorrei salire sui campanili della pianura, veder le grandi nuvole rosa lente sull’orizzonte come montagne intessute di raggi.
Vorrei capire dal cenno dei pioppi dove passa il fiume e quale aria trascina; saper dire dove nascerà il sole domani e quale via percorrerà, segnata sul riso già imbiondito, sui grani.
Vorrei toccare con le mie dita l’orlo delle campane, quando cade il giorno e si leva la brezza: sentir passare nel bronzo il battito di grandi voli lontani.
ANTONIA POZZI
Le tre strofe della poesia si fondano sull’ottativo ‘vorrei’; 19 versi piani; ho contato 2 novenari; 2 decasillabi; 5 settenari; 3 ternari; 5 endecasillabi; 1 doppio settenario; 1 ottonario. Antonia descrive un paese di montagna, immerso nella natura, vorrebbe salire sui campanili, per vedere le nuvole rosa all’orizzonte, i pioppi lungo le sponde del fiume, il sorgere del sole che illumina il grano imbiondito. Vorrebbe toccare l’orlo delle campane, e quando verrà il vento, sentire i loro rintocchi come se fossero voli lontani.
Questo commento al più noto e amatissimo libro di Charlotte Bronte è scritto unicamente per convincere gli scettici, repellenti ai presunti romanzi romantici, a leggere questo capolavoro.
Statemi a sentire: Jane Eyre non è una storia d’amore.
Jane Eyre è LA storia d’amore.
No, aspettate, non ci siamo certamente intesi: Jane Eyre è il tempio di un racconto in prima persona sull’amore per sé stessi.
E non c’è niente di più importante, necessario, salvifico che imparare ad amarsi.
Come? Strutturando la propria impalcatura personologica libera, ascoltando il proprio sentire e rimanendo fedeli a sé stessi con tutte le proprie forze anche andando contro le proprie pulsioni di Eros (e guardando dritto in faccia Thanatos).
L’autobiografia di Jane Eyre è tutto questo: una parabola ascendente meravigliosa della crescita umana e dell’evoluzione di una personalità magnifica, gigantesca in contrapposizione alla minutaggine del fisico e delle doti estetiche (più volte non a caso sottilineate dalla Bronte). Un accrescimento vitale e appassionato di una giovane donna che decide che amarsi e rispettarsi non è secondario a nulla, neanche all’amore per un uomo.
Il lettore respira, giace, soffre, urla e tace con Jane in ogni singolo episodio della sua esistenza, così meravigliosamente narrato dalla Bronte, che dai dieci anni d’età la porta a circa il ventesimo anno della sua esistenza.
I primi capitoli della sua infanzia sono uno strappo al cuore, lacerante e sofferto. I più bei capitoli romanzati sul maltrattamento infantile che io abbia mai letto in vita mia. Ho pianto, in diversi passaggi.
E poi il XXVII capitolo, il momento più importante e sconvolgente della sua esistenza in cui mostrerà la sintesi della sua fermezza e del suo essere salda, forte e risoluta.
Controcorrente, specie in epoca vittoriana, e allo stesso tempo estremamente emancipata da renderla una donna dei nostri giorni.
Jane è intelligente, misericordiosa, attenta, precisa, risoluta, saggia e impetuosa insieme, appassionata, gentile e onesta.
Come? Genetica certamente, ma più di tutto perché credente in un’unica fede: la moralità che nasce dall’educazione e dall’istruzione, dalla vera conoscenza delle cose di questo mondo, dai libri.
A questo Jane voterà tutta sé stessa e non sbagliera’ neanche un solo passaggio, costi quel che costi.
Oh, si, una storia d’amore per un uomo c’è certamente, ma è sempre narrata in funzione del compimento di una vita piena, di una scelta coerente di fedeltà a sé stessi.
Questo è un libro in cui non conta il finale, conta il processo.
Segui quest’attimo colmandolo di motivi per respirare, non concederti, non negarti,
non parlare solo per parlare.
Io non ti chiedo di andarmi a prendere
una stella celeste,
ora solo chiedo che il mio spazio
sia pieno della tua luce.
MARIO BENEDETTI, gennaio 2013
La lirica, autobiografica, si fonda sul parallelismo “io non ti chiedo/ ti chiedo”, anafora iterata sette volte, che la avvolge tutta, come una spirale in crescendo. La poesia è un cerchio, perché inizia e termina con “stella celeste” e “la tua luce”.
La tautologia dell’incipit richiama il ‘placido Don’ (romanzo di Solochov), e la gialla luna, sintagma replicato, sono due lacerti di paesaggio sereno e felice. Ma la poetessa è malata perché sola: il marito ammazzato dai sovietici, il figlio in prigione.
Due strofe di 9 endecasillabi l’una, priva di rime. L’omaggio al padre è arricchito da metafore notevoli: gli occhi aperti di sorriso, neri come le rondini del mare; la voce del padre; la notte ci ama fin dentro il sonno; gli uomini incamminati verso l’alba. Degna di stare accanto alla poesia di Sinisgalli e a quella di Quasimodo., entrambe dedicate al proprio padre.
è il primo Govoni (1884-1965), quello crepuscolare, il quale descrive la realtà umile e quotidiana di un pomeriggio estivo, con l’afa soffocante. Piccole cose, che provocano nel poeta delle sensazioni, tradotte in immagini. Come spesso in Govoni, è una poesia visiva, composta sfruttando il meccanismo dell’elenco. Alcune immagini sono delle analogie (metafore forti, con collegamenti insoliti e inattesi), piene di colori. Le poesie di Govoni sono ricche di colori, espliciti o sottintesi: è il loro fascino.
La poesia consta di quattro quartine, a rima incrociata: ABBA, CDDC, EFFE, GHHG. Nella seconda strofa DD sono una quasi rima assonanzata; ma i fonemi t e d sono dentali, sorda e sonora). I versi sono prevalentemente endecasillabi, con altri più brevi, dal novenario al ternario.
Si tratta di un elenco: il poeta cammina sotto l’afa e guarda le cose che lo circondano, prevale la paratassi (frasi brevi, coordinate), che dona immediatezza di scrittura e facilità di lettura. Il ritmo è lento, per rendere la calma; usa anche alcuni enjambement (quando la frase non finisce nel verso ma prosegue in quello successivo) volutamente, per pausa o rallentare la lettura. Già l’incipit: il primo verso, un settenario, è spezzato ma prosegue con lo stacco del soggetto dal verbo; l’antica / Certosa separa l’aggettivo qualificativo dal sostantivo che resta isolato. Altro enjambement troviamo ai vv. 7/8, forte perché stacca il soggetto dal verbo; ancora ai vv. 13/14 e nel finale (enjambement debole in quanto stacca solo il complemento di modo). La poesia è un cerchio perché il titolo e l’explicit (il finale) coincidono. Nella poesia moderna il titolo spesso fa corpo col testo.
– velata di fatica: l’afa pesante: analogia.
– in panna: fermo; analogia, l’aggettivo non appartiene al campo semantico del pomeriggio.
– Certosa: chiesa, antica dei certosini.
– l’azzurro crepiti; il cielo (metonimia: il colore al posto dell’oggetto); crepiti: l’aria secca pare provocare un crepitio ai passi del poeta (analogia fortissima, in quanto la spiegazione richiede una serie di passaggi per ricostruire la similitudine originaria: come la legna verde crepita nel focolare così i passi del poeta risuonano nell’aria resa pesante dall’afa).
– pugnali di sole: i raggi che feriscono (Il” trafitto da un raggio di sole” di Quasimodo verrà 30 anni dopo): altra analogia forte per la violenza del sostantivo, con spostamento del campo semantico dalle armi all’astronomia.
– tassi: alberi delle conifere.
– coppi: mattoni curvi, tegole.
– vento e pioppi: il vento agisce come un pettine (analogia).
– le campane spennellano l’aria: il movimento avanti/indietro delle campane somiglia al movimento del pennello di un pittore macchiaiolo o impressionista; analogia davvero originale, straordinaria perché visionaria,
– il micio (gattino) bianco solleva la pancia rosa come quella di un maialino: similitudine (paragone composto di due frasi collegate).
Ho contato almeno 11 immagini, trovate dallo sguardo del poeta, una festa di colori in quasi ciascun verso; alcune sinestesie (figure retoriche che accostano parole appartenenti a organi di senso diversi: v.5 udito/tatto; v.6: vista/udito; vv. 13/14: udito/vista).
L’immagine finale vale da sola tutta la poesia: unisce il gesto concreto del gattino al sentimento di affetto che esso suscita nel poeta e nel lettore.
Cristina Campo (Bologna 1923 – Roma 1977) fu una traduttrice eccelsa. Poetessa solitaria, riservata, “di natura anacoretica”, coltivava il culto per i mistici, come l’inglese del ‘600 John Donne e lo spagnolo Juan de la Cruz. Fu amica e sodale di Mario Luzi, Elémire Zolla, Roberto Bazlen. Questa lirica è la traduzione di una poesia dello scrittore tedesco Eduard Frederich Morike (1804 – 1875); concentrata e criptica, consta di 4 endecasillabi e 5 settenari, metricamente perfetti, in assenza di rime. La parola chiave, primavera, apre e chiude. Notevoli: Scioglie il suo nastro azzurro (il cielo); rigano di presagi; trasognate viole chiedono di sbocciare; un tocco d’arpa, chissà dove! L’ultimo verso ripete il titolo. Commento con una doppia citazione: “Poesia è l’arte di caricare ogni parola del suo massimo significato” (Ezra Pound) e “che ogni parola abbia un sapore massimo” (Simone Weil).