Mi sono trovato quasi per caso alla presentazione di questo libro e senza aspettiva alcuna ne ho iniziato la lettura durante un viaggio treno.
L’ho amato da subito. La scrittice mi ha parlato direttamente, a tratti musicalmente, come se i personaggi del libro appartenessero alla mia vita. Dafne, Diego, Simone, questi alcuni dei personaggi, li riconosco in me, tra amici e conoscenti. Una scrittura intima e un messaggio autorevole: l’importanza della comunicazione e della condivisione, il peso della solitudine in alcune situazione.
La morte che si intreccia alla vita come una spirale per arrivare all’amore per la vita.
Consiglio questo libro a chiunque voglia farsi un bel viaggio introspettivo o voglia regalarlo a qualche persona cara.
Cerco nella commozione che ancora mi pervade il giusto ordine alle parole.
La giusta distanza, necessaria a raccontare questa storia che trascina in sé il peso ed il dolore della verità. Una verità che l’autrice ricerca in maniera lucida ma maniacale, trattenendo “il cuore accanto”: né troppo dentro a confondere, né troppo lontano a dimenticare.
Maria Grazia Calandrone, che è poeta (ed io questo non lo sapevo ma l’ho compreso leggendone la vibrante prosa), plana con leggerezza sul vissuto della madre naturale, Lucia, rivolgendo a Lei una perpetua carezza, che è conforto e perdono.
Non avendo di Lei alcun ricordo, la riporta a nuova vita.
Come nei libri di storia i grandi, così Lucia, prende forma e anima attraverso le parole di Maria Grazia.
“Rinascerai, Lucia, anche solo a parole. È tutto quello che posso.”
Maria Grazia ha bisogno che sua madre diventi reale, probabilmente per renderle il commiato che non le è stato concesso renderle. Ma soprattutto ha bisogno di spiegare a se stessa e al mondo chi era Lucia, cosa ha vissuto Lucia.
Ha bisogno di denunciarlo, che Lucia “ha ventinove anni, è innamorata, ha una figlia neonata. Se solo non trovasse davanti a sé solo strade chiuse, Lucia vivrebbe, forse ancora..”
Ma Lucia appartiene ad un tempo lontano, o almeno così ci piace immaginare. Ad un periodo di mezzo in cui l’emancipazione femminile sta affacciandosi lentamente al mondo, ma ancora non è presente tra le retrovie della gente. Figurarsi nelle piccole realtà contadine come quelle da cui Lucia proviene.
Lucia è per la famiglia una merce di scambio, un’occasione per un buon affare. Viene umiliata e vessata, non amata, ripudiata fino alla fine della sua vita.
Lucia è la vera vittima dell’abbandono. Di un disamore che non le dà alcuna chance di salvezza, che è puro egoismo e non opportunità. Lucia è sacrificata sull’altare di una cultura gretta, patriarcale e maschilista, in un paese – l’Italia – il cui diritto di famiglia viaggia ancora su due velocità, dove la discriminazione tra uomo e donna non fa ancora abbastanza rumore.
Lucia è vittima di violenza. Una violenza avallata e condivisa dal sistema culturale e valoriale del tempo. Una violenza di massa, dalla quale non riesce a fuggire, ovunque vada se la ritrova addosso.
Ma Lucia non si piega, piuttosto si spezza.
Lei vuole vivere, vuole tornare a brillare. Ci prova con tutte le sue forze. Ma alla fine ne vedremo dissolversi l’essenza e tutta la sua bellezza.
L’abbandono che Lucia subisce è del tutto diverso da quello che prepara e infine compie.
Questo Maria Grazia lo sa, la verità è nei fatti che analizza, ricostruisce, forse, ad un certo punto accarezza, che legge come un testamento postumo d’amore dei suoi genitori verso di Lei.
“L’amore di Lucia per me […] sta nel Dove non mi ha portata.”
Pagine che alternano il freddo registro della cronaca, ben incastonato nel contesto sociale, culturale economico e legislativo del tempo, a frangenti di elevata poesia.
Che non è mai autocommiserazione, ma balsamico perdono.
Un rimpianto misto amore.
È un testo altissimo, di cui ho detto forse troppo.
Non so per quale motivo, pur sapendo che lei si stimasse una gran cuoca, quando le chiesero quale fosse il suo piatto migliore, io mi inserii dicendo “bruciato di arrosto”. Qualcuno rise, era una semplice, innocente spiritosaggine, ma lei no; Licia si offese a tal punto che non mi guardò in faccia tutta la sera. Un piccolo incidente che minò il nostro amore; a nulla valsero le mie scuse e poi le preghiere. Ci lasciammo dopo un paio di mesi. Lei tenne la gatta le cui fusa ancora mi mancano ed oggi che freddamente ripenso a quanto accaduto, un particolare spicca nitido sul nebbioso bailamme dei ricordi.
Andavamo spesso in cima alla collina dove a fianco di un convento di frati, sopravviveva una specie di osteria dalla quale, seduti su un muretto, ammiravamo il mare e lì sorseggiavamo un bicchiere di vino dalmata del quale, chissà per quale strano motivo, l’oste ne era sempre provvisto. L’ultima volta Licia non bevette ma lasciò il vino libero di asciugarsi al sole e questo, ricordo bene, fu prima del mio bruciato di arrosto. Che intrigate sono le cose del mondo e che fesso sono stato a non capire che Licia mi aveva già lasciato.
Un giorno, un professore entrò nella sua classe e chiese ai suoi allievi di prepararsi per un test a sorpresa. Tutti seduti nei propri banchi aspettavano con ansia affinché l’esperimento avesse inizio.
Come faceva di solito, l’insegnante consegnò a ognuno di essi un foglio di carta poggiandolo con il testo rivolto verso il basso. Una volta completata la distribuzione, invitò gli studenti a girare il foglio.
Rimasero tutti stupiti nel vedere che non c’erano domande, soltanto un punto nero nella parte centrale del foglio bianco. Notando l’espressione di meraviglia nei loro occhi, il professore spiegò: “Desidero che voi descriviate ciò che vedete”. Pur se confusi, gli alunni cominciarono la prova “misteriosa”.
Terminato il tempo stabilito, il professore ritirò tutti i fogli e iniziò a leggere ciascuno degli scritti ad alta voce davanti agli studenti.
Tutti quanti, senza alcuna eccezione, in un modo o nell’altro, avevano definito il punto nero cercando di spiegarne la forma o la sua posizione centrale nel foglio. Dopo che tutti i compiti furono letti e in aula era sceso il silenzio, il professore cominciò a spiegare:
“Non ho alcuna intenzione di assegnare un voto per questo. Ho voluto soltanto darvi qualcosa su cui pensare. Come potete notare, nessuno di voi si è espresso sulla parte bianca del foglio, nonostante sia la più estesa. Tutti vi siete concentrati sul piccolo punto nero; la stessa cosa accade nella nostra vita. Noi ci ostiniamo a focalizzare solo il punto nero, che rappresenta un problema che ci infastidisce. Nonostante le macchie scure siano molto più piccole rispetto a tutto ciò che la vita ci dona, sono quelle che inquinano le nostre menti. Rivolgete il vostro sguardo lontano dai punti neri della vostra esistenza. Gioite delle benedizioni che in ogni momento la vita vi dona.”
Quando a Emile viene diagnosticata una forma precoce di Alzheimer è certo di una sola cosa: vuole vivere quel poco che gli resta scoprendo posti che non ha mai visto e che ha sempre voluto visitare. Gli occorre solo un compagno di viaggio, non facile da trovare viste le sue condizioni fisiche di cui ha dettagliatamente scritto nell’annuncio. Ma quando una ragazza di nome Joanne risponde, rendendosi disponibile a partire subito, lui non può credere ai suoi occhi.
Inizia così, a bordo di un camper, il viaggio di Emile e Joanne: un viaggio emozionante, dove nulla è prevedibile, che porterà i due protagonisti a confrontarsi con il loro passato, ad affrontare le loro paure e a scoprire, attraverso la conoscenza reciproca, una parte di sé a loro sconosciuta.
Questo romanzo tocca davvero note profonde.
Sono stata travolta dal coraggio di Emile di vivere questo momento della sua vita lontano dai suoi cari e mi sono commossa alla fine del libro per la scelta di Joanne.
Un merito particolare, a mio parere, va anche a uno dei personaggi secondari: Myrtille, una vecchietta che mi è rimasta nel cuore per la sua ingenuità (mi ha fatto davvero sorridere) e la sua bontà d’animo.
Il libro è scritto molto bene e si legge velocemente.
Il tema dell’autodeterminazione terapeutica è preponderante, ma non è il solo. È un libro che parla anche di perdita, di elaborazione del lutto e di rinascita ed infine, non per importanza, di amore.
Per chi ha voglia di leggere pubblico uno stralcio di
“A QUEL TEMPO”.
Un racconto ambientato nella Paternò degli anni sessanta.
3
Ricordi…
La memoria delle piccole cose del nostro passato, e la rivisitazione della vita vissuta, forse, più dello scritto, resta impressa nella mente di tutti noi.
Voglio dire che, se cerchiamo di capire chi siamo e dove siamo diretti, non possiamo dimenticarci chi eravamo, e allora, come se salissi su un’ipotetica macchina del tempo, voglio ripercorrere a ritroso le impronte dei miei passi, e come d’incanto mi appare l’immagine della “putia” di mia madre, per tutti la “putia della signora Angelina”.
Come ho già detto non era un vero e proprio negozio, ma semplicemente una grande stanza che faceva angolo fra Via Circonvallazione e Via Fratelli Bandiera e che mia madre, improvvisandosi commerciante, aveva adibito a negozio.
La parete che costeggiava la via Circonvallazione era fornita da un’ampia finestra che era stata adibita a vetrina d’esposizione, mentre l’ingresso era sull’altra via. Non so, a dire il vero, se mia madre avesse una regolare licenza di vendita. Sicuramente non l’aveva da subito ma poiché gli affari inizialmente andavano bene, penso che col tempo si sia messa in regola.
È verso la fine degli anni ’50 che sorge il negozio, sulle ali dell’entusiasmo di tanti altri piccoli negozi di venditori e artigiani che sorgevano come funghi, lungo la via principale.
Si sa, si era in un periodo tutto sommato di crescita economica, anche se non paragonabile a quella dei paesi del nord Italia.
I negozi erano tutti molto piccoli. In genere erano le stanze che si affacciavano sulla via e i più fortunati avevano addirittura un piccolo retro come magazzino.
Ancora risuonano nelle mie orecchie i rumori dei lavori degli artigiani e sento i mille odori caratteristici di ogni negozio.
Dopo il negozio di mia madre, dalla stessa parte della strada, c’era la bottega del “suddunaru”.
Quest’uomo era un vero artista nella lavorazione del cuoio. Era un uomo magro e minuto con uno strano timbro di voce, nel senso che era molto acuto, quasi stridulo e alla fine di ogni frase sembrava quasi che risucchiasse l’aria che gli era uscita dalla gola. Il viso aveva la forma di un’incudine, il naso era stretto e molto pronunciato, e la testa era coperta da una rada peluria che con un grande sforzo di fantasia si poteva definire capelli. Era conosciuto come “Saru u schettu”, nel senso che non si era mai sposato. La sua vita trascorreva fra la bottega e i vari maneggi, dove consegnava di persona i suoi capolavori.
Dicevano che era anche un abile cavallerizzo e che mai, a memoria d’uomo, si era vista una persona abile come lui nel domare i cavalli, anche i più irrequieti. Forse per questo io immaginavo che non si fosse mai sposato, o forse come alcuni dicevano, che a lui le donne non piacevano. Non lo so se fosse vero, ma so che non lo avevo mai visto parlare con una donna.
La sua arte spaziava dalle selle borchiate alle cinture per gli uomini fino anche alle museruole per cani.
Appese sulla porta del negozio facevano mostra, in bella vista, molte sue creazioni. I suoi “capolavori”, come amava definirli.
C’era un pezzo speciale che io adocchiavo sempre e che desideravo fosse mio. Un sogno irrealizzabile: una frusta fatta in budello di maiale molto flessibile che quando il sellaio la faceva roteare sembrava fischiasse nel lacerare l’aria.
Dalla parte opposta della strada c’era invece il calzolaio. Lungo il marciapiede che costeggiava il suo negozio, sopra un improvvisato banchetto, erano esposte un’infinità di forme di legno di scarpe.
Dal suo negozio usciva un odore che a me piaceva molto, era un misto di colla e cuoio.
Il calzolaio era un omone grosso e alto, aveva un paio di baffi che, dicevano, non ce n’erano di simili in tutta la Sicilia. Li aveva sempre ben curati e le estremità erano rivolte in alto, sembrava che fossero incollate, tanto stavano ritte e ferme.
Ricordo di averlo sempre visto con addosso un grembiule di cuoio scuro e unto, scalfito da un’infinità di piccoli tagli. Era sempre seduto fuori, sul marciapiede, su uno sgangherato sgabello. Batteva continuamente pezzi di cuoio con un martello dalla testa piatta e larga, distesi su una spessa lastra di ferro. Aveva le mani tozze e callose, sempre screpolate.
Con un lungo ago infilato di uno spesso filo di spago riparava scarpe, stivali, e anche borse di tutti i tipi.
Era il calzolaio del quartiere, nel senso che oltre a riparare le scarpe, le produceva artigianalmente su misura. Anche noi eravamo suoi clienti.
Quello che mi appassionava delle sue scarpe, erano dei ferretti a mezza luna che aggiungeva alle estremità delle suole e che facevano, quando si camminava su un pavimento di sasso o comunque duro, un rumore metallico, e ad ogni passo che si faceva, sembrava di ballare il tip-tap.
Un altro negozio che faceva molti affari era quello del vasaio. Anche lui esponeva la sua mercanzia lungo il marciapiede e la mia paura era, quando passavo accanto ai “bummuli”, di toccarne qualcuno e farlo cadere mandandolo in mille pezzi. Per quel motivo, cercavo di passare dalla parte opposta del marciapiede.
Il negozio, a dire il vero, era gestito da una donna, la signora Filomena che era la moglie del vasaio. Era una donna molto alta e prosperosa, aveva il fascino e la grazia di una leonessa. Gli occhi erano grandi e neri come il buio della notte. Aveva una chioma di capelli abbondanti e neri che erano mossi e ondulati con la scriminatura un poco di lato. Quello che colpiva in quella donna era il contrasto fra il nero dei capelli e il candore della pelle. La vita era molto sottile e il seno esuberante.
Sì, era indubbiamente una bella donna, tutti gli uomini del quartiere, me compreso, ne erano segretamente innamorati.
Purtroppo il marito vasaio, anche lui molto alto e prestante, era gelosissimo. Per questo motivo, pochissimi uomini rivolgevano la parola a sua moglie, per evitare equivoci e liti inutili.
Quelle poche volte che parlava con qualche uomo, i discorsi vertevano solo sulla vendita dei vasi esposti.
Calogero, questo era il nome del vasaio, lavorando nel retrobottega, sembrava assente, ma ai suoi occhi nulla sfuggiva.
Non vendevano solo vasi di terracotta, ma anche attrezzi di vario tipo, scatole metalliche, piatti, portavasi di ferro e lampade a petrolio.
A proposito delle lampade a petrolio, erano oggetti che mi piacevano particolarmente, non chiedetemi perché, non lo so, forse perché nel mio subconscio erano i custodi della fiamma e del calore.
Ricordo che la parte superiore della lampada, era fatta da una specie di tubo di vetro, dove la parte bassa s’innestava in una molla metallica e la parte alta finiva con una greca merlata.
Per controllare la resistenza del vetro, ogni acquirente usava battere con le dita la parte esterna del vetro, e secondo il rumore, si riusciva a capire se il vetro fosse integro o incrinato. Ancora nelle mie orecchie risuona il tintinnio del vetro al battere delle dita.
La bottega del carrettiere era quella che creava più frastuono, confusione e disordine, nel senso che il continuo via vai di carretti impediva una serena pace, così come potrebbe essere ai giorni nostri il disturbo che ci arreca il traffico automobilistico. C’è da dire che era anche quella che dava movimento a tutta la via.
Con i suoi attrezzi e macchinari costruiva carretti variopinti e anche sponde e pianali per i letti.
A quel tempo erano pochi i letti fatti di reti e molle, e i materassi erano riempiti di paglia e crine. Solo nelle case dei ricchi si usavano materassi riempiti di lana.
Era anche un continuo battere sui cerchioni delle ruote e sulle sponde dei carri. A completare l’opera ci si metteva anche il lavoro di sistemazione delle botti per il vino, e dunque anche sui cerchi delle botti era un continuo martellare.
Un altro bottegaio era il tappezziere, il quale era specializzato nel rinnovare le sedie di rafia, divani e poltrone.
Era anche una specie di sarto e a lui le donne portavano i cappotti da rivoltare finché c’era stoffa a sufficienza. Insomma non si buttava mai nulla.
All’occorrenza funzionava anche da tintoria e coloro che avevano un lutto da “portare” per tanto tempo, si rivolgevano a lui affinché “rinnovasse di nero” il loro guardaroba.
Un artigiano che non aveva fissa dimora era l’arrotino, che con il suo carretto passava di tanto in tanto per la mia via. Allora capitava che le donne, in massa, uscissero da casa, chi per portargli qualche ombrello da riparare, chi qualche coltello da molare e chi qualche pentola ammaccata e bucata da rimettere a nuovo.
In genere sostava per una giornata intera e verso il suo carretto era un continuo via vai di donne che gli portavano qualcosa da riparare, non prima di aver fatto una lunga ed estenuante trattativa sul compenso da corrispondere.
Non mancavano i negozi prettamente maschili, come il salone da barba, dove si regalavano mini calendari profumati, con rappresentate donne seminude che a sfogliarli avevano un non so che di pornografico e vagamente peccaminoso.
Come il circolo, dove gli uomini bevevano vino e disputavano qualche partita a carte, e che era sicuramente il locale dove si urlava di più.
Non poteva mancare poi il tabaccaio in cui si vendevano tabacchi, accendini, cerini, valori bollati. Insomma diciamo che la Via Circonvallazione era una strada piena di vita.
Il negozio di mia madre, per quei tempi, era sicuramente il più attrezzato e anche quello fornito delle più svariate mercanzie. In una vetrina dietro il bancone facevano bella mostra bianche bottiglie di latte con tappo di sigillo di sicurezza, con tassativo vuoto a rendere.
Cosa eccezionale per quei tempi, il negozio di mia madre era anche fornito di un grande e rumorosissimo banco frigo, dove all’interno erano ordinatamente stipati formaggi, salumi, prosciutti, salami, uova, ricotta fresca messa in contenitori di cesti fatti di frasca e coperti da foglie di fico, e tutto quello che necessitava di essere conservato al fresco.
In una grande vetrata sotto il bancone di formica, di un tenue color celestino con riflessi verdi, con le portine di vetro che si aprivano a scorrimento una sull’altra, erano in esposizione grosse forme di pane, la “vastedda”. A dire il vero, di pane se ne vendeva ben poco per via del fatto che non esisteva, a quei tempi, casa che non avesse il proprio forno.
Adesso che ci penso, il pane che maggiormente mia madre vendeva, era il famoso pane industriale, la “mafalda”, che era un bastone di pane con sopra spruzzati dei semi di sesamo, buonissimo da mangiare caldo e con la mortadella. Credetemi sulla parola, non esiste paragone in quanto a sazietà e prelibatezza, con le merendine industriali dei giorni nostri: pane e mortadella vince sicuramente dieci a zero. C’era anche uno scaffale con tanti contenitori di vari tipi di pasta e riso. Tutto da vendere rigorosamente sfuso.
Il reparto pasticceria non era altro che un alto scaffale con molti ripiani che arrivava a sfiorare il soffitto. Era il reparto preferito dai miei fratellini che, avendo scoperto il sistema per aprirlo, non facevano altro che accomodarsi direttamente all’interno per fare razzia di dolci.
I vasi di vetro pieni di confetti e leccornie varie, erano i primi a essere svuotati, poi era il turno delle rotelle di liquerizia e delle caramelle, quelle con tante sfumature di colori, erano le più attraenti. Se ne mettevano in bocca tre o quattro per volta. Si comportavano come potrebbe agire una volpe in un pollaio: facevano una strage.
Quando mia madre se ne accorgeva, erano urla e strilli per tutta la casa contro mia sorella maggiore, perché diceva mia madre, che non poteva fare tutto lei e il compito di curare i fratellini era suo.
Lo scatolame, come tonno, pelati, detersivi, era ammassato in un angolo. Per quanto riguarda il caffè, una rarità, era chiuso a chiave in una vetrinetta a parte, le cui chiavi erano di esclusiva gestione di mia madre, mentre il caffè d’orzo era contenuto in un recipiente metallico in bella vista sopra il bancone.
Ad ogni modo, nonostante l’offerta fosse varia e abbondante, non si poteva neanche lontanamente paragonare a quella dei moderni supermercati, ma tutto quello che si vendeva era indubbiamente privo di conservanti e additivi e sicuramente più genuino. A quei tempi c’era meno offerta ma molta più qualità.
Il negozio era sempre invaso da un misto di odori di salumi, dolci, detersivi e il tutto si mischiava in un unico aroma che invadeva chiunque entrasse.
L’odore delle cassate di mandorle e di pistacchio si mischiava a quello forte e pungente del “piacentino”. Purtroppole parole non bastano per descrivere la sinfonia di odori e sapori che invadevano l’aria del negozio.
Il negozio era anche un punto d’incontro fra le massaie del quartiere, le quali, con la scusa di fare la spesa si riunivano a spettegolare e a comunicare gli ultimi aggiornamenti avvenuti nel circondario.
Diciamo che era una specie di giornale radio locale dove le casalinghe raccontavano le ultime notizie, con il tacito accordo, di mantenere il segreto professionale sul nome della “giornalista” di turno. Una specie di tutela della riservatezza, anche se tutti sapevano tutto di tutti.
Fuori, sulla porta del negozio, non c’era un cartello che indicasse l’orario di apertura e neanche quello del giorno di chiusura settimanale. Si entrava e usciva in qualsiasi momento. Mia madre apriva la mattina quando si alzava e chiudeva poco prima di andare a dormire. Ecco questo era l’orario del negozio.
Una porta con un vetro smerigliato divideva il locale negozio dall’abitazione privata, per cui tutta la casa era avvolta dal profumo, mentre altre volte era il negozio a essere avvolto dagli odori, buoni per altro, che provenivano dalla cucina. In alto, appesi al soffitto del negozio, facevano mostra una serie di carte moschicida, che quando erano sature di prede, mia madre sostituiva.
Ormai con i moderni centri commerciali tutto questo è sicuramente sparito per sempre.
Buon compleanno all’artista francese Francoise Gilot che oggi compie 101 anni!!!
In questo libro intenso, non facile, Françoise Gilot , la quarta donna importante per Picasso dopo Ol’ga, Marie-Thérèse e Dora Maar, descrive le enormi difficoltà incontrate durante la relazione con Pablo, il quale, in nome di se stesso e forte del mito che lo avvolge sacrifica i rapporti personali rinnegando amori e amicizie.
La seconda stagione di #ViadeiMattiNumero0 è stata, se possibile, ancora più incredibile della prima. Siamo emozionati nel ringraziare tutte le persone che hanno reso possibile questo meraviglioso viaggio e tutto il pubblico che ci ha avvolti in un abbraccio pieno di luce e calore.
Grazie ai nostri autori, al carissimo e immancabile Fosco D’Amelio, a Rossella Rizzi, Federico Bàccomo, Duccio Battistrada e Lorenzo Scoles. Grazie a Riccardo Geminiani e Francesco Scrofani Cancellieri che hanno collaborato ai testi con grande cura.
Grazie al nostro prezioso ufficio stampa Zebaki, Pamela Maffioli e Giada Giordano, insieme a Diana Lapiccirella. Grazie al nostro fantastico agente Beppe Caschetto.
Grazie a tutta la #Rai, in special modo a Rosanna Pastore, Felice Cappa, Luisa Pistacchio, Eliana Mercieri, Michela Valeri Di Blasi, Simona Gubellini che hanno seguito da vicino il nostro progetto.
Grazie alla fantastica squadra di Ballandi a partire da Mario Paloschi e Claudio Montefusco.
Grazie a Silvia Ceccarelli e Claudia D’Amico per l’organizzazione impeccabile e sorridente, grazie al produttore esecutivo Luca Catalano.
Grazie al nostro grande regista Alessandro Tresa e all’aiuto-regista Giorgia Randolfi, sempre pronta a commuoversi.
Grazie ad Antonio Scappatura per la grande maestria nella fotografia e alla scenografa Federica Luciani che ha curato la nostra casa ideale.
Grazie al nostro imprescindibile Roberto Lioli che ha curato il suono.
Grazie alla nostra stylist Claudia Scutti, all’assistente Elena Giordani, a Valentina Sguera al trucco e a Elisa Zamparelli al parrucco per essersi presi cura di noi con grande professionalità ed allegria straripante.
Grazie ad Azzurra Primavera e Alessandro Bacchiorri per le bellissime foto di scena.
Grazie a Mariagrazia Cavallo che cura i nostri canali social e a Gianluca Martone che ci ha seguiti sui social di Ballandi.
Grazie alla coordinatrice di post produzione Gioia Bernucci, alla coordinatrice di produzione Marta Di Modica, con Silvia Lamia, Luigi Nistricò e l’ispettore di produzione Federico Rossi.
Grazie agli operatori di ripresa Giulio Belviso, Alessandro Carucci, Luciano Indiveri, Lorenzo Lattanzi, Fabio Palma, Antonio Tresa, Francesco Trisi, Cesare Vernetti. Grazie alla squadra tecnica Alfonso Feliziani (capotecnico), Stefano del Vecchio e Matteo Andolina (fonici di sala), Mauro Buccitti e Mauro Piermattei (accordatori), Enrico Ceccarelli (mixer luci), Alice Della Ragione (segretaria di edizione), Fabrizio Della Pelle (macchinista), Vincenzo Fiorini (elettricista), Hector S.Serratos Aguilar (elettricista) e al gobbista Gabriele Natili per la grande pazienza, simpatia e professionalità. Grazie alla squadra di montaggio Claudio Giannuli, Alessandro Lacialamella, Alessandro Smarrelli, Vincenzo Tagliatela, Alfredo Angelo Orlandi, Maria Laura Zaccagni, Francesco Tosoni (mix audio), Arturo Murante e Edwin Guzzo (grafiche).
L’assemblea pubblica del 7 Dicembre ore 21 avrà l’obiettivo di creare un momento di confronto, di spiegazione e approfondimento: ci avviciniamo sempre di più alla possibilità concreta di uno screening sulla popolazione, diventa fondamentale sapere cosa chiedere alle istituzioni coinvolte!
Il medico ambientalista Lelio Morricone ci accompagnerà in quelle che potrebbero essere le fasi dello studio epidemiologico e di come dovrebbe funzionare correttamente un protocollo per i medici di base in un luogo colpito da un disastro ambientale.
Michela Piccoli, portavoce delle Mamme no Pfas , un esempio vincente della lotta ambientale in Veneto, ci racconterà quanto è importante rivendicare il diritto alla salute per tutti, nessuno escluso.
In collegamento da Taranto, il Comitato Cittadini e Lavoratori Liberi e Pensanti: un contributo estremamente prezioso da chi, ormai da anni, lotta per la vita, per il lavoro e per la sopravvivenza del proprio territorio senza mai arrendersi.
Insieme a Viola Cereda e Claudio Lombardi, del Comitato Stop Solvay, la sera del 7 Dicembre costruiremo un altro pezzo della lotta che portiamo avanti ormai da due anni: non ci fermeremo finché non avremo la verità, finché non smetteremo di morire di lavoro e di inquinamento, finché la fabbrica non sarà chiusa e la Fraschetta bonificata.
Chi ancora non sa cosa sia il canicross e le sue discipline e vuole conoscere il fantastico organizzatore che è stato il babbo più bello d’Italia, oltre che il più bravo secondo me visto che ha cresciuto con amore la piccola bellissima Jennifer campionessa di canicross e favolosa ginnasta, ecco l’appuntamento che non dovete assolutamente perdere.
Domenica 11 dicembre il Ranch di Pluto ASD, con la collaborazione di Canicross Romagna ed il patrocinio del Comune di Cervia, organizza la prima edizione della Romagna canicross Race
Troverete tutte le informazioni necessarie nella locandina allegata.
Si ringrazia canicross Italia per l’aiuto dato.
𝗟𝗮 𝗺𝗮𝗻𝗶𝗳𝗲𝘀𝘁𝗮𝘇𝗶𝗼𝗻𝗲 𝘀𝗶 𝘀𝘃𝗼𝗹𝗴𝗲𝗿𝗮̀ 𝗮 𝗠𝗶𝗹𝗮𝗻𝗼 𝗠𝗮𝗿𝗶𝘁𝘁𝗶𝗺𝗮 all’interno di una bellissima pineta dove correre respirando a pieni polmoni aria pura al profumo di pini e aria salmastra di mare.
Dopo le gare competitive ci sarà la non competitiva happy dog, sia per chi vuole conoscere la disciplina prima di competere nelle gare agonistiche e arrivare ben preparato, sia per chi ha solamente voglia di passare una bellissima giornata in compagnia del proprio “quattrozampeeunacoda” e di tanti amici amanti del mondo della cinofilia in un incantevole sito ricco di natura e aria pura, facendo movimento che fa bene sia al fisico che alla mente.
Ci sarà anche la gara riservata ai bambini, sempre all’interno della pineta, lungo un percorso di un chilometro. Vi assicuro che veder correre i bimbi, molto spesso accompagnati dai loro genitori, è un’esperienza davvero entusiasmante, quindi se avete figli che vogliono stringere un solido legame col proprio cane e affacciarsi ad una sana vita sportiva questa è un’occasione per venire a conoscerci.
Sia il sabato sera che la domenica dopo le competizioni all’interno dell’hotel Adria a Milano Marittima che ha una meravigliosa vista mare, per chi volesse, si potrà sia cenare che pranzare e, si sa, che in Romagna si mangia benissimo!
Madrid, 25 ott. – E’ tornato alla luce il violino che Frida Kahlo (1907-1954) regalò a Lev Trockij (1879-1940), esiliato nella sua casa di Coyoacán tra il 1937 e il 1939, dipinto a mano e dedicato dall’artista messicana al leader comunista rivoluzionario. Dato l’interesse per tutto ciò che ha a che fare con la Kahlo, icona culturale venerata , lo strumento musicale sarà offerto prossimamente all’asta con una stima intorno ai 50 milioni di euro.
“E così, come in una meravigliosa eresia, saranno le onnipotenti case d’aste Sotheby’s e Christie’s a dare un prezzo all’amore comunista di Frida e Trockij che si concluse con l’assassinio del politico russo per mano dello spagnolo Ramón Mercader”, scrive il quotidiano spagnolo “El Mundo” dando la notizia della scoperta del violino in Spagna. Nel novembre 2021 l’autoritratto “Diego e io” di Khalo è stato venduto a New York per 34 milioni di dollari, battendo ogni record per un artista latinoamericano. E presto il violino potrebbe polverizzare il precedente primato raggiunto dalla Kahlo.
Nessuno sa in quante mani sia passato il violino prima di arrivare all’attuale proprietario che, sospettando che si trattasse di un pezzo autentico, ha contattato Javier Gallego, di Gallego y Sánchez Rollón Asociados di Madrid, esperto di arte e perizie, per certificare che sia i disegni che la dedica erano opera di Frida Kahlo. Sullo strumento musicale si legge: “Un uomo senza patria è come un vecchio violino senza corde, spero che molto presto ritrovi la sua patria e la sua casa, il suo ideale e la sua lotta, e torni a essere il direttore d’orchestra della storia mondiale. Cordiali saluti, Frida Kahlo”. Sul retro, l’artista ha disegnato due farfalle e, all’interno di un sole nero, il simbolo della falce e martello.Romanticismo e politica si fondono nelle sue pennellate donchisciottesche e nel suo tratto ingenuo. Gallego è stato incaricato di coordinare il team di esperti che ha analizzato l’autenticità del violino. Guillermo Pastor Vázquez, presidente dell’Associazione nazionale degli esperti di calligrafia, è stato incaricato di verificare la calligrafia e la firma. Una società spagnola ha confermato, attraverso lo studio dei pigmenti, il violino fu dipinto negli anni ’30 e che alcuni dei colori utilizzati erano in uso solo in America Centrale.
Per quasi due anni, Trotsky fu ospite dei Rivera – Kahlo, nella famosa “casa azul”, anch’essi appartenenti al partito comunista. Fu in quella frangente di tempo, che Kahlo è Trotsky furono amanti, dicono una vendetta della Kahlo, dopo scoperta l’avventura amorosa di Rivera con la sorella minore di Frida.
Dal web
Il risultato, quindi, è stato conclusivo: Frida Kahlo dipinse il violino e quindi lo regalò anche al suo amante. Ora che l’attribuzione alla Kahlo è stata confermata, il violino è un pezzo super ghiotto per le grandi case d’asta, dove probabilmente finirà.
León Trotsky
Breve biografia:
Lev Davidovich Bronstein, nato a Yanovka, Ucrania, 1877. Rivoluzionario russo. Nato in una famiglia ebrea da genitori propietari di terre che lavoravano come agricoltori. Studia Diritto alla università di Odessa. Già da giovane, partecipò nella opposizione clandestina contro il regime autocrata dei Zar, organizando una Lega Operaia del sud della Rusia. Muore assassinato a Coyoacán, México, 1940.
E siamo qui; ancora. Il sole immutato offre il suo candore più vitale come se no fossimo ad un passo di Natale, come se no fossimo in guerra.
Il mare increspato, le sue onde che colpiscono la pietra, una, due, infinitamente è sempre lui, semplicemente cambia colore secondo le sue emozioni.
Qualche telo copre la fine sabbia e uno ch'alto umano si fa abbraciare dall'acqua.
La maggior parte delle piante, con un verde e brillante fogliame, qualcuna di loro ingiallita per terra e un timido fiore ancora nasce trionfalmente.
Per quanto mi riguarda, m'affascina il lago, mi rassicura; quando giovane, sfidavo le onde in mare aperto con la gagliardia propria della spensieratezza, addirittura pazzia osserei.
Adesso mi cula il calmo e sereno, quando le gocce l'ho stuzzicano la sua pelle si'arriccia e i pesci vanno a rifoccillarsi.
E io osservo. Pensieri; tanti.
Vincitori e vinti, siamo qua, nessuno va molto lontano. Su oppure giù...
Lo so, è di giorni fa, pubblico solo oggi perché sono stata travolta da tante situazioni da risolvere e non postergabili. Quella giornata era bellissima e quel sole fu l’ultimo; preludio d’un autunno che arrivò proprio il giorno successivo.
Si fa mattino, le ultime gocce scorrono Pulito cielo, lavato, azzurro I fusti coperti a punto d'esplodere da tant'acqua, che un tiepido sole non prosciuga mai.
I peccatori oggi stanno meglio La salvezza da la su è arrivata purificando possibili vizi, traviamenti; la schiena è meno pesante, si cammina adagio.
Passi leggeri si mescolano nel frastuono del brulicante paessaggio.
“Frida è acida e tenera, dura come l’acciaio e delicata e fine come l’ala d’una farfalla. Adorabile come un bel e profondo sorriso e crudele come l’amarezza della vita”
“Frida es ácida y tierna, dura como el acero y delicada y fina como el ala de una mariposa. Adorable como una bella y profunda sonrisa y cruel como la amargura de la vida.”
La mia risata vola alta Più in alto dei cappelli cardinalizi E della speranza. I miei seni sorridono quando brilla il sole Malgrado i miei abiti malgrado mio marito Felice nell’essere così sporca Perché gli avvoltoi mi amano E anche Dio.
Sabato 26 novembre si svolgerà la terza edizione del Mercatino della Solidarietà che da quest’anno abbiamo voluto intitolare a Pietro Baldi, recentemente scomparso. Fondatore e storico Presidente della Aic, Pietro Baldi si è sempre impegnato nel sociale, nello studio e promozione del borgo di Sale.
Le associazioni che parteciperanno, oltre ovviamente al Comitato Amici di S. Maria e S. Siro, sono le seguenti: Aic, Aido, Animal’s Angels, Avis, Ass. Franca Cassola Pasquali, Ass. Pandora, Ass. Exago, Ass prom. soc. Ethos Ensemble Orchestra, Ass. Iris, Croce Rossa del BVS, Cong. Piccole Figlie del Sacro Cuore di Gesù, Suore Sacramentine ipovedenti, Fiab Tortona sez. Malabrocca, FAI del. Tortona, Lions Water for Life, la Zampa sul Pioppo, Progetto Ambiente Tortona, Residenza Lisino Tortona, San Carlo Onlus Castelnuovo S., Tennis Sale per Ospedale Gaslini di Genova. Sarà pesente la Pro Loco di Sale con le caldarrosto, il Chicco e il Bar del Mercato offriranno la cioccolata calda ai bambini.
Vi aspettiamo numerosi per un pomeriggio di festa e solidarietà.
Piazza Santa Maria e Via Roma dalle 15.00 alle 19.00
San Gimignano è il paese delle torri. Le vedrete spuntare all’orizzonte, tra le antiche case in pietra del borgo toscano.
Un tempo le torri erano settantadue. Oggi se ne contano quattordici. Non perdete tempo a fare i calcoli. Godetevi il panorama.
Considerate il simbolo dell’architettura medievale in Toscana, nel 1990 sono state dichiarate Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco. Mentre le guardi, rifletti su quanto sia antica la storia di San Gimignano: dalle invasioni degli Ostrogoti di Totila, alla peste del 1348, alla sottomissione a Firenze. La mente ritorna al Medioevo, il “periodo buio” studiato a scuola che ha lasciato un segno indelebile nell’architettura dei palazzi.
Artisti famosi, come Domenico Ghirlandaio, Sebastiano Mainardi, Piero del Pollaiolo, hanno vissuto e lavorato a San Gimignano e adornato le chiese con le loro opere, che possiamo ammirare ancora oggi. I monumenti ai caduti ricordano ai visitatori che le due guerre mondiali hanno interessato anche questa parte della Toscana, tra le colline della provincia di Siena.
Buonanotte a tutti voi, cari amici, da San Gimignano!!
San Gimignano is the city of towers. You will see them appear on the horizon, among the ancient stone houses of the Tuscan village.
There were once seventy-two towers. Today there are fourteen of them. Don’t waste time calculating. Enjoy the view.
Considered the symbol of medieval architecture in Tuscany, in 1990 they were declared a World Heritage Site by Unesco. Looking at them, you reflect on how ancient the history of San Gimignano is: from the invasions of the Ostrogoths of Totila, to the plague of 1348, to its submission to Florence. The mind goes back to the Middle Ages, the “dark period” studied in school which left an indelible mark on the architecture of the buildings.
Famous artists, such as Domenico Ghirlandaio, Sebastiano Mainardi, Piero del Pollaiolo, lived and worked in San Gimignano and adorned the churches with their works, which we can still admire today. The war memorials remind visitors that the two world wars also affected this part of Tuscany, in the hills of the province of Siena.
Goodnight to all of you, dear friends, from San Gimignano!!
“E allora mi sono guardato negli occhi. Raramente ci si guarda, con se stessi, negli occhi, e pare che in certi casi questo valga per un esercizio estremo. Dicono che, immergendosi allo specchio nei propri occhi – con attenzione cruciale e al tempo stesso con abbandono – si arrivi a distinguere finalmente in fondo alla pupilla l’ultimo Altro, anzi l’unico e vero Se stesso, il centro di ogni esistenza e della nostra, insomma quel punto che avrebbe nome Dio.
Invece, nello stagno acquoso dei miei occhi, io non ho scorto altro che la piccola ombra diluita (quasi naufraga) di quel solito niño tardivo che vegeta segregato dentro di me. Sempre il medesimo, con la sua domanda d’amore ormai scaduta e inservibile, ma ostinata fino all’indecenza. “
Vernazza, in provincia di La Spezia, è uno di quei pittoreschi borghi che compongono le Cinque Terre. Sorge arroccato alle pendici di uno sperone roccioso, ed è rivolto romanticamente verso il mare. Vernazza è stata dichiarata nel 1997 Patrimonio Mondiale dell’Umanità dall’UNESCO, insieme alle altre quattro località che costituiscono il territorio delle Cinque Terre: Monterosso al Mare, Corniglia, Manarola e Rio Maggiore, tutte ben collegate tra di loro e che è possibile visitare nel giro di una settimana in modo molto semplice.
A Vernazza ce n’è da ammirare, dal porticciolo naturale, alle case-torre colorate, dai panorami visibili lungo i sentieri verticali, alle piazzette di paese che i cittadini chiamano “u cantu de musse”, ossia l’angolo delle chiacchiere.
Vernazza, in the province of La Spezia, is one of those picturesque villages that make up the Cinque Terre. It stands perched on the slopes of a rocky outcrop, and is romantically facing the sea. Vernazza was declared a World Heritage Site by UNESCO in 1997, together with the other four towns that make up the Cinque Terre area: Monterosso al Mare, Corniglia, Manarola and Rio Maggiore, all well connected to each other and can be visited in a week very simple way.
In Vernazza there is much to admire, from the natural harbour, to the colorful tower-houses, from the panoramas visible along the vertical paths, to the small squares that the citizens call “u cantu de musse”, that is, the corner for chatting.
Molti mi scrivono chiedendomi – come mai il tuo libro non si trova in libreria? Il motivo è semplice… Le librerie fanno posto alle grandi case editrici… Noi figli di un Dio minore possiamo essere ordinati ma non abbiamo spazio a scaffale. Stasera sono entrata in una libreria Giunti e guardavo le decine di libri esposti sotto i riflettori. Libri da toccare da sfogliare da odorare.
Il mio non c’era. Non ci sarà mai. Non è possibile cambiare questo meccanismo che ospita grandi autori e lascia al buio altri autori magari meritevoli di un po’ di luce. Ovviamente non è colpa delle librerie… È una legge di mercato. L’autore famoso vende mentre il piccolo autore è un’incognita totale. Non è nessuno … E poco e porta se scrive con il cuore. Il cuore per tanti è solo un muscolo che batte.
La paura della morte tormenta l’essere umano da sempre, è una minaccia che accomuna tutti, i poveri e i ricchi, gli eroi e la gente comune, i dotti e gli ignoranti, i religiosi e gli atei. La Morte e il Diavolo sono sempre in agguato, come vediamo in questa incisione di Albrecht Dürer, ma il Cavaliere, ritto sul suo bellissimo destriero, avanza fiero e guarda davanti a sé, incurante dei mostruosi compagni di viaggio.
Il Cavaliere, teso dentro la sua armatura, ignora il richiamo dell’essere alle sue spalle, il Diavolo: sembra uno scherzo della natura perché ha il muso caprino, le corna ricurve da ariete sotto le orecchie e una serie di malformazioni che lo fanno assomigliare più a un incubo che a una creatura reale. Il Diavolo segue il Cavaliere a piedi portando un’alabarda.
Al suo fianco vediamo un altro essere mostruoso, ha l’aspetto di un teschio a cui sono rimasti gli occhi e due denti canini, ha una barba lunga e dai suoi capelli escono minacciosi serpenti che si avvolgono intorno alla corona. È la Morte, la regina del tempo, che porta in mano una clessidra, dove la sabbia è quasi tutta scesa, e sopra un orologio segna le cinque. Cavalca un ronzino smagrito col collo rivolto verso terra, le orecchie abbassate e annuncia il suo arrivo con un campanello appeso al collo. La Morte sembra deridere il Cavaliere, cercando di attrarre la sua attenzione con un grido, ma il Cavaliere la ignora e non si lascia scomporre dall’angoscia che i due esseri mostruosi cercano di insinuargli.
Il Cavaliere è impegnato in un lungo cammino, la sua meta è la fortificazione che si vede in lontananza, sorretto da un’indomabile fede religiosa, simboleggiata dal cane, senza la quale probabilmente sarebbe già caduto da cavallo.
Il Cavaliere di Dürer rappresenta l’integrità, la fiducia e la costanza che bisogna avere quando dobbiamo affrontare le difficoltà della vita: la Morte e il Diavolo sono sempre in agguato, ma l’unica possibilità di salvezza è ignorarli. Loro resteranno comunque al nostro fianco, ma dobbiamo reagire con la stessa freddezza del Cavaliere, come traspare dalla sua posa fiera, e continuare il viaggio con grande compostezza.
Albrecht Dürer, Il Cavaliere, La Morte e il Diavolo, incisione, 1513, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe degli Uffizi
Un librone, io ho letto sul kindle dovrebbe comunque trattarsi di circa 900 pg sul cartaceo, uscito per la prima volta nel 1950 senza fortuna è stato rieditato negli anni ‘70 del secolo scorso e, in Italia, credo per la prima volta nel 2021. Si tratta di una saga familiare che si svolge lungo circa cinquant’anni dal 1890 al 1940 all’interno della comunità ebraica tedesca e berlinese in particolare.
Non è però un libro “ebraico” nello stile, ad esempio, dei fratelli Singer qui gli ebrei sono, o credono di essere, ben assimilati nella società borghese prima dell’Impero e poi della Repubblica e si comportano come tutti gli altri industriali, notabili, professionisti del loro tempo.
Naturalmente per noi lettori che conosciamo la storia che verrà tutto i loro movimenti, gli amori, le fabbriche i successi e gli insuccessi ci appaiono inutili destinati ad essere inghiottiti dalla nube nera del nazismo.
L’autrice, giornalista ebrea tedesca fuggita in Inghilterra, ha scritto il libro praticamente in diretta negli stessi anni in cui si svolgono gli avvenimenti e questo se da una parte permette una intensa aderenza al reale dall’altra può essere stato un limite allo sviluppo della trama che risulta in qualche momento essere “spezzata”. Certamente un buon libro e un tema importante che forse poteva essere meglio seguito con una scrittura più fluida e magari cento o duecento pagine di meno comunque una lettura da consigliare
22 novembre 1220: Federico II diventa Imperatore del Sacro Romano Impero
Federico apparteneva alla nobile famiglia sveva degli Hohenstaufen. Discendeva per parte di madre dai normanni di Altavilla (Hauteville in francese) conquistatori di Sicilia e fondatori del Regno di Sicilia.
Conosciuto con gli appellativi stupor mundi (stupore del mondo) Federico II era dotato di una personalità poliedrica e affascinante che, fin dalla sua epoca, ha polarizzato l’attenzione degli storici e del popolo, producendo anche una lunga serie di miti e leggende popolari. Il carisma di Federico II è stato tale che all’indomani della sua morte, il figlio Manfredi, futuro re di Sicilia, in una lettera indirizzata al fratello Corrado IV citava tali parole: “Il sole del mondo si è addormentato, lui che brillava sui popoli, il sole dei giusti, l’asilo della pace”.
Il suo regno fu principalmente caratterizzato da una forte attività legislativa moralizzatrice e di innovazione artistica e culturale. Federico fu un apprezzabile letterato, convinto protettore di artisti e studiosi: la sua corte fu luogo di incontro fra le culture greca, latina, germanica, araba ed ebraica. Uomo straordinariamente colto ed energico, stabilì in Sicilia e nell’Italia meridionale una struttura politica molto somigliante a un moderno regno, governato centralmente e con un’amministrazione efficiente.
Federico II parlava sei lingue (latino, siciliano, tedesco, francese, greco e arabo) e giocò un ruolo importante nel promuovere le lettere attraverso la poesia della Scuola siciliana. La sua corte reale siciliana a Palermo, dal 1220 circa sino alla sua morte, vide uno dei primi utilizzi letterari di una lingua romanza (dopo l’esperienza provenzale) il siciliano. La poesia che veniva prodotta dalla Scuola siciliana ha avuto una notevole influenza sulla letteratura e su quella che sarebbe diventata la moderna lingua italiana. La scuola e la sua poesia furono salutate con entusiasmo da Dante e dai suoi contemporanei, e anticiparono di almeno un secolo l’uso dell’idioma toscano come lingua letteraria d’Italia