Ci sono fondamentalmente quattro modi di porsi nei confronti della vita: 1) accettare la sua assurdità e insensatezza, tirando avanti (come teorizza, ipersemplificando, Camus ne “Il mito di Sisifo”) 2) ricercare il senso della vita incessantemente. Ci sono stati illustri pensatori che ritenevano che una vita senza ricerca non è vera vita, avendo una concezione piuttosto elitaria dell’esistenza 3) dare noi un senso alla vita (come voleva H.Hesse) 4) non porsi il problema e tirare avanti per inerzia.
Molte persone vivono per inerzia senza pensare. Si lasciano trasportare dalla corrente. La vita per molti è una forza a cui non possono opporsi. Altri si lasciano dominare dalle catene indissolubili dei propri pensieri, delle abitudini, delle dipendenze psicologiche. La vita è difficile e opinabile. Tanto è vero che in Toscana è un’espressione popolare e sulla bocca di tutti “la vita è un casino”.
Frankl, il padre della logoterapia, chiedeva alle persone le ragioni per cui non si uccidevano. Molti psicologi chiedono ai loro pazienti le ragioni per cui vivono. Sono due cose diverse. Sono due facce della stessa medaglia. La sostanza però è la stessa. In realtà molto spesso si vive e si muore senza ragioni. Alla base di molte vite c’è l’irragionevolezza. Ci si uccide quando non ce la facciamo più, quando la nostra esistenza non è più tollerabile. Il problema non è trovare una ragione per vivere molto spesso: il problema è sopportare la nostra vita. Cesare Pavese scriveva che ognuno ha almeno una buona ragione per uccidersi. Ma la tollerabilità della nostra vita dipende dalla nostra neurochimica secondo molti esperti. Non siamo noi a decidere totalmente. Il nostro margine di libertà, il nostro range di pensiero e d’azione è molto ridotto, anche se per gli esistenzialisti ogni attimo è un bivio. Molto spesso comunque si vive perché si spera che le cose vadano in modo uguale a oggi o addirittura meglio. Molto spesso si vive perché Eros ha la meglio su Thanatos senza sapere esattamente il perché. Viviamo o ci uccidiamo senza tenere la contabilità dei pro e dei contro. Io vivo perché non muoio di fame per ora, perché sono grato a Dio di avere famiglia e salute, perché ho un amico vero, perché voglio bene ai miei familiari e loro contraccambiamo perché posso mangiare, perché posso leggere, perché posso guardare le donne che reputo belle, perché posso camminare, perché posso navigare su Internet, perché posso contemplare la natura, perché posso vedere un bel film, perché posso interagire con persone nuove sui social, perché ogni mattina posso scrivere un articolo o una considerazione in qualche blog culturale o in qualche testata online, perché posso gustarmi le albe e i tramonti, perché ho raggiunto un certo equilibrio interiore, perché riesco a stare bene con me e a tollerare le mie tare oltre a quelle altrui. Non sto a elencare invece le pecche e le cose negative della mia vita (ad esempio non ho uno stipendio, sono insoddisfatto sessualmente, è da 12 anni che non faccio una vacanza, etc etc). La mia vita comunque è vivibile. L’ambiente a breve termine è mediamente prevedibile. Ma ne sono davvero sicuro? Le incognite e le pessime novità sono sempre dietro l’angolo. Il senso della vita sfugge irreprensibile e si disperde in infiniti rivoli. Pensavi di averlo trovato una sera dopocena e invece ti accorgi di non essere approdato a niente. Ti accorgi di essere al punto di partenza. E se dovessi rispondere alla domanda di Frankl, ovvero “perché non ti uccidi?” rimarrei interdetto. C’è chi sostiene che il suicidio sia un atto vigliacco e chi pensa che per farlo ci voglia un coraggio immenso. Ma danno per scontato che decidiamo noi. In realtà siamo veramente noi a decidere, a scegliere? Qualcuno si uccide per vedere cosa c’è di là e se c’è qualcosa. C’è chi non si uccide, resiste, pur accarezzando l’idea, perché ha paura di andare all’inferno. Gesualdo Bufalino scriveva che i suicidi sono solo degli impazienti. Niente di meno e niente di più.