Ho lasciato il mio cuore in collina, tra le onde. In un punto imprecisato tra Montesilvano e Penne. Era estate, lo ricordo bene per via delle more. Ce n’erano a bizzeffe, i cespugli carichi da scoppiare. I suoi occhi, la mia dannazione. M’ha preso la mano. Non c’eravamo mai toccati prima. Non ci si crede, cosa fanno sei mesi di conversazioni fitte. Scintille. E quegli occhi che mi si puntavano addosso pungenti come spilli. Poi mi ha chiesto di chiudere i miei e di fidarmi. Era una perfetta sconosciuta, per quanto ne sapessi poteva anche puntarmi una pistola alla tempia e rapinarmi. Invece chiusi gli occhi e mi lasciai andare. E sentii la mia mano affondare in un luogo caldo e cedevole. Poi mi ordinò di aprirli. Vidi la mia mano affondare in una pentola.
Non ho mai capito cosa volesse dimostrarmi. Fu l’ultima volta che la vidi. Dio solo sa se mi manca. E’ andato tutto storto. E non abbiamo più parlato. Mi rimane solo l’odore della sua pelle, le immagini di noi due nudi nello specchio, davanti al letto, lei che era troppo veemente e mi costringeva ogni tanto a riposizionarmi, ehm, in parti riposizionabili.
La stessa terra ha nutrito le pietre che ho scalciato io, e che ha scalciato lei. Abbiamo vissuto quarant’anni nella stessa terra ma non c’eravamo mai incontrati. Almeno, non lo ricordavamo. Magari è successo chissà quante volte, a un concerto, o in piazza Salotto.
Sentivo scorrere nel suo sangue l’acqua del mio mare, nelle sue iridi i riflessi delle pietre adagiate sul letto del mio fiume.
Le nostre anime erano composte della stessa pasta, e quando si sono sfiorate, tutto è stato chiaro.
Ci sono queste stanze, un tempo ospitavano feste e balli straripanti di luce e suoni, ora sono chiuse, le finestre sprangate, i lampadari impolverati come tutti i mobili, coperti da lenzuola un tempo candide. Sono le stanze dei miei sentimenti, fantasmi che si nascondono sotto quelle lenzuola e che nessuno più guarderà.
Attraverso questa vita come fosse un viale nel mezzo di un sogno, senza autentica coscienza, senza autentica percezione, senza poter afferrare per davvero proprio un bel niente. Il tempo suona la sua melodia, nota dopo nota, io avanzo e non riesco a trattenere nulla, neppure le lacrime.
Eppure qualcosa rimane, lo sento quando guardo un fiore resistere alla perfidia del sole senza ombra e del catrame in cui è incastrato, quando sento un bambino che chiama “mamma” o “papà”, quando vedo qualcuno fermo, senza cellulare, immerso in un vecchio e caro libro, quando porto due vestiti alla colletta e devo far la fila per donarli. Ma, sopra ogni cosa, sento che c’è qualcosa nella poesia, un filo invisibile che unisce certe anime, una lieve, lievissima pendenza del piano inclinato su cui l’umanità, da sempre, scorre, che spinge tutti, volenti o nolenti, verso il bello, verso l’alto, verso la pace, verso la gentilezza, verso la solidarietà, verso il buono.
La poesia, per me, serve a questo: spingerci verso il giusto verso.
Guardo Marco Bellavia piangere e mi vien voglia di stringerlo, ma più d’ogni altra cosa mi vien voglia di chiedere ai suoi “compagni” della casa cosa hanno al posto del cuore, un bancomat, un contatore di like, un frigorifero ammuffito, cosa? Come si può rimanere non solo indifferenti, ma persino infastiditi, dal dolore umano? Sarà forse la paura di chi è diverso, dell’emigrante aggrappato a una barca di cui non sappiamo né il passato né il presente e, quindi, non riusciamo a capire quale potrà essere il suo futuro?
Vedo un mare di ipocrisia intorno a questa disgrazia umana, Signorini che si dice indignato, fa finta di porgere le sue umili scuse ma intanto continua a guadagnare milioni sulla pelle della povera gente, e manda in onda istericamente e ancora e ancora quelle “pagine bruttissime di televisione” di cui è uno dei principali responsabili nonché beneficiario, perché una cosa è sicura, l’audience non è certo calata, così come il suo conto in banca. Se si fosse dimesso immediatamente, forse, poteva ai miei occhi salvare la faccia, ma evidentemente sono altre parti del corpo che intende salvare.
Probabilmente sarò di parte, attraverso un periodo della mia vita complicato e non ho voglia di vedere né parlare con nessuno, ma guardando le lacrime di quel ragazzo spiattellate su ogni social, in TV, in un oceano infernale di replay, mi sono sentito tremare i polsi e ho provato anche rabbia. Com’è possibile che vengano mandate in onda oscenità del genere? Quanto è ipocrita chi condanna le immagini che trasmette non solo in diretta, ma anche in replay una infinità di volte, mettendoci anche sotto la canzoncina strappalacrime per fare più audience e più soldi?
Io intanto penso a cosa stia passando lui, Marco, adesso: rivedersi in onda mille volte come se quelle lacrime non potessero fermarsi mai, che effetto può mai avere?
Che speranza hai di uscire dal buio e tornare a guardare il mondo con occhi sereni, se tutti ti puntano addosso fasci violenti di una luce odiosamente pruriginosa?
Cosa siamo diventati? Dov’è finito il senso d’umanità che dovrebbe distinguerci non dico dagli animali, che da tempo han dimostrato di esser più saggi, ma almeno dalle cose inanimate?
Scrivere poesia è insito nel DNA, è un esigenza fisica, direi fisiologica.
Forse un difetto genetico, dipende da quale prospettiva la si vede. Non si guarisce, l’unica medicina è scrivere, perché se non lo fai hai una sorta di malessere. Devi far uscire le emozioni, le devi mettere su carta altrimenti ti senti una coppa di champagne troppo piena e le bollicine versate,senza controllo, ovunque. Le emozioni frizzano, sono dorate, luminose, e non possiamo disperderle senza senso. I poeti dormono con un note vicino, annotano sogni, parole, sensazioni che in ogni momento possono emergere.Non possiamo perderle, sono un tesoro prezioso, sono il legame tra noi e il cielo. Noi adoperiamo le parole come creta, le mescoliamo,le shekeriamo, le coloriamo. Noi siamo la matematica delle parole infinite, siamo gli alfabeti degli universi, siamo le gemme e le foglie degli alberi. Noi siamo il vento delle parole e il seme della Terra. Spargiamo vita e creiamo magia. Siamo magia e incantesimi
Siamo i pittori e gli scultori delle parole. Ogni emozione in noi è sublimata, intensificata, siamo lo tsunami delle emozioni, siamo l’uragano delle sensazioni siamo le slavine dei sentimenti. Tutto ciò che proviamo è estremamente intensificato noi non siamo capaci di amare, ma solo amare troppo, noi amiamo più dell’amore, abbiamo gioie più della gioia e ahimè, anche dolore più del dolore. Chi non è pronto a starci accanto ha paura, ma chi decide di farlo sarà amato più dell’amore stesso. Noi non conosciamo le vie di mezzo o amiamo o odiamo, ed è tutto così intenso, così intenso da far male. Abbiamo una linea sottile di finito e infinito che può condurci alla morte ma che ci fa essere incredibili nell’anima.Noi siamo il pentagramma delle parole, la chiave di violino, le nostre emozioni note che diventano melodia.Eh si! Cantano di meraviglia, di stupore, di bellezza! Tutti noi sappiamo che siamo sempre pieni di stupore e di incanto, i nostri occhi sanno vedere in miliardi di modi diversi. Vedere nel profondo di ogni essere, coglierne l’essenza, il significato. Tutto ciò che proviamo è sublimato, noi viviamo in estasi con le parole, le emozioni per noi sono tattili, concrete, le tocchiamo ed è una sensazione che ti stende, perché noi le parole le cantiamo insieme a Dio, agli angeli.Iris G. DM
La scrittrice Liliana Marchesi si presenta ai lettori di Alessandria today
di Pier Carlo Lava
Alessandria today è lieta di presentare ai lettori la biografia della scrittrice Liliana Marchesi, della quale in seguito verrà pubblicata anche un intervista in esclusiva per il blog a cura del poeta Marcello Comitini.
Biografia:
LILIANA MARCHESI è nata nel 1983. Vive a Caravaggio, in provincia di Bergamo, insieme al marito e ai suoi due figli. Dopo aver mosso i primi passi nel genere del PARANORMAL ROMANCE, ha trovato fissa dimora nel regno della DISTOPIA. E proprio per questo ha fondato IL PRIMO SITO ITALIANO dedicato al genere Distopico: www.leggeredistopico.com Curatrice di diverse rubriche ‘Distopiche’ sul web, fra cui Letture Divergenti per il sito ThrillerNord.
Liliana è rappresentata dall’Agenzia Letteraria Progetto Scrittura.
OPERE PUBBLICATE: •2012 – “Harmattan” Paranormal Romance autoconclusivo ambientato in una splendida quanto misteriosa Africa;
•2013 – “Trilogia del Peccato” (serie composta da tre volumi) Audace rivisitazione contemporanea del mito del Peccato Originale;
•2014 – “Lacrime di Cera” (ripubblicato nel 2018 dalla DZ Edizioni) Distopico autoconclusivo popolato da automi molto particolari;
•2015 – 2017 “Saga R.I.G.” (serie composta da tre volumi e uno spin-off) Un’epopea Distopica, tradotta anche in inglese e in spagnolo, che trae ispirazione dalla credenza secondo la quale l’uomo conosce e utilizza soltanto una minima parte delle reali capacità del proprio cervello.
VII Premio Internazionale d’Arte LA COULEUR D’UN POEME Evento che promuove la poesia contemporanea sia in lingua italiana, straniera che in vernacolo, si prefigge di divulgare la bellezza della natura e dell’universo in 17 sillabe, quella che gli antichi maestri giapponesi chiamarono haiku, nonché l’estro creativo espresso attraverso la fotografia e la pittura. La commissione di giuria si compone di esponenti del panorama letterario artistico nazionale e internazionale ( https://la-couleur-d-un-poeme.webnode.it/la-giuria-del-premio/)
(ANSA) – NAPOLI, 08 OTT – “Abbiamo avuto una partecipazione straordinaria del mondo religioso, sindacale, delle università, delle scuole e del volontariato”. Lo ha detto il presidente della Giunta regionale della Campania, Vincenzo De Luca, al termine della riunione tenuta oggi a palazzo Santa Lucia per fissare definitivamente la data dell’iniziativa per la pace promossa dalla Regione. La manifestazione si terrà il prossimo 28 ottobre in piazza Matteotti a Napoli anche se, nel caso di una massiccia adesione, si potrà scegliere una piazza maggiormente capiente. De Luca ed il sindaco di Napoli, Gaetano Manfredi, oggi hanno incontrato i rappresentanti di numerose associazioni e movimenti, oltre che dei sindacati “e mi pare che vi sia una grande voglia di partecipare ed una grande convinzione rispetto all’obiettivo che siamo dati ovvero la proposta di un cessate il fuoco in Ucraina. Non entreremo nel merito di valutazioni più politiche: vogliamo che la manifestazione sia aperta a tutte le forze di buona volontà. Senza rendercene conto noi ci stiamo avviando verso una guerra nucleare. Non è possibile e dobbiamo reagire per costruire la pace“.
NAPOLI
NON C’È PACE
Non cercarmi dove non sono non guardare troppo in alto. Il cielo è abitato dalle nuvole che spinte dal vento vanno lontano, in luoghi sconosciuti, tra lingue diverse, diversi i colori e identiche paure. Io resto qui piccola cosa ferma, inerme. Resto qui, attaccata a questa terra, dura, dove si sparge ancora il sangue degli innocenti. Mi bagno delle lacrime silenziose di un dolore che vibra come onda. Non ci sarà pace nei cuori feriti se ancora si eleva il grido di morte. Non ci sarà pace se ancora si arma la mano di Caino.
Imma Paradiso
*Non c’è futuro in una guerra nucleare, non c’è sopravvivenza, nessuna bandiera sventolerebbe vittoriosa…☮️
Ada Negri (Lodi, 3 febbraio 1870 – Milano, 11 gennaio 1945) è stata una poetessa, scrittrice e insegnante italiana. È ricordata anche per essere stata la prima e unica donna a essere ammessa all’Accademia d’Italia. Ada Negri nacque a Lodi il 3 febbraio 1870. Le sue origini erano umili: suo padre Giuseppe era vetturino e sua madre, Vittoria Cornalba, tessitrice; L’insegnante di italiano, alla scuola di Lodi, nota il talento di Ada e la aiuta; dopo il diploma viene chiamata a insegnare a Motta Visconti, a una classe di ragazzi “sporchi e selvaggi” che tuttavia le piacciono tanto sono vitali rumorosi e spontanei. La ragazza segue il consiglio delle amiche e invia le poesie che scrive di notte al lume di candela al “Fanfulla”, il quotidiano di Lodi e all’ “Illustrazione popolare”. Sonia Albini, giornalista del “Corriere della Sera”, è colpita dalla scrittura irruente e dolorosa della giovane maestra di Motta Visconti e le dedica un articolo. Ada ha poco più di venti anni e diventa un caso letterario. La raccolta di poesie Fatalità pubblicata dall’editore Treves nel 1892 viene accolta con entusiasmo e le spiana la strada della fama e della sicurezza economica: con decreto ministeriale Ada Negri viene nominata docente alla scuola Gaetana Agnesi di Milano, dove si trasferisce con la mamma Vittoria. Ottiene nel 1931 il Premio Mussolini per la carriera e nel 1940 (prima e unica donna) il titolo di Accademica d’Italia, dopo che già negli anni venti aveva sfiorato il Nobel (assegnato invece nel 1926 a Grazia Deledda). Muore nel 1945.
NAPOLI – ada negri – ADA NEGRI
È un canto di vita quello di Ada Negri, grande poetessa italiana del Novecento purtroppo spesso dimenticata. Nata da una famiglia modesta, Ada è stata la poetessa della classe operaia. Lavorava come insegnante, la definirono la “maestra proletaria” perché fu una delle prime a denunciare attraverso la scrittura la miseria contadina. Al principio la sua fu quindi una poesia di denuncia, che le valse il soprannome de “La Vergine rossa” in riferimento al comunismo. Il tratto distintivo della sua poetica è dato tuttavia dalla semplicità della parola che diventa strumento di riflessione. I testi di Ada Negri non hanno bisogno di essere spiegati, sono evocativi e perfettamente compiuti in se stessi. Pasqua, lirica contenuta nella raccolta Poesie e prose è una poesia che si presta perfettamente alla celebrazione del periodo pasquale. Parla di primavera e di rinascita, la resurrezione di Cristo allieta il cuore dell’uomo, così come la primavera fa fiorire i prati e sbocciare i fiori dopo un lungo inverno. La poesia di Ada Negri racchiude un’esortazione all’amore fraterno e un invito alla pace. Tutti devono amarsi, indipendentemente dalle differenze di classe e ceto sociale: i letterati devono amare i soldati, così come i contadini e gli operai.
Pasqua di Ada Negri
Io canto la canzon di primavera, andando come libera gitana, in patria terra ed in terra lontana, con ciuffi d’erba ne la treccia nera.
E con un ramo di mandorlo in fiore a le finestre batto e dico: Aprite, Cristo è risorto e germinan le vite nove e ritorna con l’April l’amore!
Amatevi fra voi, pei dolci e belli sogni ch’oggi fioriscon su la terra, uomini della penna e de la guerra uomini de le vanghe e dei martelli.
Schiudete i cuori: in essi erompa intera di questo dì l’eterna giovinezza; io passo e canto che vita è bellezza, passa e canta con me la primavera.
*Una maestra col talento di poetessa e i suoi componimenti spesso si leggono ancora nei libri di lettura delle classi elementari. Uno stile semplice ma che trasmette messaggi chiari e forti. Versi colmi di gioia, amore e pace universale fra gli uomini questo dovrebbe essere il significato della Pasqua.
Piove piano sull’erba alpina e l’acqua scende in rivoli lungo il pendio come lunghe dita flessuose e si aduna e ingrossa e sospira e penetra da un crepaccio nel corpo della montagna. E’ un sifone alpino e piano l’acqua sale, si riempie e tracima da un buco nero e non è più sospiro ma urlo o rombo e tutto travolge l’onda d’orgasmo e scende, e scava, e spalanca valli e corre veloce come un fiume forse è gioia, forse collera e continua, anche dopo la pioggia finchè il sifone scende e l’acqua scorre lenta come un fiume. Resta una gioia nell’aria e un fiume che sospira.
Riproposta.. ha già 6 anni e va a scuola di batteria.
Si abbandona tra le tue braccia così piccola che ci sta tutta. Tiene gli occhi socchiusi e guarda dritto nei tuoi. Poi, all’ improvviso, ti infila un dito in un occhio.. ma dolcemente, con delicatezza femminile, e solo per afferrare la bimba che vede riflessa. Il fratellino si sarebbe fatto meno scrupoli. Poi gli occhi si fanno sempre più pesanti, quasi una fessura ma da lì sbircia sempre se ci sei. Se proprio si chiudono li riapre subito, per controllare che sei ancora lì. E allora glielo dici che sì, ci sei e non la dai alla befana come in quella ninna nanna e glielo ripeti come fosse un’ altra ninna nanna finchè il sonno vince. Allora la puoi accomodare, e coprirla bene che stia al caldo, metterle una musica, così che impari ad amarla e un bacio in fronte, così che impari ad essere amata.
Mi sono svegliato troppo presto stamattina così che non c’è annuncio del nuovo giorno in cielo solo buio, e ombre dei lampioni sulle case che continuano a non muoversi e altre ancora, che continuano a non esserci l’aria però è fresca e invita a respirarla ma io continuo a fumare guardando il cielo e penso che è inutile tornare a dormire e non so nemmeno che ore sono, che non ho orologio e il telefono è scarico per dimenticanza caduto sotto al divano. Così sto qui, al balcone, e la fantasia è il lampione acceso che disegna le ombre ai muri che continuano a non muoversi e a non esserci nemmeno un po’ di vento che muova gli alberi e le vesti della figura accesa dal lampione. Forse non mi aspettava così presto ma in verità non so nemmeno se è troppo tardi solo sto qui, e aspetto il sole se verrà qualcosa dovrà pur venire fosse anche un lampo di luce e poi ancora il buio e nel lampo vederla passeggiare qui di sotto e salutarmi con la mano e poi sparire. Che faccia luce però è certo, come il suo passeggiare no anzi si vedrà bene quanto non c’è e continua a non esserci almeno nella forma che conoscevo da ragazzo fissata in qualche foto in bianco e nero. Però qui è così calmo, che anche le stelle sorridono dovrebbe restare così per sempre ma già passa la prima auto che mi separa dal Sogno.
C’ è qualcosa nella nebbia dei mattini di questi giorni d’inverno nell’ umidità che condensa e scende in goccioline rigando il parabrezza mentre il sole che nasce imbianca sullo sfondo. Qualcosa che ti invoglia a spegnere il motore procedere ascoltando il rotolio delle gomme l’ aria che fischia come il vento tra gli alberi, e a osservarli gli alberi appaiono a uno a uno dallo sfondo bianco. Stai in ascolto e senti qualcosa battere nel petto ma non sai se è il cuore che si fa anima o l’ anima che si fa cuore. Intanto sei lì, in auto e anche fuori tra gli alberi. E gli alberi ti vedono apparire dallo sfondo bianco a motore spento, in silenzioso elettrico a uno a uno ti vedono apparire, per poi sparire nel bianco.
C’è un luogo, lungo il Lambro dove l’ acqua accelera la sua corsa scendendo rapide artificiali prende forza e velocità per alimentare la ruota dell’ antico mulino in disuso. L’ acqua spumeggia di bianco mescolandosi all’ aria si insinua in ogni passaggio corrode le pale della ruota che ormai non gira più. Se ti fermi lì, se stai a guardare, dopo un po’ ti trovi a pensare come lei. Ma quando esce dalla strettoia tutto s’ acquieta l’acqua riprende la sua calma, puoi seguire il corso del fiume con lei dalla ciclabile a lato, pedalando senza fretta, e dopo un po’ ti trovi a pensare come lei.
C’è foschia oggi, che confonde le cime dei monti col cielo e il verde salendo cambia pian piano in grigionuvola c’è foschia che nasconde i profili dei monti ma sai com’erano e la memoria li ricostruisce sbagliandoli un po’. Dev’essere così che svaniscono anche i ricordi sfumano piano in un grigio che non so ma sai che c’erano e la memoria li ricostruisce sbagliandoli un po’. Dev’essere così che si scordano i posaceneri come quando vado in cucina per farmi un bel caffè e già che ci sono mi porto anche il posacenere da svuotare prendo la zuccheriera, metto lo zucchero nel bicchierino metto il bicchierino sotto la macchina del caffè e torno sul divano per bermelo in santa pace mi sdraio e mi ricordo del posacenere da andare a riprendere in cucina perchè mica si può bere il caffè senza una sigaretta. Questo quando va bene se no torno in sala con la zuccheriera poi torno in cucina a cercare il caffè, finito chissà come nell’armadietto al posto della zuccheriera e finalmente torno in sala per bermi il caffè se non dovessi tornare ancora in cucina a riprendermi il posacenere. Così svaniscono piano anche i visi, e i corpi e i nomi delle cose svaniscono piano verso un grigionuvola che non so e finchè sai che c’èrano li ricostruisci sbagliandoli un pò poi toccherà inventarli, credo. Spero solo che siano belli.
Questa chitarra rossa che vedi brillare ancora con un po’ di trucco sul palcoscenico della vita non è solo mia. Lei mostra i segni del tempo esattamente come me che non la so accarezzare come merita, le dita si fanno più lente e il plettro a volte sbaglia mira. E’ tardi ormai per migliorare le dita si faranno sempre più lente. Lei ha piccole fossette sul manico per lo sfregamento delle corde qualche sverniciatura qua e là e mostra il legno sottostante. Fosse mia potrei pensare di cambiarla magari con una uguale uguale nuova, fiammante, magari di quelle made in Japan. Ma ricordo un ragazzo che l’ ha trovata un giorno girando per Milano proprio nell’ ultimo negozio di musica visitato, vicino alla stazione prima di rinunciare e tornare a casa deluso. L’ ha pagata tutti i soldi avuti da mamma strappati al faticoso vivere quotidiano e quindi è sua. A me resta di accarezzarla come posso finchè posso.
Me lo aveva prestato mia zia, che lo aveva abbandonato per la mancanza di linearità.
Non mi è piaciuto per due motivi principali: uno che riguarda lo stile e l’altro la trama. Proverò a spiegare entrambi con dei riferimenti alla cultura pop.
1) Lo stile di Cannarsi nella scrittura.
Il romanzo è narrato in prima persona dalla protagonista senza nome e alcune descrizioni sia sensoriali che degli stati d’animo mi sono piaciute molto. Non solo davano colore ma erano vere, nel senso che una persona poteva davvero rispechiarsi in esperienze simili, e se tutto il resto del libro fosse stato scritto in quel modo sono certa che l’avrei adorato.
Il problema di questo punto, però, è che diverse frasi sembrano delle traduzioni di Gualtiero Cannarsi.
(Per chi non lo conoscesse, è un dialoghista e adattatore di film giapponesi che ci ha regalato “perle” come queste:
“Nessuna recalcitranza! Abbattete l’obiettivo a qualsiasi costo”
“Gli uomini della ditta Junker sono micragnosi”).
In sostanza abbiamo delle frasi che si perdono in barocchismi inutili, un lessico forzatamente aulico cacciato in bocca a una normale ragazza di provincia (non una cresciuta a pane e Dante Alighieri, per dire).
Qualche esempio:
“Sapeva trasformare ogni cosa in set, manipolava la sua vita come uno sfondo per blandire la desolazione”
“Per andare da Giuseppino, ha scelto dei fuseaux stampati lucidi, a squame di serpente, incollati alla pelle, ma i fiumi di depravazione che fa presagire alle tombe in realtà nascondono principalmente quelli di coca cola che beve” ?????
Della seconda metà della frase io non capisco sinceramente il significato. Voi?
E ancora: “Quando le vie sono evaporate di suoni perché tutti sono al mare”. Casomai “quando i suoni evaporavano dalle vie” perché se la via evapora vuol dire che cammini nel nulla. Comunque tutti questi arzigogoli per dire che c’è silenzio.
“L’acqua sembra fatta di coltelli tanto è dura e picchia sui vetri” Che vuol dire? Sta grandinando? Oppure sono solo dei goccioloni che cadono fitti? Boh!
2) Il gusto di “13 reasons why”
Se vi ricordate la serie Netflix sulle cassette della ragazzina vittima di bullismo, probabilmente saprete già di cosa sto parlando. A chi non l’ha vista la sconsiglio fortemente.
Sia nella prima stagione, e ancora di più in quelle successive, c’è un gusto a tratti malato per l’orrido, per il trauma, gli abusi e l’autolesionismo.
Anche le sequenze più truculente degli episodi non servono quasi mai per reali spunti di crescita per i personaggi: allungano solo la storia e aggiungono dramma inutile.
Stessa cosa accade in questo libro. Non c’è una reale storia, ogni capitolo è quasi una sequenza a sé stante in cui si scava sempre di più nelle disgrazie e nei traumi dei personaggi, senza mai cavarne fuori niente. Non c’è una direzione, mai un momento in cui la protagonista, o qualunque altro personaggio, provi concretamente a fare qualcosa per risolvere i suoi problemi interiori (e quindi anche quelli esteriori) e tutto scade in una disgustosa celebrazione del malessere.
Dunque la protagonista, e quindi anche il lettore, che cosa trae alla fine da questo libro? Un fico secco dato il finale!
Questa è la mia personalissima opinione. Se il libro vi è piaciuto sono contenta per voi, ma per me è un grandissimo NO.
La più famosa e antica tra le strade romane, detta anche Regina Viarum, la via Appia Antica nacque alla fine del IV secolo a.C. quando nel 312 fu censore Appio Claudio Cieco, lo stesso al quale si deve il primo acquedotto della città. Per la prima volta, una strada prende il nome dal suo costruttore, e non dalla funzione (via Salaria, “via del sale”) o dal luogo dove è diretta (Via Praenestina, Via Tiburtina, Via Nomentana) e fu realizzata puntando dritto alla meta, superando grosse difficoltà naturali con rilevanti opere di ingegneria.
Inizialmente la via comprendeva solo il tratto da Roma a Capua; più tardi fu prolungata fino a Benevento, poi al di là dell’Appennino, fino a Venosa e quindi a Taranto. Infine, prima del 191 a.C., fu condotta fino a Brindisi, dove due colonne, una delle quali ancora presente, indicavano il punto terminale della strada.
Il fondo stradale, nei tratti antichi che meglio sono giunti a noi, è denominato basolato, termine che prende il nome dalle antiche lastre pavimentali costituite da enormi blocchi di basalto vulcanico. La carreggiata consentiva il passaggio contemporaneo di due carri nel doppio senso di marcia ed era fiancheggiata da due marciapiedi in terra battuta delimitati da un cordolo di pietra (crepidine).
La strada, costeggiando il versante marittimo ed essendo arretrata rispetto al fronte di guerra, era più rapida e sicura della via Latina ed assunse ben presto una funzione militare e strategica. In prossimità dei centri abitati la strada era fiancheggiata da grandi ville e soprattutto da tombe e monumenti funerari di vario genere.
Con la caduta dell’Impero Romano la via venne abbandonata a se stessa e rimase a lungo inutilizzata. Per tutto il Medioevo assunse il ruolo di via di pellegrinaggio sia perché costeggiata dalle catacombe, sia perché, conducendo a Brindisi, i pellegrini si imbarcavano per la Terra Santa. Soltanto nel Rinascimento iniziò la sua lenta ripresa, grazie agli sforzi di numerosi archeologi ed appassionati che contribuirono, insieme agli interventi più recenti, a restituirci l’Appia Antica così come la conosciamo oggi.
A piedi o in bicicletta la via Appia Antica permette una passeggiata immersi nel verde, alla scoperta di monumenti funerari importanti, ville e catacombe. Ma partiamo dall’inizio. Dopo la costruzione delle Mura Aureliane, l’ingresso in città avveniva dalla Porta Appia, ora chiamata Porta San Sebastiano. Proprio nella Porta San Sebastiano, una delle più grandi e meglio conservate delle Mura Aureliane, ha sede il Museo delle Muracon un allestimento suddiviso in tre sezioni: antica, medievale e moderna. Nel museo, ad ingresso gratuito, si ripercorre la storia delle fortificazioni della città, nonché le vicende storiche e architettoniche delle Mura Aureliane. Dalla Porta San Sebastiano si estende per 3500 ettari il Parco Regionale dell’Appia Antica che comprende le prime 11 miglia della Regina Viarum, oltre alla Valle della Caffarella e all’area degli Acquedotti.
Prima di intraprendere il rettilineo dell’Appia, superato il fiume Amone è possibile fare una piccola deviazione sulla destra in via Ardeatina e visitare le Fosse Ardeatine; si tratta delle cave in cui fu perpetrato l’eccidio di 335 prigionieri, la sera del 24 marzo 1944, da parte delle truppe d’occupazione tedesche come rappresaglia per i 33 commilitoni caduti durante l’azione di guerra condotta dai partigiani a Via Rasella. Tra le 335 vittime, scelte a caso, c’erano diversi prigionieri politici, tradotti dal carcere di via Tasso, numerosi ebrei ed alcuni civili. Oggi il luogo è uno dei monumenti ai valori della Resistenza. All’entrata un gruppo di tre figure in travertino idealizzano quelle dei caduti. Una galleria si immette nell’antica cava di pozzolana e conduce al luogo dell’eccidio dove sorge il Sacrario.
Se invece si evita questa deviazione e si intraprende direttamente l’Appia, si incontrano al civico 110/126 le Catacombe di San Callisto, il nucleo cimiteriale più antico, e meglio conservato, della Via Appia. Poco più avanti al terzo miglio della Via Appia Antica, sul luogo dove secondo la tradizione furono temporaneamente custoditi, in tempo di persecuzioni, i corpi degli apostoli Pietro e Paolo, sorge la basilica di San Sebastiano, oggi dedicata a questo popolare – e assai rappresentato – santo narbonese ma in origine nota come basilica apostolorum. Da questo luogo, citato nelle fonti antiche come ad catacumbas (forse per la presenza di avvallamenti o fosse, kymbas in greco), deriverebbe per estensione anche il termine “catacomba”. Da una scala situata in quella che, prima della ristrutturazione seicentesca, era la navata destra della chiesa si può scendere al vasto complesso delle Catacombe di San Sebastiano.
Duecento metri circa dopo San Sebastiano, sulla sinistra si trovano i ruderi della Villa di Massenzio. Il complesso archeologico, che si estende tra il secondo e terzo miglio della via Appia Antica, è costituito da tre edifici principali: il palazzo, il circo ed il mausoleo dinastico, progettati in una inscindibile unità architettonica per celebrare l’Imperatore Massenzio, lo sfortunato avversario di Costantino il Grande nella battaglia di Ponte Milvio del 312 d.C. All’interno di un quadriportico allineato sulla via Appia Antica, si erge il mausoleo dinastico, noto anche come “Tomba di Romolo” dal giovane figlio dell’Imperatore che qui fu presumibilmente sepolto.
Subito dopo il complesso del circo di Massenzio e del Mausoleo di Romolo si erge uno dei monumenti funerari più importanti, il Mausoleo di Cecilia Metella. E’ formato da un imponente basamento quadrato su cui è posto un cilindro ricoperto da lastre di travertino, decorato nella parte superiore da un fregio di marmo con festoni e teste di bue. Sopra l’entrata si trova un’iscrizione con il nome della proprietaria del sepolcro, Cecilia Metella, figlia di Quinto Metello Cretico, il console che conquistò l’isola di Cretanel 67 a.C. Durante il Medioevo, la grande tomba divenne un importante punto di controllo della Via Appia, tanto che nel secolo XI fu inglobata nelle fortificazioni di un castello costruito dai Conti di Tuscolo. Nel 1299 Papa Bonifacio VIII fece trasformare il castello in una vera e propria cittadella fortificata circondata da un muro merlato con torri rettangolari, comprendente anche una chiesa dedicata a San Nicola.
Superato il Casale Torlonia (civico n. 240) la via corre libera e fiancheggiata da pini e cipressi con numerosi resti di tombe facilmente accessibili. Sulla sinistra, murati su una “quinta” ottocentesca di mattoni, i frammenti e l’epigrafe della tomba di Marco Servilio. Segue, dopo un tratto di basolato antico, il nucleo di un sepolcro a camera e la tomba dei figli del liberto Sesto Pompeo Giusto con la grande epigrafe in versi.
Proseguendo, sempre sul lato destro è possibile notare i ruderi ben conservati nella parte posteriore di un sepolcro a tempietto, rettangolare, con alto podio e scalinata e la tomba detta “del frontespizio”, ricostruita, appoggiata ad un alto nucleo in selce, in forma di edicola, con la copia del rilievo a quattro busti, della seconda metà del I secolo a. C. Proseguendo nella nostra passeggiata, dopo il casale medievale di Santa Maria Nova, s’innalza il grande rudere di un sepolcro a piramide.
Circa 100 metri più avanti, sulla destra, si trovano i cosiddetti Tumuli degli Orazi e dopo meno di 150 metri, sulla sinistra, si affaccia la Villa dei Quintili. Si tratta della più estesa villa suburbana di Roma, situata al V miglio della Via Appia, in un’area dove secondo la tradizione si svolse il combattimento tra gli Orazi e i Curiazi. La villa apparteneva ai due fratelli Sesto Quintilio Condiano e Sesto Quintilio Valerio Massimo, importanti personaggi del tempo di Antonino Pio e Marco Aurelio, consoli nel 151 d.C. L’attuale ingresso della villa si trova su Via Appia Nuova, dove è allestito un Antiquarium. Nel lato verso l’Appia Antica sono visibili i resti di un ninfeo monumentale, trasformato in castello in epoca medievale, e che costituiva l’ingresso originario della villa.
Altri resti evidenti proseguendo il percorso sono: una statua acefala, il più grande mausoleo della via Appia, detto Casal Rotondo, e sulla sinistra Torre Selce, costruita nel XII secolo sopra il nucleo di un mausoleo che doveva essere simile a quello di Cecilia Metella.
Da lontano, sulla sinistra, si scorgono le arcate dell’acquedotto che riforniva la Villa dei Quintili.(web)
Recensito migliaia di volte, quindi non porto nulla di nuovo se non sensazioni strettamente personali.
Ipnotico, non vorresti mai finire di leggerlo. Siamo un po’ tutti Giovanni Drogo, bloccati in un ufficio o in una fabbrica, davanti un televisore o a fianco della persona sbagliata, con un telefonino in mano pieno di luce e di nulla, fermi ad aspettare la fine consumando le ore e i giorni, gli anni e le stagioni bruciate nel forno famelico del tempo che passa.
Inesorabile, corre verso una fine incognita solo nelle modalità, peraltro sempre drammatiche. Così il finale del romanzo. Quando sembra arrivato il momento atteso da una vita, arriva l’infamia dell’impossibilità, l’ingiustizia rappresentata dai nuovi arrivati, la presa di coscienza della sconfitta e infine della resa. Sul volto un sorriso, forse non troppo amaro.
Mi piace quando scopro dei “tesori” nascosti nei romanzi. In questo caso “Le regole della casa del sidro” è il romanzo che Violette, la protagonista di “Cambiare l’ acqua ai fiori” di Valerie Perrin legge e rilegge in continuazione e da cui trae ispirazione. Io non lo avevo letto ed ho recuperato.
L’ ho trovato di una bellezza mozzafiato, uno dei più bei romanzi che abbia mai letto!
All’ inizio sembra noioso, scritto con un linguaggio troppo ricercato e particolareggiato, che ti fa soffermare più a lungo sulle pagine e si può essere tratti in inganno e abbandonare, ma superato questo ostacolo si capisce qual’è la vera difficoltà: è un romanzo scritto con un linguaggio poetico, una favola incantata da raccontare ai bambini, una poesia raccontata da un romanzo, a voi la scelta.
Il romanzo è ambientato nel Maine, negli anni trenta del 1900, e in particolare nell’ isolato paesino di St.Cloud, dove la ferrovia è l’unica via di collegamento tra il suo orfanotrofio e il resto del mondo. A St.Cloud infatti non ci si arriva per caso ma ci vanno solo quelle donne che devono sgravarsi di un figlio indesiderato e farne un orfano, oppure decidere di liberarsene con un aborto. A gestire l’ orfanotrofio è il dr. Larch, un ginecologo all’avanguardia che antepone sempre il bene di un orfano davanti a tutto ed è solo inseguendo questo fine che ha deciso di procurare aborti, anche se all’ epoca ancora illegali, a chi altrimenti se lo sarebbe procurato comunque in un altro modo mettendo a rischio la propria vita.
E poi c’è Homer Wells, nato a St.Cloud, rifiutato da quattro famiglie e che quindi sceglie di rimanere a St.Cloud, rendendosi utile e divenendo l’ allievo prediletto del dr.Larch, sebbene le sue idee sull’ aborto sono in opposizione a quelle del dottore.
Ma un giorno l’arrivo di una giovane coppia che ha bisogno di un aborto, Wally e Candy, smuove qualcosa in lui e decide di seguirli lasciando l’ orfanotrofio. Homer non conosce nulla del mondo fuori da St.Cloud e ogni nuova esperienza per lui è magica e incantata, come quella di imparare l’ arte della fruttificazione, la vita dei braccianti stagionali, l’amicizia, nuotare, guidare, amare.
Ma il dr. Larch che per Homer prova un amore quanto più simile possibile ad un padre, tesse una vita alternativa, un progetto ambizioso, dalla cui riuscita spera di poter ricondurre Homer a St. Cloud per continuare il suo lavoro dopo di lui.
Questo romanzo parla di molte tematiche sempre attuali: di aborto, di desiderio di paternità disgiunto dalla famiglia, di amicizia, di sogni, di violenza domestica, di disabilità.
È un romanzo che mi si è tatuato nel cuore!
E a chi pensa che averne visto l’adattamento cinematografico gli ha tolto il gusto di leggere il romanzo dico: leggete il libro perché due terzi del romanzo non sono trattati nel film, e sono i due terzi che fanno del romanzo una vera poesia!
Questo è il Parco delle Groane. La casa di una foresta dietro casa mia, antica di trecento anni. Mi piace andare a trovare gli alberi la mattina presto, prima di indossare il computer, che a volte è un abito di raso e a volte una camicia di forza. E mi piace farmi trovare dagli alberi, a ogni distanza uguale e diversa della terra dal sole, anch’io uguale e diversa.
Qui ho ambientato, in parte, “Quelle in cielo non erano stelle” immaginando che, in qualche modo, questa foresta camminasse accanto alla foresta di #Chernobyl. Poi ho immaginato che camminasse accanto alla foresta di Vincennes, intorno a Parigi, dove è probabile che avesse cavalcato #ChristinedePizan. Se, come dicono gli scienziati, tutte le foreste del pianeta fossero un’unica grande foresta che ci respira… Una foresta conscia e inconscia, passata e presente, che ci abita fuori intorno e dentro.
da una donna che quasi non conoscevi, ma che improvvisamente è entrata nella tua vita, donandoti la sua intimità più nascosta.
Una conoscenza virtuale, che ti ha fatto capire che la realtà ha tante sfaccettature che alle volte sembrano reali più di quello che viviamo.
Poche parole, unite a delle immagini,
istanti rubati, nel quale compare un nome, che ti sembra impossibile aver udito mentre lei lo pronunciava con le sue labbra e ti rendi conto che sei entrato nel suo cuore senza nemmeno accorgertene.
Istantanee che vanno a costruire un piccolo pezzo di una storia che non hanno cercato, ma che è stata sincera, tanto da farla sopravvivere, nonostante le incomprensioni e diversi modo di “sentire l’altro” in qualcosa che ha colpito entrambi, ma senza mai farsi male, tanto che a dispetto della lontananza,
C’era una volta, vicino a casa mia, un grande albero di Ippocastano. Si lamentava e gemeva tra le foglie, dicendo di essere solo soletto, intorno a lui non c’erano altri alberi, gli uomini avevano fabbricato case intorno, e avevano sprecato il prato che abbelliva la vista e faceva respirare aria di campagna.
Però la notte Yppo così si chiamava l’albero, veniva visitato da molti gatti di tutti i colori, che passavano la notte a miagolare e a rincorrersi tra i rami.
Era sempre affollato, ed era diventato il ritrovo dove miagolare con altri gatti.
C’era Nerino con il pelo nero e setoso. Lui voleva comandare a tutti, e nessuno doveva dire o fare senza il suo permesso.
C’era Bianchina una gatta tutta bianca con gli occhi azzurri che a detta di molti la rendevano deliziosamente affascinante, se li guardava a tutti con i suoi occhietti storti .
Poi c’era Minou grigio con baffi e pelo molto lunghi, aristocratico e distinto parigino .
E poi c’era Fuffy che non si fermava mai, sembrava una trottola, e faceva girare la testa a tutti.
La compagnia era grande, c’erano anche Giorgetto, Nanni e Niccolò tre siamesi dispettosi e fieri sempre pronti ad azzuffarsi, quando decidevano di divertirsi.
Però tutti erano amici per la pelle e spensierati passavano la notte, giocando a nascondino tra i rami di Yppo. E quando il mattino, il sole spuntava, incominciavano a salutarsi, stiracchiandosi, pronti a far ritorno a casa dai loro amici umani, e dandosi appuntamento per la sera.
Yppo incominciava a lamentarsi e a soffrire di solitudine, quando sopraggiunse un merlo innamorato col becco giallo e incominciò a cantare la sua canzone sulla più alta cima e tenne compagnia per tutto il giorno a Yppo con il suo canto.
E fu così che per Yppo non ci fu più un giorno che si sentì più solo. . .
Quella di Seneca è una tra le più complesse e suggestive figure che l’antichità classica ci abbia lasciato in eredità: una personalità poliedrica, con molti tratti che l’avvicinano al mondo moderno.
Seguace della dottrina stoica, Seneca s’impose un ideale di vita ascetica, rigorosa sul piano morale come nettamente emerge dai suoi numerosi scritti i quali però sono in aperto contrasto rispetto al ritratto che di lui forniscono le fonti storiche (Tacito, Svetonio e Cassio Dione).
Fu, come dicono le fonti storiche sopra richiamate, bersaglio di ingiuriosi e velenosi attacchi da parte di molti che gli rinfacciavano di amare, più di ogni altra cosa, il denaro e gli agi di una “dolce” vita.
Nel nobile discorso al Senato, riportato da Tacito(Annales, XIV, 53-54), Seneca prende atto delle accuse e ringrazia Nerone per le smisurate ricchezze elargitegli, ma, orgogliosamente, si dice pronto a restituirle: “Nec me in paupertatem detrudam, sed traditis quorum fulgore praestringor, quod temporis hortorum aut villarum curae seponitur, in animum revocabo”.
Traduzione: “Certo, non vorrò ridurmi in povertà, ma consegnate [quelle ricchezze] il cui splendore mi abbaglia, tornerò a dedicare allo spirito quel tempo prima riservato alla cura di ville e giardini” – Tacito, Annales, XIV, 53-54.
Quanto, poi, alle accuse di non corrispondenza tra le affermazioni della dottrina e gli atti della vita e di incoerenza tra le parole e i fatti, egli rispondeva:
“Aliter, inquis, “lòqueris, aliter vivis”.“Hoc, malignissima capita et optimo cuique inimicissima, Platoni obiectum est, obiectum Epicuro, obiectum Zenoni; omnes enim isti dicebant non quemadmodum ipsi viverent, sed quemadmodum esset ipsis vivendum. De virtute, non de me loquor; et, cum vitiis convicium facio, in primis meis facio: cum potuero, vivam quomodo oportet. Nec malignitas me ista multo veneno tincta deterrebit ab optimis; ne virus quidem istud […] me impediet, quo minus perseverem laudare vitam, non quam ago, sed quam agendam scio, quo minus virtutem adorem et ex intervallo ingenti reptabundus sequar”.
Traduzione: “Tu, dici, parli in un modo e vivi in un altro”; ma questa critica, o esseri maligni e nemici di chiunque è migliore, è stata rivolta a Platone, a Epicuro e a Zenone; costoro, infatti, non dicevano del modo come essi stessi vivessero, ma del modo come dovessero vivere. Io parlo della virtù, non di me;e quando lotto contro i vizi, lo faccio in primo luogo contro i miei: quando potrò farlo, vivrò come si deve. E non sarà certo questa malignità, intinta di molto veleno, a distrarmi dagli ottimi (propositi) ;e neppure questo vostro veleno […] mi impedirà di continuare a lodare non già la vita che conduco ma quella che so doversi condurre; e (non mi impedirà) tanto meno di adorare la virtù e di seguirla sia pure errabondo da una grande distanza” – Seneca, De vita beata, XVIII, 1-3 (La traduzione è mia).
C’è in queste nobili parole la volontà di mettere a nudo la propria anima, confessandone le debolezze e le contraddizioni. “C’è, come annota Guido De Ruggiero, una tensione spirituale a volte così dolorosa che il lettore non può appagarsi del giudizio negativo e sprezzante dei critici ed è portato ad intuire in quel contrasto […] un problema da risolvere, piuttosto che una soluzione già pronta”(Guido De Ruggiero, Angoscia di Seneca, sta in “La Rassegna d’Italia”, Gentile Editore, Milano, 1946).
Certo, evidenti sono in Seneca le contraddizioni, ma, a mio avviso, hanno torto quanti gli rimproverano una deplorevole incoerenza tra il dire e il fare, perché non tengono conto del fatto che Seneca non era soltanto filosofo e scrittore, ma uomo di Stato, soggetto per un certo tempo a tutte le esigenze e le convenienze della politica, spesso costretto a scendere a compromessi o a patti “machiavellici” e sicuramente portato più volte a consentire in cose da cui dissentiva la sua coscienza ma che riteneva necessarie ad un governo che tendesse ad essere “buono”.
In questa prospettiva, io credo, vanno inquadrate e valutate le contraddizioni di Seneca, i cui scritti però sono sempre il frutto di un’esperienza vissuta che va oltre il dato personale e si rivolgono non all’uomo singolo, ma all’umanità intera: che è poi l’insegnamento più fecondo che viene dalla dottrina stoica: quello di aiutare gli uomini a vivere bene, senza perdersi dietro fallaci illusioni e perseguendo l’unico bene, il bene supremo che risiede nella virtù, non nella ricerca del piacere.
Sono temi che avvicinano l’etica di Seneca alla morale cristiana; se non che in Seneca la soluzione dei problemi va ricercata nella sapienza umana piuttosto che in una salvezza che viene dall’alto dei cieli. Quanto alla ricchezza, egli sostiene che essa è uno strumento da usare con saggezza e liberalità, ovviamente per vivere al meglio, ma soprattutto per diffondere il bene ed aiutare i poveri e i deboli: un consiglio/un monito rivolto prima di tutto a se stesso, ma anche un invito ad essere generosi e rispettosi della vita umana, al di là di ogni possibile distinzione sociale.
Di qui, l’insegnamento rivoluzionario di Seneca, il quale fu il primo ad esprimere una ferma condanna contro l’istituto giuridico della schiavitù. Celebre, in tale ottica, il passo sugli schiavi: “Servi sunt: immo homines. Servi sunt: immo contubernales. Servi sunt: immo umiles amici. Servi sunt: immo conservi, si cogitaveris tantundem in utrosque licere fortunam” (Seneca,Epistula ad Lucilium, XLII).
Traduzione: “Sono schiavi: no, sono uomini. Sono schiavi: no, sono compagni di vita. Sono schiavi: no, sono umili amici. Sono schiavi: no, sono piuttosto compagni di schiavitù, se pensi che la fortuna sia concessa ad entrambi nella stessa misura (La traduzione è mia).
Come tutti i grandi uomini, Seneca ebbe le sue debolezze e i suoi vizi. Fu per tanti anni maestro e consigliere di Nerone e conobbe tutti gli intrighi, le perversioni e i crimini di una corte corrotta. Accusato di adulterio con Giulia Livilla (moglie di Marco Vinicio, figlia di Germanico e di Agrippina maggiore e una delle tre sorelle di Caligola), conobbe le amarezze dell’esilio in Corsica; esilio sopportato con grande dignità, come testimoniano le pagine della “Consolatio ad Helviam matrem” in cui egli si sforza di mostrare alla madre che, per il saggio, non esiste l’esilio né gli altri mali.
Mostrò sempre un animo distaccato di fronte alle velenose e ingiuriose accuse che i suoi nemici gli rivolsero nel corso della sua non breve attività politica. Ritiratosi a vita privata nel 62 d.C. e accusato di avere preso parte alla Congiura dei Pisoni per far fuori Nerone, fu costretto da quest’ultimo a darsi la morte (65 d.C.), da lui affrontata con un coraggio e con una serenità che ci ricordano quella di Socrate. Il racconto che ne fa Tacito (Annales, XV, 63-64), richiama per molti tratti le pagine immortali del “Fedone” di Platone.
In conclusione, quella di Seneca fu nel complesso una vita esemplare, fino all’ultimo dei suoi giorni. “Ego certe -scriveva a Lucilio nell’Epistola XXVI– velut appropinquet experimentum, et ille laturus sententiam de omnibus annis meis dies venerit, ita me observo et àlloquor: nihil est, inquam, adhuc, quod aut rebus, aut verbis exhìbimus. Levia sunt ista et fallacia pignora animi, multisque involuta lenociniis: quid profecerim, morti crediturus sum. Non timide itaque componor ad illum diem, quo remotis strophis ac fucis, de me iudicaturus sum, utrum loquar fortia, an sentiam: numquid simulatio fuerit et minus, quidquid contra fortunam jactavi verborum contumacium […] Quid egeris, tunc apparebit, cum animam ages. Accipio conditionem, non reformido iudicium”
traduzione: “Vicino al momento della prova, vicino a quell’ultimo giorno che deciderà di tutti i miei anni, così veglio su me stesso e mi parlo. Fino ad oggi, dico, non ho fatto nulla di sicuro né con gli atti né con le parole, indizi lievi ed ingannevoli dell’animo. Alla morte affiderò il mio profitto. Io mi preparo coraggiosamente a quel giorno in cui, messo da parte ogni artificio, giudicherò di me stesso e farò vedere se il mio coraggio era nel cuore o sulle labbra, se fu simulazione o commedia la mia sfida gettata alla fortuna […] Le opere tue appariranno solo all’ultimo respiro. Io accetto questa condizione: non temo il tribunale della morte“. (Traduzione di Concetto Marchesi, Storia della letteratura latina, vol. II, pag. 239).
E con le parole del Marchesi voglio chiudere questo mio intervento: “Seneca è lo scrittore più moderno della letteratura latina: ed è l’unico che ci parli ancora come fosse vivo nella lingua morta di Roma.[…] Nessuno meglio di lui nel mondo antico seppe parlare a tutti gli uomini dei casi della vita e della morte e nessuno seppe operare grandi cose e scrivere più grandi parole (Concetto Marchesi, Storia della letteratura latina, vol. II, Casa Editrice Giuseppe Principato, Milano, 1957).
Il perdono è un sentimento nobile e un atto puramente umanitario col quale chi ha subito un danno o ha ricevuto un torto rinuncia ad ogni forma di vendetta o di punizione, con ciò cancellando nel proprio cuore anche ogni motivo di rancore o di risentimento.
Ma quando si è di fronte allo spettacolo delle macerie di intere città, di villaggi e di paesi rasi al suolo o di fronte alle centinaia o alle migliaia di morti disseminati e abbandonati lungo le strade e nelle piazze o ammassati e sepolti in fosse comuni, allora è davvero difficile trovare parole di perdono o di giustificazione nei confronti degli autori di così orribili massacri.
Come si fa a perdonare i nazisti hitleriani o Stalin e i suoi accoliti per gli atroci delitti perpetrati ai danni di cittadini inermi, colpevoli solo di essere ebrei, negri, omosessuali o dissenzienti e non allineati al regime? Si possono perdonare i nostri persecutori? Si possono amare i nostri nemici?
Su questo tema c’è nel Vangelo di Luca un passo famoso (Luca, 6, 27-28 e 38) nel quale si sottolinea la forza vivificatrice dell’amore “che move il sole e l’altre stelle”(come direbbe Dante): “Diligite inimicos vestros, benefàcite his, qui oderunt vos. Benedìcite maledicentibus vobis, et orate pro calumniantibus vos. Et qui te pèrcutit in maxillam, praebe et alteram […]; dimìttite et dimittèmini”(Amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi maltrattano. E a chi ti percuote sulla guancia, porgi anche l’altra […]; perdonate e vi sarà perdonato).
Ma, dello stesso Luca, c’è un altro passo, altrettanto famoso (23, 33-35), che vorrei citare: “Postquam venerunt in locum qui vocatur Calvaria, ibi crucifixerunt eum et latrones, unum a dextris et alterum a sinistris. Jesus autem dicebat: Pater, dimitte illis; non enim sciunt quid faciunt” (Quando giunsero in un luogo chiamato Calvario, ivi crocefissero lui e i due malfattori, uno a destra, l’altro a sinistra; Gesù diceva: Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno); parole da lui pronunciate durante la crocifissione, quando sente i chiodi trafiggergli i polsi e i piedi: momenti terribili rispetto ai quali ci si sarebbe aspettato un urlo disperato, di rabbia e di dolore; e invece Gesù dice le parole sopra riportate, con ciò aderendo pienamente al suo comandamento più difficile: l’amore, appunto, per i nemici, per i quali non solo egli implora il perdono ma dice anche il motivo di quella scelta.
Sicuramente nelle parole del Cristo, “non sanno quello che fanno”, vi era un richiamo al “Giudizio finale” al quale saranno sottoposti malvagi e violenti, ma fuori di questa visione escatologica, credo che qui, sulla Terra, le persone che fanno il male siano consapevoli di “quello che fanno”. Ma quando il male, commesso intenzionalmente, si chiama sterminio, genocidio o crimine contro l’umanità, allora ritengo che sia assolutamente da escludere qualsiasi forma di perdono. Si possono perdonare i nazisti per quello che hanno fatto ad Aushwitz, a Buchenwald, a Dachau, a Mauthausen?
La mia risposta è: no! Non si possono in alcun modo perdonare né si possono mai dimenticare le atrocità da loro commesse; e tuttavia dalla lettura dei testi del Nuovo Testamento e del Talmud si può evincere che il perdono possa essere concesso a chi ha commesso il male, a patto che costui si penta dell’atto compiuto.
Rispetto ma non sono assolutamente d’accordo con quanto sta scritto, intanto perché il perdono, a mio giudizio, non è un atto che possa essere delegato, e poi perché nessuno di noi ha il diritto di perdonare in nome dei nostri morti; sono stati infatti loro ad essere brutalmente privati della vita, per cui solo loro potrebbero concedere il perdono, che è un atto di grande amore, un “dono” che non può -e non deve- assolutamente essere accordato ai macellai e ai massacratori della Storia.
E dico questo, a conclusione di questa mia riflessione e a commento di alcuni versi della bellissima lirica di Salvatore Quasimodo, “Laude”, in cui, al figlio morto, che le chiede un gesto di pietà e di misericordia, la madre risponde con lapidarie parole di condanna, senza alcuna possibilità di appello:
“T’hanno scavato gli occhi, rotto le mani per un nome da tradire. Mostrami gli occhi, dammi qui le mani: sei morto, figlio! Perché tu sei morto puoi perdonare: figlio, figlio, figlio!”.