Manca proporzionalità tra la quota di omesso pagamento e l’entità delle multe conseguenti: la denuncia di Federcontribuenti Federico Garau31 Come denunciato da Federcontribuenti, di recente numerosi datori di lavoro stanno ricevendo da parte dell’Inps pesanti ingiunzioni causa omesso versamento delle ritenute previdenziali.Una situazione, vista l’entità di suddette sanzioni, del tutto spropositata rispetto al mancato introito, in grado di mettere in ginocchio tante piccole aziende. Niente che non sia previsto dalla legge attuale, secondo quanto spiegato da ItaliaOggi, dato che esiste una specifica norma che determina tale regime sanzionatorio, con multe che possono arrivare fino a 50mila euro. Pagare le ritenute previdenziali è certo un obbligo civile da rispettare, ma a mancare è l’equilibrio con la sanzione in caso di omesso pagamento, nonché un’attenta disamina delle conseguenze della sua applicazione a vari livelli, non da ultimo la possibilità di causare la chiusura di piccole realtà imprenditoriali in grado di generare lavoro. Ecco che quindi, specie nella pesante crisi economica attuale, salvaguardare l’occupazione può voler significare anche istituire un adeguato e proporzionale sistema di sanzioni per imprese/aziende che impedisca loro di fallire.
Scendi, Signore, qualunque sia il nome con cui vieni chiamato scendi sulla terra insanguinata che ingoia bambine martoriate e donne imprigionate nei loro lenzuoli. Scendi, Signore, libera da assurde atrocità le nostre sorelle afghane che conoscono solo tenebre e dolore. Per una volta sola almeno, un solo istante, scendi dall’alto dei cieli! Scendi, Signore!
Si fa presto a dire e scrivere poesia. Invece oggi, almeno in Italia, è terribilmente difficile. Se Woodstock attrasse 500000 giovani vicino a New York, nonostante giorni di pioggia torrenziale, Castelporziano fu una sconfitta inequivocabile. La stessa differenza che intercorre tra un capolavoro come Don Chisciotte e la pur simpatica armata Brancaleone. Sempre continuando le analogie con il cinema, sperando che non risultino delle forzature eccessive, a volte la poesia italiana mi sembra una partita a tennis senza pallina come in Blow-up di Antonioni (e la situazione mi appare peggiorata da quando Frost sosteneva che scrivere versi liberi è come giocare a tennis senza rete), altre volte mi sembra che i poeti siano come i protagonisti dell’Avventura, sempre di Antonioni, che dovrebbero ricercare la poesia scomparsa e invece nell’indagine si accorgono di essere interessati a ben altro. Continuando con il tennis, a volte i poeti mi sembrano trovarsi in una terra di nessuno e come certi tennisti si trovano a metà campo, si fanno prendere alla sprovvista dai passanti dell’avversario che mette loro la pallina tra i piedi, mentre altre volte gli stessi poeti si trovano troppo vicini alla rete e allora ha gioco facile l’avversario/il pragmatico/l’uomo comune della strada/ la stessa realtà a fare loro il pallonetto e fare il punto decisivo. Talvolta i poeti mi sembrano inadeguati. Altre volte mi sembra che la realtà sia spietata, assassina nei confronti della poesia, come in Easy rider, dove i ribelli fanno una brutta fine. L’Italia è nel migliore dei casi inospitale per chi voglia fare poesia, nel peggiore è addirittura repressivo, limitante, castrante, per non usare il termine abusato concentrazionario, dato che sarebbe fuori luogo parlare di campi di concentramento. Insomma diciamocelo in tutta onestà: non è un Paese per poeti, indipendentemente dai detti e da una grande tradizione culturale che abbiamo alle spalle. Diciamocelo ulteriormente: questa realtà non è poetica. C’è crisi economica, tutta una serie di problemi annessi e connessi, la guerra, una pandemia che non vede fine. Eppure allo stesso tempo la realtà contiene in sé ancora un nucleo indissolubile di poesia. Basta saperla scorgere. Basta un’alba, un tramonto, un amore sbocciato, anche un semplice gioco di sguardi. Sono a Marina di Cecina con un amico di infanzia. Passeggiamo sul lungomare. Guardiamo i bagni. Osserviamo tutta la gente nella spiaggia libera. Guardiamo una casa con 3 vani e 5 posti letto in affitto e parliamo di questo. Ci facciamo delle foto in riva al mare. Prendiamo un caffè. Abbiamo fatto discorsi seri, abbiamo parlato di noi stessi, ma ci troviamo bene anche a stare quarti d’ora in silenzio. Nel vocio indistinto c’è poesia. Nei riflessi di sole c’è poesia. In un turista che non sa dove andare e mi chiede informazioni c’è poesia. Ripensare alle mie estati d’infanzia passate proprio a Marina di Cecina e rimembrare c’è poesia. La poesia è eterna perché fa parte dell’essere umano. È connaturata all’essere umano. La poesia per dirla con le parole del sociologo Alberoni è uno stato nascente, come minimo tra l’autore e il lettore. Il problema comunque non è tanto che non ci sono persone pronte a riconoscere in sé stessi la poesia oppure nel mondo. Il problema di base è la mancanza di volontà di rispecchiarsi nei poeti italiani viventi. Tutto al più le persone assaporano le loro liriche in blog letrerari o riviste online. Ma di solito non avviene il fatidico passo di comprare il libro. Forse una delle questioni è che la comunità poetica è piccola e solo chi vi appartiene compra libri di poeti italiani viventi. Non si tratta di legittimazione culturale, di cui alcuni poeti godono, ma di legittimazione mediatica. Di poesia contemporanea ne parlano pochissimo i mass media. Sui giornali come Repubblica hanno chiuso le rubriche di poesia. Hanno poco successo. Non hanno riscontro di pubblico. Di conseguenza l’ego smisurato di diversi poeti diventa frustrazione assoluta, fallimento. Essere poeta è quasi un contentino. Assume per i più pratici quasi un significato spregiativo. Un tempo era vanto e orgoglio essere considerati tali. Chi lo fa fare di metterci la faccia? Come cantava Ron “alle ragazze non chiedere niente se il tuo nome non è sui giornali o si fa dimenticare”. A essere poeti non si guadagna nulla, anzi si spende, nella maggioranza dei casi. Ma nonostante questo qualcuno continua a essere poeta, pur essendoci molti contro e pochi pro. Nonostante tutto c’è chi scrive ancora per amore della poesia. Io mi prometto che non scriverò più poesia, nonostante ogni tanto mi si presenta una disposizione d’animo favorevole. E continuo a guardare una bella ragazza in due pezzi che prende il sole e mi perdo poi nel mare e nel luccichio dei raggi di sole, che si incontrano con le onde. Sono al mare e sono quasi felice a prendermi questo vento, a godermi questo istante. Mi prometto che non si può scrivere poesia a 50 anni ormai, così come mi riprometto sempre di non innamorarmi. Ma siamo umani e potrei anche finire per ricascarci. Nessuno è perfetto, come in una celebre battuta di un film che ha fatto epoca.
Il primo pensiero che potrebbe venire in mente quando si tratta delle statue più alte del mondo è la famosa e iconica Statua della Libertà degli Stati Uniti, tuttavia, non si trova neanche nella lista delle prime 10 più alte del mondo.
In questo post faremo un un tour virtuale delle 10 statue più alte del mondo. Iniziamo!
Roma, quello strano odore dall’appartamento: macabra scoperta tra i rifiutigio 9 giugno 2022, 4:01 PMcarabinieriUna donna ha conservato il cadavere della madre 80enne tra i rifiuti. I vicini di casa hanno infine lanciato l’allarme a causa del cattivo odore che proveniva dall’appartamento. L’episodio è accaduto a Roma, più precisamente al quartiere San Lorenzo nei pressi del civico 10 di via dei Volsci. Sono stati i carabinieri intervenuti sul posto a fare la macabra scoperta. Come informa FanPage, la figlia della deceduta risulta essere una donna di 43 anni con problemi psichici.Lascia il cadavere della madre tra i rifiuti e in stato di decomposizioneA dare informazioni dettagliate sulla vicenda è stato Il Messaggero: una donna di 43 anni con disturbi psichici ha lasciato in stato di abbandono (e di decomposizione) il cadavere della madre nel corridoio di casa loro, in mezzo all’immondizia. Sono stati i carabinieri, intervenuti dopo una segnalazione da parte dei vicini, a rinvenire il corpo.I carabinieri hanno trovato difficoltà a entrare
Che non mi si accusi di passività, se le circostanze mi schiaffeggiano il viso e io godo delle percosse, se le pareti si fanno più spesse ed io poso l’orecchio per ascoltare, se la morte si accoda al mio passo ed io sono pronta, e la invito a guidare la salita. Non sono inerte ai fenomeni, sono trafitta, sono reticolo leggerissimo, meraviglia assente, ma infima e senza autorità; filtro di intuizione gassosa, pan-direzionale, alleggerita pure da se stessa; che non si dica che voglio essere qualcosa, che sarò o che sia già stata più di una mite inconsistenza, senza traccia neppure ai piedi dell’ombra. Che rimanga piuttosto un pulviscolo sottile sospinto per sbaglio dal mio respiro quieto che niente smuove e niente urta, ma che sopravvive senza senso – una lancetta soltanto – nell’inutile sonno di una gigante rossa.
Sole tiepido che stampa macchie sulle mani, ma i brividi sono per l’assenza del tocco alcuno. Oggi tutto funziona al contrario, il derma freme per ciò che non c’è; le unghie scavano in aria e trovano qualcosa, di più.
L’uomo solo dentro la casa è cavità che si riempie del vuoto, una grotta del non sentire la cui volta inorridisce fra le icone dipinte un tempo con le dita. Lui sottovoce – già presagio di qualcosa – guarda le bestie rossicce impresse sul muro e loro suonano per lui: una fermentazione aleatoria. L’aria trema ancora per poco.
Fuori dalla casa è il silenzio, pulito, un soffio di vetro innaturale desta le anatre più coraggiose: volgono il capo verso la strada e d’un tratto comprendono come gli uomini siano spariti per sempre.
Svanire? Forse, e senza preavviso. Il processo fermentativo della solitudine li ha sublimati nell’atmosfera, sparpagliati in ogni singola particella, lasciando i letti disfatti, le dita scolpite nel barattolo di crema, alcuni carrelli che non fanno più alcun rumore.
Adesso anche l’epidermide terrestre può vibrare per ciò che non c’è, per l’inspiegabile vacuità di massa, per la nuova mite assenza.
Questo libro racchiude, in brevi riflessioni, uno sguardo disincantato sul mondo e sull’uomo occidentali. Il Sutra, nella cultura letteraria e religiosa dell’India antica, è una raccolta di aforismi di carattere religioso, letterario, filosofico, scientifico. Abbiamo così, in Oriente, il Veda ̄nta Sutra, il più noto Ka ̄ma Sutra, e poi il Sutra del loto, il Sutra del diamante, ecc. La forma aforistica è insomma la più adatta per rappresentare, in modo meno petulante possibile, la condizione drammatica e a volte grottesca dell’esistenza umana e della vita sociale; del resto, come dice qui l’autore appellandosi a un noto proverbio, “l’aforisma è un bel gioco perché dura poco”. [Quarta di copertina]
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C’è qualcosa di più difficile da capire del pensiero profondo ed è il pensiero superficiale: è difficile capire a cosa serva.
C’è una cosa che noi uomini non riusciamo a percepire perché troppo più grande di noi: la nostra piccolezza.
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Tascabile, maneggevole, difficilissimo da chiudere per la voglia di continuare a leggere e a leggere, questa nuova pubblicazione di Roberto Bertoldo affascina per la sintesi, la leggerezza di scrittura e la profondità, al contempo, dei contenuti: è la sconcertante bellezza dell’aforisma, genere letterario scritto da pochi, perché necessita di un certo modo di essere non comune, che ha la capacità di un fulmine a ciel sereno condensato in poche parole o pochissimi righi, in voga molto tempo prima che un social limitasse il numero dei caratteri a 140 – 280 nello scrivere sulla sua piattaforma e lo rendesse, almeno nel ricordo della brevità di esposizione del pensiero, popolare. Già l’esergo – di Miguel Hernández tratto da Eterna Ombra – è una visione forte: “Io sono un carcere con una finestra \ che dà su un gran deserto di ruggiti.” che la dice lunga sulla concezione e sul pensiero dell’autore sul mondo che lo circonda e sui suoi abitanti.
Roberto Bertoldo, poeta, scrittore e saggista di filosofia, cattura il lettore anche in pochissime battute, senza nulla togliere alla dotta penna dei suoi editi precedenti. Anzi. Con Sutra d’Occidente viene messo in luce il lato più sagace e ironico dell’autore, che non si piega al pensiero dominante o all’opinione che va per la maggiore, che non incensa, né si ingrazia nessuno, né tantomeno indulge verso alcun argomento o categoria; duecentotrenta pagine di sé, in cui si susseguono e si inseguono strali, consigli, pensieri e riflessioni e dove si palesa la bravura di dire tanto e nonostante ciò non perdere pienezza di significati e serietà, a fronte di un’epoca nella quale si riempiono spazi con parole senza senso. Assolutamente da leggere, rubando tempo a tutto il resto, aprendo le pagine a random, per respirare. [Angela Greco AnGre]
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Non sono affidabili i gruppi culturali, sono sempre e soltanto gruppi di potere i cui componenti finiscono per osservarsi e analizzarsi l’un l’altro invece di osservare e analizzare il mondo.
Occorre appartenere a quel genere di persone che sono clementi con i sottoposti e intolleranti con i capi.
Non c’è nulla di più bello di ciò che sentiamo autentico. La seduzione intenzionale, in arte come in amore, adesca solo gli stupidi e i deboli.
Non è vero che non ci sono più i maestri di pensiero, la verità è che non esistono più i loro discepoli.
Lo scribacchino nostrano scrive una poesia e si sente Dio, scrive un romanzo e si sente Dio, scrive un saggio e si sente Dio. Eppure Dio, essere perfetto e proprio in virtù della sua perfezione, non ha mai scritto né poesie, né romanzi, né saggi. E, beninteso, neppure aforismi.
Mi piace ascoltare il rumore della pioggia sul tettuccio della macchina mentre, seduta all’interno, guardo il mondo fuori e mi allontano dalla realtà materiale che mi attanaglia quotidianamente. Posso indugiare con lo sguardo sulle gocce di pioggia che diluiscono la loro veemenza adagiandosi sui vetri ed enfatizzando un paesaggio incredibilmente liquido. Le strade luccicanti riflettono lembi di cielo che rischiarano il grigio cupo dell’asfalto con barlumi di chiarore alternato a pozzanghere umide di fango. Non muovo un dito per pulire i vetri perché voglio nutrirmi anch’io di quell’acqua benedetta che scende dal cielo e irrora ogni sozzura terrena. Un albero alla mia sinistra agita debolmente rami coraggiosi che si rinfrescano sotto lo scrosciare continuo della pioggia incessante. Il verde appassito delle foglie trae vigore e promette nuove primavere. Osservo, ascolto, sono un’unica sostanza nella materia circostante e sono felice di non appartenermi, ma di essere parte di un’entità che non sono io. Non penso, perché il mio spirito è immerso in un panteistico e sublime incontro con la terra e gode di attimi di eterea inconsapevolezza. La pioggia continua a cadere, ora con più violenza. Buca i vetri dell’auto di ghirigori impazziti, presto sostituiti, presto dileguantisi in misteriose evaporazioni. Raramente passa qualche macchina ed il rombo copre il ticchettio, rompendo il mio sogno di compenetrazione in una natura materna che accoglie i miei pensieri stanchi e li culla… in eterno. Maria Rosaria Teni
Filtrano i raggi della luna, questa sera, nel mio salotto.
Attraverso la finestra ne intravedo il chiarore e magicamente mi rivedo in una realtà che ho vissuto tanto tempo fa e che ricordo ancora con enorme nostalgia.
Quante sere ho trascorso in questa stessa stanza a pensare al mio futuro, al mio presente di allora che oggi è già passato; a tutta la mia vita, a come sarebbe stata, a cosa sarebbe successo e oggi mi ritrovo, dopo tanti anni, seduta ancora su quella poltrona a rendermi conto di aver trascorso più passato rispetto al futuro che mi avanza e avverto che la mia vita sta scivolando in un letto di fiume che sfocerà in un mare profondo, senza confini, circondato all’orizzonte da bagliori evanescenti.
La luna, ricettacolo di pensieri, abbraccia questi momenti che appartengono a ieri e che vivo oggi nell’incertezza di un domani che ha il sapore beffardo di un’illusione.
Oggi sono andato in facoltà. Sono andato in biblioteca per studiare. In realtà ero molto distratto. Non ero assolutamente concentrato. Non ho combinato niente. Sono uscito fuori dall’aula. Mi sono messo a fumare in un corridoio. Poi avevo degli spiccioli e ho preso un cioccolato al distributore automatico di bibite. Mi si è avvicinato un tipo strano, che conoscevo di vista. Aveva gli occhi infossati. Aveva i capelli a caschetto pieni di forfora. Aveva delle basette e una barba incolta. Emanava un odore nauseante. Aveva indosso un piumino rammendato, dei jeans sporchi, delle scarpe di camoscio macchiate dal fango. Due ragazze lo hanno guardato. Una ha sussurrato nell’orecchio dell’altra qualcosa e si sono messe a ridere. Era un tipo strano, ma nella mia facoltà non c’è da stupirsi di niente. Con la sua voce gutturale questo tizio si è messo a parlare dell’aumento delle tasse universitarie. Poi mi ha detto che io avrei dovuto fare il teatro: è un’esperienza formativa e può anche essere un’autoterapia. Quindi mi ha detto che lui non ha potuto fare l’occupazione e mi ha chiesto come è andata. Io gli ho risposto che l’occupazione era durata quindici giorni ed era difficile riassumere ciò che era successo in poche frasi. La verità è che non avevo molta voglia di parlare questo pomeriggio. Il tipo strano se ne è andato. Io mi sono messo a pensare all’occupazione. Quelle notti avevamo parlato, ballato e scherzato. Erano state notti di sacchi a pelo, litri di vino, odore di fogli ciclostilati, fax, volantini, bacheche di annunci, canzoni stonate al suono di una chitarra scordata e suonata senza peltro, commistione di dialetti, accenti e cadenze di noi studenti fuori sede, provenienti da tutte le regioni di Italia. L’occupazione era tante cose insieme. Avevamo parlato e discusso di Woodstock, Bob Dylan, Leonard Cohen, Frank Zappa, beat generation, controcultura, politica internazionale, il sessantotto, il settantasette, il maggio francese, il terzomondismo, la questione israeliana, lo zen, il postfemminismo, la parcellizzazione del lavoro, l’alienazione, Tondelli, Gramsci e l’intellettuale organico, seminari autogestiti, democrazia dal basso.
Quindi mi sono messo a pensare che quella occupazione me la sarei ricordata per tutta la vita. Forse tra molti anni avrei avuto nostalgia di quei momenti, di quei giorni. Forse li avrei raccontati. Forse avrei scritto qualcosa. Poi sono ritornato in aula studio. Ho smesso di pensare e mi sono rimesso a leggere.
IL PIRATA:
Parcheggiai la macchina. Guardai il cielo. Dopo cinquanta metri mi fermai all’ombra dei cipressi per accendermi una sigaretta. Quindi varcai la soglia del cimitero. Dovevo fare quella visita. Ci andavo una volta ogni tre mesi. Sapevo dove era la tomba, perché il cimitero di quel paesino era piccolissimo: trecento tombe o poco più. Avevo notato quella tomba al primo colpo d’occhio. Era proprio subito dopo il cancello. Se la salma fosse stata in un loculo allora avrei sarebbe stato più difficile per me. Mi fermai davanti alla tomba. Ero lì raccolto nei miei pensieri quando si avvicinò una signora. Era sua madre. Era una donna dall’aspetto ancora giovanile. Aveva gli occhi spiritati e dei capelli molto lunghi raccolti con una coda di cavallo. Indossava un abito da sera dai colori smaglianti e calzava delle ballerine. Non era una donna bella perché aveva un naso adunco. Nell’aria c’era lo stridio dei gabbiani e il guaito di un cane in lontananza. Fu lei ad attaccare discorso.
“Conosceva mio figlio ?”
“Si. Eravamo compagni di università. Era un bravissimo ragazzo. Il destino è stato molto crudele. Era prossimo alla laurea. Gli restava da discutere soltanto la tesi.”
“E’ la prima volta che la vedo.”
“Io abito a venti chilometri da qui. Poi al funerale non c’ero. L’ho saputo qualche giorno dopo. Ero in vacanza quando è successa la disgrazia. Suo figlio era un ragazzo brillante. Avrebbe avuto successo nella vita!!! Ne sono sicuro. Era capace sia di parlare di cose serie che di raccontare barzellette e di fare di ridere tutti quanti. Ogni volta che apriva bocca riusciva a incantare con la sua cultura.”
“Mi piacerebbe avere giustizia. Mi piacerebbe vedere negli occhi chi mi ha strappato mio figlio. Mi piacerebbe che la pagasse. Invece sono passati due anni e gli inquirenti non sono ancora riusciti a farci sapere nulla.”
“Quel pirata avrebbe dovuto costituirsi. Come si fa a vivere con quel senso di colpa per tutta la vita ?”
“Caro ragazzo, questo è un mondo assurdo. Talvolta sfugge a qualsiasi logica. A volte mi metto a pensare che quel disgraziato non l’ha soccorso ed è scappato via perché era ubriaco o drogato. Forse è scappato via perché aveva l’assicurazione scaduta. Probabilmente non saprò mai i motivi per cui non l’ha soccorso ed è fuggito. Io penso che innanzitutto sia questione di civiltà. Anche i tedeschi e gli inglesi si ubriacano ogni weekend, però non si mettono alla guida di una macchina. Alcuni giovani italiani invece si sballano e poi si mettono a correre con le proprie macchine. E poi la giustizia che fa? Se riesce a trovarli li punisce con un semplice omicidio colposo. Ma per me questo è stato un omicidio volontario.”
“Ci sono fatti di cronaca che fanno pensare. C’è stato un tale disoccupato cronico che ha nascosto il cadavere della madre anziana per ritirare ancora la pensione. Un altro tale invece ha rinchiuso e recluso per anni il figlio gravemente disturbato in una stanza. Infine un altro tizio ha ucciso la moglie demente e invalida da anni. Non c’è limite alla malvagità ed all’abiezione umana. Basta leggere la cronaca nera. Basta guardare i telegiornali.”
“Adesso devo andare. Mi fa piacere che qualche amico di mio figlio venga ancora a fargli visita. E’ passato del tempo. La gente dimentica in fretta, anche le disgrazie.”
Ci salutammo. Lei si incamminò verso l’uscita. La madre non si era accorta di niente. Io in realtà suo figlio non l’avevo mai conosciuto. Avevo soltanto letto gli articoli di giornale quei giorni. Era da lì che ero riuscito a sapere diverse informazioni sul conto di quello sfortunato ragazzo. Avevo comprato tutti i giornali in quei giorni.
Ero solo nel cimitero. Anzi a dire il vero eravamo solo io ed il custode. Solo io sapevo che cosa era successo quella sera. Nessun altro. La polizia non era riuscita a risalire al colpevole. Ero io l’unico a sapere. Ero io quel pirata della strada. Ero solo. Le lacrime cominciarono a rigarmi il volto. Guardai per un attimo i filari di vigne, che circondavano il cimitero. Guardai il cielo. Le stelle erano appena percepibili. Tra poche ore da semplici comparse sarebbero diventate delle protagoniste nel cielo. Nel frattempo il sole tramontava. Incendiava le nuvole. Pensai per un attimo a quando ero bambino e mi facevo ingannare dal moto apparente del sole. Poi ritornai nel mio incubo e mi chiesi per quanto tempo ancora sarei riuscito a convivere con quel peso, con quel segreto.
Calpestio della mente
acceso dalla tonalità
d’un si bemolle fantastico.
Lascia trapelare
la ludica sfumatura d’un soffione
appeso a un lembo di cielo
mentre zig zagando lastrica
un sogno inappagato
@Silvia De Angelis
Il successo deriva da due fattori: ambizione e costanza. Questo è ciò che contraddistingue il dottor Emanuel Ferrari, giovane neurochirurgo di origini italiane che ambisce a essere primario in uno degli ospedali migliori al mondo: il Johns Hopkins. La sua carriera è in ascesa e non sembra conoscere una battuta d’arresto.
Quando metterà piede al JH le sue certezze inizieranno a sgretolarsi, a partire dalle fondamenta.
Una regina algida e bellissima invaderà i suoi pensieri e le sue sicurezze si dissolveranno, perché il loro legame è quanto di più sbagliato possa esserci.
Il prezzo da pagare per lei sarà altissimo e i compromessi inimmaginabili. Nel momento della resa dei conti riuscirà Emanuel a liberare la sovrana del suo cuore dal castello in cui si è barricata?
BIOGRAFIA AUTRICE:
Sarah nasce in una città di mare a cui è molto legata in un giorno di primavera. Nella vita è un matematico, ma questo lato razionale non è l’unico che l’ha portata avanti, e non nasconde che non l’ha mai appagata completamente. Coltiva da sempre un amore per la letteratura e la lettura, e in particolare per i romanzi rosa, infatti le piace dire che un tempo era “Harmony dipendente”. La scrittura le ha fatto compagnia in momenti molto difficili e di forte sconforto, da cui può affermare di essere uscita più forte di prima.
“La vita mi ha preso a sberle, ma le ho risposto a tono.”
Angela Greco – AnGre è nata il primo maggio del ‘76 a Massafra (TA), dove vive con la famiglia. Ha pubblicato: in prosa, Ritratto di ragazza allo specchio (racconti, Lupo Editore, con prefazione di Michelangelo Zizzi, 2008); in poesia: A sensi congiunti (Edizioni Smasher, con una nota di Roberto Ranieri, 2012); Arabeschi incisi dal sole (Terra d’ulivi, 2013); Personale Eden (La Vita Felice, con prefazione di Rita Pacilio, 2015); Attraversandomi (Limina Mentis, con una nota di Nunzio Tria, 2015, con ciclo fotografico realizzato con Giorgio Chiantini); Anamтrfosi (Progetto Cultura, Roma, 2017); Correnti contrarie (Edizioni Ensemble, Roma, 2017); Ora nuda, antologia 2010-2017 (formato elettronico, Quaderni di RebStein LXVII, 2017); Ancora Barabba (plaquette, collezione Bocche naufraghe, YCP Ed., 2018); All’oscuro dei voyeur (YCP, 2019, prefazione di Franco Pappalardo La Rosa); Arcani (Achille e La Tartaruga, 2020, prefazione di Franco Pappalardo La Rosa); Ananke (Ladolfi, 2021, introduzione di FabrizioBregoli); Aiguiller (Ladolfi, 2022). E’ presente in antologie, siti e blog.
Ha realizzato: Uscita d’emergenza (2014) e Generazione senza (2014), libri d’artista; Irrivelato segreto (2015), opera poetico-fotografica su alluminio; Messa a fuoco (2015), fotografia su legno, per la sensibilizzazione sul tema Ulivo di Puglia.
Quando noi riluttanti penetreremo a forza entro il regno dei morti e ci avremo le verruche e i pidocchi e i nostri cancri proprio come ce l’hanno i morti quando noi scenderemo sotterra con il naso turato a raggiungerli i morti gustate che avremo le funebri onoranze delizie rinfrescanti per i morti quando coi denti molli morderemo la polvere sbriciolata dalle ossa dei morti e ci avremo le orecchie tappate e il muso intinto nella birra nel “Bar delle bare”- ritrovo dei morti quando il corpo sarà sfiancato dagli sforzi midollari che slombano i morti col cervello poverello bucherellato come ’na groviera specialità della casa dei morti quando il coso sarà moscio e tutti i pezzi fuori uso non si scopa tra i morti e la schiena sarà gibbosa e la carcassa deforme mica gli piace lo sport ai morti andremo a trovare i vermoni e gli insetti che si mangiano i morti trascinandoci la bara fino alla nostra ultima stazione là dove bofonchiano i morti quando le bizzoche avranno recitato le dieci avemaria che rassicurano i morti e quando avremo rimesso le nostre cause alle carte notarili che li escludono i morti legando i nostri beni come i nostri inventari eccoli qua i bagagli dei morti ai sopravvissuti che infreddoliti come noi già fanno eccì ma il naso gli cola molto di più, ai morti Quando noi riluttanti penetreremo a forza entro il regno dei morti insomma ci toccherà come lugubri lumiere spegnerci proprio come fanno i morti d’improvviso chiuderemo di scatto il circuito della vita e allora così ci aggregheremo ai morti e le nostre famose ultime volontà noi le faremo abbrustolire sopra il fuoco dei morti e tu ti rivedi bimbetto e sorridi alla terra che fa da coperchio ai morti e sorridi al cielo tutto azzurro tutto luci dimenticato dai morti e sorridi agli spazi increspati del mare che inghiotte in un boccone i morti e sorridi alla fiamma la dolcissima incendiaria si sbriciolano in cenere i morti ti sorride la mamma ti sorride papà eccoli qua già morti e i cuginetti e i micetti e i nonni e le nonne non dirmi che non lo sai che sono tutti morti e il buon cagnetto Empy e il cagnolino Dudù i morti fanno Bubù e Bubù e non sono meno morti i suonati professori della tua giovinezza sono da tempo belli che morti e amen per il beccaio amen per la tabaccaia è una città di morti e poi eccoti là ragazzo e allora vai alla guerra dove trovi un esercito di morti e poi ti sposi e metti al mondo chissà quanti futuri morti con lo stipendio mica male tu vivi e già prosperi adesso sulla pelle dei morti ed eccoti canuto e allargato e panciuto tu che detesti i morti e ti prendono i malanni e gli acciacchi miserabili ti preoccupano i morti tossendo e tremolando a poco a poco tu degeneri già ti avvicini ai morti fino al dì che poi sarai fottuto e senza scampo e allora con riluttanza giù ti ficcheranno poi tra i morti intento a percepire la prima sensazione che non è per i morti alla fine ti piacerebbe recuperare la memoria di tutto perché ti possa separare dai morti lodevole proposito! giusto lavorìo! coscienza esemplare di cui sorridono i morti però perché sempre l’ora fatale ci distrarrà verrà
La demenza instillava progressivamente i suoi tarli nel tuo ormai debole cervello, risucchiato fatalmente in una spirale di smemorati attimi di vita. Mi guardavi, ma l’immagine del mio volto riflessa in te, ritornava rimbalzando sullo schermo piatto della tua mente priva di emozioni. Il tuo sguardo impermeabile era un segno evidente che dimostrava che in realtà tu non sapevi chi fossi io, tua figlia, la creatura nata da te, amata da te con viscerale trasporto, accudita e protetta da te, mamma perfetta e amorevole. Tutto questo eri tu, mamma, quando l’avvoltoio della malattia ha carpito la tua essenza, ha rapito i tuoi sentimenti per disperderli in un vento di immateriale sostanza. Solo le tue mani riuscivano ancora a parlare di te, di come eri stata; morbide mani profumate di mamma, odorose di carezze tenere, ricche d’amore puro. Mani che, ancora composte armoniosamente, si muovevano tuttavia a fatica, non assecondando più un’esigenza ma impulsi involontari e inconsapevoli. Le mani alacri ed operose della mia infanzia, che ora stringevo nell’estremo saluto e che restavano inerti, fredde di gelida impronta.
Oggi è la Festa della Mamma! Fluiscono auguri da ogni parte: social, biglietti, messaggi, slogan, fiori, tanti… Ad ogni frase letta, ad ogni augurio espresso, nel mio animo risuona un’eco di nostalgia che si riacutizza e non riesce a trovare pace e rifugio nell’oasi del silenzio. Da quando non ci sei, solo la forza di essere madre a mia volta mi sostiene nell’affrontare la tua assenza e nei passi di mia figlia, io ritrovo i miei passi vissuti con te. Allora arriva il momento in cui mi fermo, rifletto e penso che un modo per sentirti ancora parte di me è scrivere, tirare fuori tutte le parole che non ti ho detto, per mancanza di tempo, per inutile pudore, per inconsapevole superficialità, perché c’è troppa frenesia nel quotidiano per parlare di sentimenti, perché si dà per scontato che la mamma c’è e ci sarà sempre… No, non è così! Niente ci sarà sempre. La caducità è insita nella vita fugace e illusoria e niente rimane immutato e immutabile. Restano soltanto le parole, quelle impresse su una pagina, scritte per fissare i momenti che divengono immortali attraverso termini che traducono ricordi e decodificano, comunicandole, le emozioni. E allora, vincendo una personale ritrosia, su questa pagina che ti dedico, mamma, in questa lettera ideale che ti dono e che spero irrazionalmente ti raggiunga, dischiudo uno squarcio nel mio smisurato sconforto e allora sì, ti ritrovo e capisco realmente che tu ci sei, sempre, e soprattutto che si sarai per sempre. Maria Rosaria
Giorni pervasi di malinconia, giorni che si frantumano su pensieri e immagini sfocate e che rivelano cocci di rimpianto… A volte una pagina può rappresentare quel tappeto da cui si raccolgono questi piccoli residui di vita che restano dopo tanti attimi, dopo ore lunghe o brevi, dolorose o liete, vissute o sognate… Giorni in cui vorresti che il tempo fosse rimasto cristallizzato a quell’istante, impresso in una retina virtuale da cui non si può cancellare nulla… Giorni in cui il dolore è stato così forte da desiderare un vento impetuoso per spazzare via tutto, in un rapido balenare di follia, in un volteggiare imbizzarrito da cui non si esce che tramortiti… Giorni che si avviluppano su scorci di momenti che sfumano e raggiungono un cielo che non ha confini…Giorni che sono onde, sussurri e voci in un mare liquido di emozioni che non si toccano ma si vivono o forse si sognano, perché cosa altro è la vita se non un sogno?